2006-12-22

Addio al Mito della Strada

Oltre che per la notizia del mio trasferimento, il 1° maggio 2006 è importante per un altro evento a Pechino, ovvero la riforma dei taxi. Questa riforma lanciata dal governo copre tutto il Paese, in generale rivoltando il sistema dei taxi e aumentando le tariffe secondo l’inflazione delle grandi città. Pechino è la città colpita dalla riforma più profonda.

Il sistema dei taxi a Pechino prima di questa data era quantomeno peculiare: tre livelli di tariffe dipendenti dalla qualità della macchina e, in generale, dalla professionalità del tassista. 2 RMB al km per le macchine nere, grandi audi o BMW con vetri oscurati e autista con guanti, le auto dei veri dakuan (大款), i nababbi. Poi i taxi standard, le vecchie Santana e Citroën rosse o le nuove Sonata ed Elantra a strisce, da 1,60 RMB. E infine il Mito della Strada, l’intramontabile e indistruttibile Xiali, da 1,20 RMB. Tariffa fissa 10 kuai per i primi cinque km. La macchina dei tassisti sordidi e ringhiosi. La macchina dei passeggeri squattrinati, degli studenti, dei free-lance, quella che si cercava sempre sulla strada e quando si fermava un taxi costoso lo si mandava via. “Mica ho soldi da buttare, io”.

Le Xiali TJ7100 entrò in produzione a Tianjin, nella fabbrica della Tianjin Xiali (天津夏利), nel 1990, modello copiato spudoratamente dalla Daihatsu Charade (pare su licenza regolare della Daihatsu). L’anno seguente venne presentata la berlina TJ7100U. Immediatamente di grande successo, la nuova automobile divenne ben presto una delle macchine più vendute nella storia cinese, la macchina del Popolo, accessibile alla nuova classe media (al momento se ne possono trovare a 4000€ nuove di pacca), acquistata da numerose città – tra cui Pechino – come taxi standard, ed negli ultimi anni esportata persino in Siria e nelle Filippine.

La stragrande maggioranza delle Xiali di Pechino erano taxi rossi, in armonia con i colori della città. Qualcuna si permetteva un arrogante rosso metallizzato. Qualche raro gagà poi si sbizzarriva, ed ecco le rarissime Xiali azzurre metallizzate. Ma il top dei top, la Xiali della Malasorte, era la Xiali viola metallizzata, la macchina più kitsch del mondo. Ero sempre alla ricerca di quella, per fare l’alternativo. Quando rimediavo l’agognato passaggio, metà delle volte il tassista era ubriaco e puzzava di baijiu, in alternativa puzzava d’aglio e sbagliava strada. Mai una volta che mi sia riuscito di sfatare l’aura di sfiga che circondava la Xiali viola.

Ebbene, dal 1° maggio 2006 le macchine nere da 2RMB/km diventano i taxi standard. Ciò significa che tutte la Santana, le Sonata e le Elantra alzeranno le loro tariffe del 25% in una botta sola, trasformando Pechino da una delle città più economiche a una delle più care in quanto a taxi. Ma soprattutto, la riforma condanna a morte le Xiali da 1,20 RMB, che non potranno più circolare.

E’ un giorno di lutto per Pechino, un giorno di lutto per chi ha pochi soldi in tasca, e deve pagare una fortuna i taxi, e per chi semplicemente amava il Mito della Strada, la Macchina del Popolo, l’indistruttibile, strettissima, odorosissima, polverosissima e scassatissima Xiali.

Ci mancherai, piccolo mostro della strada. Ci consola il fatto che con la tua dipartita l’aria di Pechino sarà un po’ più pulita grazie ai nuovi modelli catalitici, e la sicurezza che il tuo spirito ancora vive nei taxi di Tianjin, e nelle strade di Damasco, Manila, e chissà quali altri Paesi nel Mondo.

Un ganbei per te, e per la tua memoria!

2006-12-14

1° maggio 2006

E’ il primo di maggio del 2006, e sono a Nanchino per un meeting con il mio capo. In Italia si fa vacanza. Anche in Cina si fa vacanza, la Festa del Lavoratore è internazionale, e in Cina c’è un’intera settimana di vacanza. Ma per noi no, si lavora anche oggi, peraltro senza alcuno straordinario pagato, e ci tocca pure ringraziare. Questa la logica dei brianzoli…

Ma non sono arrabbiato, anzi. Perché oggi gioco la mia carta. Alla fine del meeting, quando il mio capo sembra di buonumore, getto la mia mano a lungo preparata. “Siamo in due a Shanghai, vado una volta al mese a Pechino, ma il tempo per seguire il mercato non basta, e inoltre è una spesa ingente per l’azienda… credo sarebbe proficuo il mio trasferimento”

La risposta è veramente insperata: “Va bene, se pensi sia così, organizzati e parti quando vuoi”

Mi prendo qualche mese, per concludere qualche cosa a Shanghai ed esaurire il contratto con la casa. Non mi sembra vero, è talmente bello che non ho nemmeno fretta di partire, quasi voglio gustarmi lungamente l'attesa. Decido la data: il 5 agosto lascio casa a Shanghai, e la sera stessa entro in casa nuova a Pechino. Ormai è fatta: poker d’assi, il banco sbanca.

E io mi preparo alla partenza.

2006-12-08

Le Birre Cinesi

La Cina, come ormai quasi ogni Paese al mondo, offre una selezione di birre locali più che interessante. La birra non è una bevanda tradizionale, ma venne portata dagli europei nel XIX sec.. Quando gli europei strapparono le concessioni all’impero e impiantarono le loro colonie, spesso si assicurarono la produzione di beni necessari alla sopravvivenza, ed è così che nacquero le prime birrerie della Cina. Fatto poco conosciuto, la più antica birra cinese è la Hapi (哈啤), impiantata ad Harbin dai russi nel 1900; segue la Tsingtao (青岛), probabilmente una delle birre più vendute al mondo, impiantata nel 1903 dai tedeschi. Questa la si trova dappertutto, dalla bettola di Shanghai al cantonese di San Francisco al wenzhounese di Milano. Più recenti sono la Snow Beer (雪花啤酒), una delle più economiche, e la Reeb Beer (力波啤酒), quella col nome più idiota; più decine di altri marchi minori. Anche Pechino ovviamente ha le sue birrerie: la storica Yanjing (燕京), la birra tradizionale di chi mangia yangrouchuan’r per strada, birra sponsor delle Olimpiadi del 2008, e la Beijing (北京啤酒).

Birra in cinese si dice pijiu (啤酒), jiu è alcolico, pi semplicemente suonava simile a beer, anche se qualcuno sostiene che in tempi antichi significasse "umile" o persino "di poco valore". La traduzione non casca malissimo, visto che la birra è oggi la bevanda di massa che uniforma tutti - non è tradizionale come la baijiu, non è elegante come il vino, e nemmeno costosa come il whiskey o la vodka; costa poco, è disponibile ovunque, è giovane e moderna o almeno così la fa sembrare il marketing. Il secondo mercato al mondo per la birra, che presto diventerà il primo considerato il ritmo con cui i cinesi aumentano le loro abitudini alcoliche, abbassando il prezzo unitario e aumentando la spesa complessiva (in altre parole, meno qualità, più quantità), attrae anche i grandi giocatori internazionali: c’è l’americana Budweiser, l’olandese Heineken, la danese Carlsberg, le giapponesi Asahi e Suntory, tutte con un marketing ancora più aggressivo e spudorato dei concorrenti locali, un marketing che tappezza ristoranti e metropolitane di gente felice che beve birra a tutte le ore. Ma non li criticheremo, quest'oggi, visto che succede ben di peggio con i superalcolici.

Il gusto asiatico è diverso da quello europeo, tuttavia, e nonostante l’ampia offerta di marchi praticamente tutte le birre sono lager, bionde dalla gradazione alcolica che varia dal 3% al 4,5%. Qualcuna è più dolce, un'altra più amara, ma la sostanza è quella. Ecco allora che sono nate le birre della nuova generazione, le scure: i primi sono stati quelli della Xinjiang Beer (新疆啤酒): il Xinjiang, regione musulmana della Cina, è apparentemente il produttore di massima qualità di alcolici del Paese. A fianco alla classica lager, peraltro una delle migliori, la Xinjiang Beer ci mise la heipi (黑啤), la birra nera. Gli stranieri ci si buttarono sopra, al punto che adesso anche la Tsingtao ha fatto uscire una versione scura, in bottiglia singola, e ancora difficile da trovare data la diffidenza del mercato. E sapete cosa? Sarà la noia della lager, ma le scure cinesi sono proprio buone: a quando le prime rosse?

Certo va detto: se siete abituati all’Europa la birra cinese non vi piacerà; in molti la definiscono “piscio freddo”. Questo offre il mercato, se non vi va c’è sempre la Hoegaarden importata al triplo del prezzo. Ma se volete un consiglio, andate a cercare una catena di ristoranti chiamata Goubuli (狗不理): hanno diversi locali a Tianjin e uno a Pechino. Hanno una birra fatta apposta da loro, a loro nome, e costa il doppio di una birra normale. Be’, che ci crediate o no, quella è fatta in Cina, eppure è buona, la birra cinese più buona che ci sia.

2006-12-01

Eravamo quattro amici al bar

Un lato meno conosciuto di Sanlitun sono i suoi baristi. Nelle strade laterali della jiuba jie sono sorti numerosi ristoranti e bar aperti da stranieri, e i proprietari/gestori costituiscono una piccola comunità fissa della zona.

Quelli che più spesso vedo sono tre, tre amici che spesse volte, abbandonando il proprio bar prima o dopo l’ora di chiusura, vanno a cercare gli altri per sedersi al banco o a un tavolino e chiacchierare e bere insieme. Tre amici inseparabili. Sasha è stato già nominato, serbo di Belgrado che certe volte pare uscito da un film di Kosturica. Nelle competizioni dalla sua ha il tempo atmosferico, nel senso che il suo bar è all’aperto e a stare tutto il giorno sotto il sole o al freddo si smaltisce di gran lunga meglio.
Poi c’è Luigi, veneto di Verona, che ha aperto una gelateria nella parte nord della jiuba jie. Dalla sua ha la stazza fisica, che è ragguardevole.
E infine Stefano dell’Aperitivo. Se sei un italiano a Pechino e non conosci Stefano, vuol dire che non hai idea di dove sei. Tutti lo conoscono, perché è nel suo locale che tutti gli italiani vanno. Stefano è quello che ha importato lo spritz in Cina, e per questo è anche finito sul Corriere della Sera. Dalla sua ha l’origine: anche lui veneto, sì, ma delle parti di Bassano del Grappa, e ho detto tutto.
Li incontro spesso nelle sere infrasettimanali, specialmente d’estate, dopo la chiusura del Kiosk che avviene attorno alle nove e mezza, li si trova a un tavolino con una heineken davanti, a parlare del più e del meno, con Stefano che si accalora sui mali del mondo e Sasha che sorride senza parlare, come uno che sa qualcosa che gli altri non sanno.

Poi c’è Vivi, brasiliana con un sorriso che è un mattino di sole sull’Oceano. E’ lo chef dell’Alameda, uno dei ristoranti fusion più di successo della città. E lei è una delle uniche chef donne di Pechino. La si vede passare per la strada del Nali Mall di tanto in tanto, e non c’è una volta che non sembri felice, e mette allegria a tutti quelli che la vedono.

Poi c’è Carlos, un basco venuto a Pechino per aprire un bar di tapas; quando ha fatto successo ha anche aperto una paninoteca più in su. Scurissimo di pelle, con gli occhi nerissimi, porta un po’ di Spagna in Sanlitun con il suo accento marcatissimo. Con lui lavora Raul, un ragazzo giovane venuto dalle Canarie a Pechino per seguir la fidanzata cinese. Alto, scuro di carnagione, lineamenti scolpiti e fisico asciutto, e abito impeccabile in ogni momento, mai una volta che si sfili la giacca o la cravatta. Precisissimo e sempre gentile, il manager ideale di ogni ristorante. Sotto il Tapas c’è un banchetto tipo pescheria, coperto di ghiaccio e con una melanzana, un cespo d’insalata, un pesce e un pezzo di carne, o altre cose a variare ma mai più di quattro o cinque. Dietro il banco uno straniero sui quarant’anni in maglietta bianca e bandana in tesa, nazionalità indefinibile, sorriso. Sta tutto il giorno dietro il banco, mai visto un cliente da che vado in Sanlitun. E lui sorride.

Nella parte sud di Sanlitun c’è il nuovo Bookworm (il primo, dietro al Poachers, si è trasferito di fianco al mercato di Yashow per un anno, prima di spostarsi di nuovo più a sud a causa della distruzione in corso di Sanlitun), con il suo ex barista italiano che poi è finito a fare il manager del ristorante più pettinato della città, Santo. Santo mi chiama nel 2005 per chiedermi di vendergli pasta a Pechino. Io vendo formaggio a Shanghai, ma siccome è italiano gli faccio un favore, e alla fine per vie traverse la DeCecco gli arriva al ristorante. E’ arrivato dalla Puglia, Santo, passando per il Sudamerica e qualche altro posto non di strada, capello lungo raccolto in una coda, barba incolta e occhialino tondo. Vien da chiedersi che ci fa a Pechino uno così, ma d’altra parte ci si dovrebbe fare la stessa domanda un po’ per chiunque da queste parti. Santo è manager, ma la proprietaria è Alexandra, per gli amici Alex: attempata signora britannica, biondissima e con occhi azzurrissimi. Arrivata a Pechino nel 1991, ci s’è fermata e ha aperto un bar, poi una biblioteca in lingua inglese (il Bookworm appunto), poi s’è fatta prendere la mano e adesso ha quote societarie in tutti i ristoranti più fighi e di successo di Pechino. E quindi può lasciarli in mano a vari manager mentre lei si dedica alla sua passione, la letteratura appunto.

E’ una fauna strana che s’incontra in Sanlitun. Gente che per qualche motivo ha deciso di aprire un piccolo angolo dall’altra parte del mondo per trasformarlo nel proprio sogno, il locale ideale. Molti ci sono riusciti, e questo basta a giustificare il tutto e frenar domande superflue. Just because.

2006-11-27

Puttane

Come in tutti i Paesi in rapido sviluppo, caratterizzati dalla presenza di gente ricchissima e gente poverissima, la Cina ha un’industria della prostituzione a dir poco fiorente. Avendo a che fare con i miei compatrioti, tradizionalmente clienti assidui dell’industria in tutto il mondo, riesco a farmi una buona cultura in merito. Secondo le voci, il principale centro della prostituzione in Cina è Shenzhen, appena oltre il confine cinese e davanti a Hongkong – gli hongkongini ci fanno il weekend a Shenzhen, che costa poco – e poi ci sono Xi’an e Shenyang. Ciò non toglie che tutte le città cinesi, grandi e piccole, siano strapiene di luoghi che offrono servizi di compagnia femminile di ogni prezzo e livello.

Va detto che, in una cultura dove la moglie è l’angelo del focolare e dedita in tutto e per tutto all’uomo, in cui le relazione extramatrimoniali quando scoperte finiscono in omicidio, in cui il sesso pre-matrimoniale è mal visto, in cui una gran parte della popolazione delle grandi città è composta da emigrati che tornano dalla famiglia una o due volte l’anno, e in cui l’etichetta impone che al cliente si paghi non solo la cena, non solo l’alcool, ma anche la compagnia, la prostituzione è una necessità più che un piacere.

Poiché a puttane in Cina ci vanno praticamente tutti i maschi, i servizi di prostituzione variano in modo significativo secondo il reddito della clientela. I migranti vanno in piccole botteghe di periferia, mascherate da parrucchieri o saloni di bellezza, illuminati da luci al neon rosa o violette, quelli che gli italiani chiamano familiarmente “prontopompa” o “prontosega”. Nel retro ci sono alcove con poltrona in cui i vari servizi vengono offerti per prezzi che variano dai 50 ai 200 kuai. Poi ci sono i veri e propri bordelli, con tanto di camere – buie e sudice per i meno abbienti, enormi, con frigobar e televisione al plasma per chi può permetterselo. Ci sono poi le saune, con i loro servizi di massaggio e cura della pelle. E i karaoke, ideali per gli incontri d’affari, dove una volta prenotata una saletta privata, una decina di ragazze si presentano in fila e i clienti le scelgono, con possibilità di mandarle tutte fuori e farne rientrare un’altra decina. E qui i prezzi vanno su, dai 300 fino ai 1000 kuai o più, soprattutto se la ragazza è mongola, russa o comunque esotica.

Quello che stupisce gli occidentali non è tanto la diffusione del fenomeno e l’assoluta normalità con cui gli uomini cinesi ne parlano – per loro andare a puttane è normale quanto andare al ristorante o in piscina – ma è l’attitudine che c’è. Le ragazze sono di compagnia, chiacchierano, scherzano, bevono col cliente, cantano al karaoke, giocano a dadi, massaggiano. Il rapporto sessuale non è scontato, si paga a parte e tante volte non viene nemmeno richiesto dal cliente. Quel che i cinesi cercano è la compagnia di una bella ragazza che li faccia sentire uomini. E per questo pagano dei prezzi che, confrontati al loro stipendio, sono folli.

Le ragazze che esercitano sono tipicamente bellezze venute dalla campagna. Abbandonato il loro misero impiego di operaia, maestra elementare, cameriera, prendono il treno per la città e cercano direttamente lavoro in uno dei tanti locali dell’industria – karaoke, sauna, prontopompa. Guadagnano bene, molto bene, per quel che fanno. Non sono schiave, ma impiegate di alto livello. Pulite, coscienti, controllate, spesso svolgono la loro attività per qualche anno, poi tornano a casa nella campagne e con i risparmi che hanno accumulato aprono un negozio, un ristorante, una piccola azienda. Belle e ricche, non hanno difficoltà a trovar marito, un marito buono e fedele che esegua i loro ordini come si conviene. Viaggiando nelle campagne cinesi, non è raro incontrare questi personaggi, che si riconoscono molto facilmente dall’atteggiamento aggressivo e dominante, diametralmente opposto a quello delle ragazze tradizionali.

La prostituzione ha così un ruolo importantissimo non solo nell’economia urbana, per i volumi di soldi che fa girare, ma anche nell’economia rurale, grazie alla creazione di attività da parte delle “giovani pensionate” e nuove imprenditrici. Ciononostante la prostituzione è ancora illegale in Cina, e pesantissime pene sono previste per chiunque sia coinvolto in una simile attività. Come tante cose in Cina, è vietata ma si può fare, con discrezione.

Pechino da questo punto di vista è piuttosto tranquilla. Nel 2001, un enorme scandalo fece tremare gli alti livelli del Partito: il proprietario di un famoso karaoke, ospite di importantissime figure istituzionali, aveva pensato bene di installare telecamere ovunque come assicurazione per il futuro. Dalla sua posizione, poteva ricattare chiunque. La cosa finì male, e alla fine di quell’anno i filmati dei papaveri di Zhongnanhai in compagnia di giovani ragazze finirono negli uffici dei più importanti media. La prostituzione, beninteso, è considerata normale ma se ne può parlare solo in ambienti molto intimi e tra uomini – un atteggiamento tipicamente asiatico. Lo scandalo fu immediato, la reazione politica violenta, tante teste saltarono e da allora a Pechino la prostituzione è molto più attenta in quello che fa. Ce n’è quanto prima, senza dubbio, ma non viene più spiattellata in faccia ai passanti, come ancora avviene a Shenzhen, a Xi’an, a Shenyang.

A questa regola esiste un’eccezione – Sanlitun. Perché tanto lì sono laowai, come si fa a correggere quei viziosi? E’ una battaglia persa in precedenza. Come? Anche i cinesi ci vanno a Sanlitun? E i cinesi sono i clienti principali delle xiaojie? Non è possibile, vi sarete sbagliati. Le signorine sono lì per i laowai, poi non è che la polizia può controllare tutto…

“Halooo ssi! Sekesi sekesi leidi ba… aah, masaji fu yuo, pulisa hewa luka!!!”

2006-11-24

Pechino dieci anni dopo

Francesca ha studiato con me a Milano al Business in China. Nata in Costa d’Avorio, ha vissuto nel Gansu, a svariate ore da Lanzhou, per qualche anno, poi si è spostata a Pechino, quindi a Singapore, infine a Trieste. Ora vive a Shanghai, ma rimane comunque una friulana D.O.C.. Ogni tanto io e lei parliamo di Pechino, dei nostri ricordi, dei posti che entrambi conosciamo e che ci mancano – l’Hard Rock Café, il Lufthansa Centre, la zona delle ambasciate… e lei mi chiede un favore, la prossima volta che passo per Pechino. Andare al Lido e fare delle foto, per vedere com’è cambiato il compound dove viveva. Ci rimane male quando le dico che, per me, il Lido è il quartiere che sta attorno all’Holiday Inn Lido, un quartiere che ospita qualche milione di persone.

E poi capita che venga per lavoro a Pechino anche lei, in un momento in cui ci sono anche io. Guarda con stupore e malinconia a tutto quello che è cambiato, eppure riconosce alcuni luoghi come quelli della sua adolescenza, e mi racconta di quando non c’erano bar dove andare, e lei e i suoi amici rubavano la macchina di un ambasciatore, il padre di uno dei ragazzi, e a 16 anni se ne andavano per la Chang’an Jie senza che nessun poliziotto osasse fermare una targa diplomatica. O quando facevano battaglie con fucili ad acqua in Tian’anmen inzuppando tra le altre cose anche le guardie militari.

Per cena la porto a Houhai, di cui ha un ricordo vago. Ci sediamo al Buddha Bar, e ci portano un menu da una ventina di pagine scritte fitte fitte in caratteri cinesi.
“Non avete un menù in inglese?”
Il proprietario annuisce con tipico stupore cinese, come uno che ha imparato una cosa interessante, e ce ne porta uno, di due pagine. Lei sceglie prosciutto di Parma e melone, solo per curiosità di sapere se è vero o falso. Il prosciutto è vero, solo che tutto il piatto è abbondantemente condito con olio d’oliva. Un musicista cinese suona la chitarra in un angolo, una canzone rock in cinese. Tutte le rive del lago, un tempo vuote, sono ricoperte di locali, la cui età è indirettamente proporzionale alle dimensioni e alla rumorosità. Pechino è cambiata tanto, tanto sì.

2006-11-22

Droghe

Una spiacevole scoperta che faccio nel marzo del 2006 è che a Pechino gira una quantità incredibile di droghe. Che ci fossero lo sapevo, ma fino a questo momento il mio contatto era stato solo con l’hashish. Ora comincio a conoscere gente che si fa d’altro. Finché si tratta di espatriati che si fanno una canna, non mi turbo particolarmente, ma quando incontro manager cocainomani, giovani sinologi che si fanno di crack, contadini piegati dall’eroina, impiegati cinesi rampanti che prendono stimolanti forniti dal loro capiufficio, nonché ravers che s’impasticcano, la cosa mi infastidisce non poco. Il mercato cambia, i soldi girano, la popolazione cade nella dipendenza da sostanze stupefacenti. E’ un segno dello sviluppo.

Tra la popolazione straniera non esiste praticamente alcun freno alla circolazione di sostanze stupefacenti: “volete drogarvi, cari laowai? Bravi, fate pure che tanto non si corregge mica la vostra attitudine razziale al vizio”.

Tra la popolazione cinese i controlli sono più duri. Ma anche se la legge prescrive pena di morte in abbondanza per qualsiasi crimine legato alle droghe, l’applicazione delle norme come sempre è una storia diversa. E mentre i laowai viziosi quantomeno hanno idea degli effetti di quello che prendono, i cinesi non ne hanno. La droga è tabù, non se ne parla, e per il cinese medio hashish ed eroina sono la stessa cosa. Provata la prima e scoperto che dopotutto non trasforma immediatamente in zombie malati come si dice, le altre seguono a ruota. E’ così che tanta gente si rovina, per mancanza d’informazione.

Sarò moralista, forse ingenuo nello sperare che in Cina queste cose non accadano. Invece, anche in uno stato autoritario dove la polizia non ha le mani legate, la droga gira, e anzi la corruzione nelle forze dell’ordine è uguale come da noi in democrazia, se non maggiore. La cosa peggiore è la generale accettazione che la gente che ho attorno ha per il fenomeno: normale, sono cose che succedono dappertutto, non è che la Cina sia il Paese dei Balocchi. Forse il modello di sviluppo capitalista non funziona senza droghe: per portare avanti questo sistema, abbiamo bisogno di sostanze che facciano lavorare di più chi comanda e tengano buono chi esegue. Stimolanti e narcotici, la soluzione della chimica ai limiti della genetica.

Lode al Paese di Mezzo che prende il posto che gli spetta tra i grandi signori dell’economia mondiale. Poi mi vengono a parlare di “Via Cinese al Capitalismo”.

Sarò superficiale, ma a me fa schifo uguale.

2006-11-21

Red House Hotel

Ritornando a Pechino nel 2006, dopo sei mesi di assenza, sono contento di trovare le stesse persone conosciute l’anno prima. Marco lavora sempre per la solita azienda, Luca, un altro compagno di corso, è entrato anche lui in Birindelli insieme al buon Stefano, Linda è in Camera di Commercio. Le due ragazze italiane conosciute per strada a maggio dell’anno prima, stagiste in Camera, ora si sono spostate: Luisa sta in un’azienda meccanica, e Irene è diventata manager di un’enoteca nel distretto di Shunyi.

Ogni volta che torno a Pechino sto al solito hotel, la Red House, aperta dagli stessi proprietari del Poachers. C’è la stessa atmosfera, oltre che lo stesso arredamento, sebbene le camere qui siano dotate di servizi privati. Anche la pulizia è sempre la stessa, ma la cosa più sorprendente è che anche la colazione, servita nel vicino Club Football, locale gestito sempre dalle stesse persone, è la stessa: vassoio con fette di pane tostato, porzione monodose di burro, porzione monodose di marmellata alla fragola, uovo, fetta quadrata di spalla cotta, bicchiere di succo di mela. Non è cambiato nulla. Discutendo con quelli delle cucine riesco a farmi servire un caffè: è un caffè all’americana, fatto con la polverina mescolata all’acqua calda del thermos, ma è una bevanda alternativa, e dunque ben accetta.

Ogni volta che torno a Pechino è una serie di uscite con amici, una cena di qui, una bevuta di là, Sanlitun, Houhai, la vita è sempre quella, e la mia città non manca mai di darmi il benvenuto con qualche festa. Tutto ciò mi prepara al mio prossimo trasferimento, davvero non vedo l’ora di diventare cittadino di Pechino.

2006-11-19

Nuova possibilità

Arriva ottobre, e il mio contratto scade. Cerco lavoro, ma non lo trovo – soliti complimenti per il curriculum, promesse su promesse e mai nulla di fatto. Un paio di sere prima della mia partenza saluto Laura, una ragazza tedesca conosciuta la settimana prima, e che non vedrò probabilmente mai più. E’ questo il triste destino di chi è sempre in viaggio, come me e lei. Nel suo minuscolo appartamento da studente nella zona periferica di Hongkou, condiviso con un ragazzo coreano, mi consegna una cartolina, ricevuta da suo zio anni prima: è una foto del Palazzo d’Estate di Pechino, scattata negli anni ’70, con il grande parco quasi vuoto e i colori brillanti e artificiali delle pellicole vecchie.
“Ti auguro di arrivarci un giorno, presto” mi dice.

Con questo augurio torno in Italia, l’affitto della casa esaurito, nessun lavoro, nessun soldo i tasca, esiliato di nuovo e sempre lontano dalla mia meta. Ma a gennaio del 2006, finalmente, qualcosa si muove grazie alle mie guanxi e un po’ di fortuna, e un’altra azienda alimentare mi spedisce in Cina. Insieme a me è stato assunto un mio ex compagno di corso, Gianluca, e ci occuperemo di vendite in quel di Shanghai.

Ma i miei piani sono diversi: che bisogno c’è di due persone nella stessa città? Nella spartizione delle competenze ho cura di lasciare a lui le aree migliori e più ricche, ovvero Shanghai e il Sud, e io mi prendo il Nord e l’Ovest, decisione coraggiosa e importante per il mio futuro. E poi, dopo aver creato una buona base di clienti in loco, chiederò il trasferimento nella mia Pechino, ben più comoda e razionale per le vendite nell’area di mia competenza. Mentre lavoro al mio piano, visito ancora Pechino con frequenza mensile. E guardo sempre la cartolina datami da Laura, che ora si è trasferita all’università di Xiamen, sperando che mi porti davvero fortuna.

2006-11-16

Cafè de Niro

Il Café de Niro è uno dei nuovi locali sorti nella nuova Pechino che trovo. Un tempo nella strada del Poachers c’erano, oltre al detto locale, solo un ristorante tailandese, che ancora sopravvive, e un club all’angolo, chiamato appunto “The Club”. Ora la strada sembra un mercato, con gente che va e che viene, bar, ristoranti, baracchini, negozi di DVD, parrucchieri. Due anni dopo.

Ciò che sembra rompere il caos della strada, la Sanlitun Bei (三里屯北), è un bar dai colori chiari e morbidi opposti al caleidoscopio della via di fuori. Bianco e grigio, qualche nero vellutato, sedie imbottite e squadrate, riviste d’architettura, camerieri dal fisico atletico e la pettinatura essenziale chiusi in uniformi classiche e attillate. Musica lounge suona in sottofondo, quella musica che si ascolta senza accorgersene. Nonostante il nome italiano, è ovvio che il proprietario è un architetto e designer giapponese.

Il Café de Niro offre, oltre che un eccellente espresso servito in tazzine di vetro e metallo, una selezione impressionante di dolci – dalla torta di mele calda al tiramisù alla torta al sesamo - e una pace che è unica in Sanlitun. E’ sempre vuoto. Tanto vuoto che al terzo giorno che passo i camerieri si ricordano di me e mi offrono un succo d’arancia. Quando è pieno ci saranno tre tavoli occupati, su un totale di una decina. Ci si passerebbero le ore, al Caffè de Niro, a chattare col portatile connesso alla presa elettrica e alla rete wireless gratuita, a sorseggiare un caffè come si deve, ad ascoltare la musica rara che passa l’impianto. E le ore ce le passo davvero, ogni volta che posso.

E’ il 24 settembre 2005 quando scrivo:
“Musica soffusa, fuori il primo giorno d’autunno, aria fresca e umida di foschia. Odore di caffè, sapore di tiramisù, cacao e mascarpone, dolcezza di succo d’arancia e neutralità d’acqua. La completezza della sigaretta.

Seduto a un tavolino sul fondo, unico cliente, mi collego con il mondo tramite la rete. Comunico con persone, ed evito la folla.

Mai trovato un luogo così dolce e pacifico. Non mi meraviglia sia a Pechino.”

2006-11-10

End of the Night

“Take the highway to the end of the night
end of the night, end of the night”


E’ un sabato sera d’agosto a Pechino, e mi godo il weekend lontano dall’odiata Shanghai. La vita notturna a Pechino è una movida, tutto costa poco, ed è troppo facile spostarsi da un luogo all’altro, sorseggiando un cocktail e fumando una sigaretta, mangiando yangrouchuan’r a un angolo e comprando una bottiglia di limonata a un baracchino all’altro lato della strada. Facce conosciute e face sconosciute si mescolano nel caldo della strada… un saluto a un amico che si lascia, uno a un amico che si trova… l’ultimo incontro di questa sera è la persona che conosco da più tempo in questa città, il colei che testimonia, vivendo, il collegamento tra i miei ricordi e la realtà. Ed è così che ci si trova, come sempre, con niente da dire e mille cose da esprimere…

“I’ve been roaming all night long – from one bar to the other, looking for old memories and new hopes. Through clouds of smoke and alcoholic dreams, the smell of sweat and that of dust, I’ve walked and run, dazed by glowing lights and dark sleeping streets.

It’s at the end of the night that, finally, I choose to meet you, climbing the stairs to the rooftop where you sit on a sofa, the music still playing dim as the last few customers leave the place. I sit in front of you, a drink and a cigarette in my hands, and as the breeze cools my skin, I enjoy your sight. Your eyes and your smile make me feel so quiet, happy – like there was no tomorrow to think about, like the past had never been severed from tonight.

This is the end of the night, and I am happy to share it with you.”

Un giorno di pace

E’ luglio, e sono di nuovo a Pechino per un viaggio di lavoro. Sennonché, come spesso capita in Cina, i programmi non sono rispettati e qualcosa di inaspettato cambia tutto. Nello specifico, chi doveva farmi avere i miei appuntamenti con i clienti non l’ha fatto – la nuova direttrice vendite dell’ufficio di Pechino, tanto precisa e brava quanto timida; solo in Cina potevano mettere a capo di un ufficio vendite una persona che si vergogna ad alzare il telefono. E così, quella che doveva essere un’intensa serie di visite commerciali diventa qualcos’altro, come sempre lasciato più o meno al caso…

“La sveglia del mio cellulare personale mi fa prendere coscienza alle otto…

Ieri sera Mary doveva chiamarmi per farmi avere l’agenda dei miei appuntamenti di oggi. Non l’ha fatto, ma forse chiamerà stamattina. Accendo il cellulare di lavoro, e le do tempo… e intanto riprendo il mio sonno…

Quando mi sveglio ancora sono le dieci e mezza. Attraverso la zanzariera e la finestra aperta vedo i rami di un albero illuminati da un bel sole. Guardo il cellulare: Mary non ha chiamato. Non chiamerà, perché non ha fissato gli appuntamenti. Ed è troppo tardi per fissarli da me, il giorno stesso.

Mi alzo a sedere sul letto, e vedo il cielo blu intenso. Il sole è forte, ma una leggera brezza fresca mitiga il calore di questa giornata. E’ una giornata perfetta. E allora… vacanza!

Mi prendo il mio tempo per alzarmi e farmi una doccia, poi indosso pantaloni di cotone e una maglia di lino bianco, e con gli occhiali scuri inforcati, scendo in strada, godendomi il sole e il vento sulla pelle. E’ silenzioso… non ho mai sentito un silenzio così a Shanghai o a Milano. La gente è in strada, ma si muove lentamente, placidamente. Non c’è fretta di fare nulla, in una giornata così.

Cammino verso Sanlitun, e mi infilo nel Caffè de Niro, fresco e semi-vuoto. Mentre sorbisco un espresso, connetto il mio portatile e becco rete
wireless. Lo sapevo… è troppo bello per non essere vero. Sbadigliando alla luce di mezzogiorno, chatto con la ragazza che mi piace e altri amici. Hanno tutti belle notizie, e io ordino un succo d’arancia… tutto spesato dall’azienda come spese di trasferta. Amo il mio lavoro…

Un’ora è passata quando lascio il caffè e, dopo cinquanta metri di camminata e una strada attraversata, mi siedo a un tavolo del Kiosk, salutando facce conosciute e sorridenti. Il mio pranzo sono un’insalata di pomodori freschissimi e un bicchiere di
spritzer, fatto con vino di Macedonia. Una zhongnanhai da 8mg brucia tra le mie labbra…

In una giornata così, si può solo contemplare il mondo e amarlo. Ogni altra attività è superflua.

Ma questa pace, questa quiete, non l’assaporavo da tanto tempo.”

2006-11-08

Il Kiosk

Quando ho conosciuto Sasha aveva i capelli lunghi e folti, come me, e gestiva una trading che lavorava con casa sua, la Serbia. Quando lo trovo di nuovo ha i capelli corti, come me, e ha aperto un chiosco di panini.

Il Kiosk è uno dei posti più rilassanti e piacevoli della nuova Pechino che trovo: un chioschetto blu con finto campanile, che contiene un frigo e una piccola cucina, e cinque o sei tavolini messi in fila sulla strada del Nali Mall, un piccolo complesso sorto recentemente attorno a una traversa della Sanlitun, e che comprende ristoranti, un locale di musica jazz, negozi di abbigliamento femminile e una manicure. Tranquillo, silenzioso, pur essendo a una ventina di metri dalla jiuba jie, per qualche miracolo riesce a creare un’atmosfera lontana anni luce. Nonostante non possa farmi rimborsare il pasto causa mancanza di fapiao, ci vado sempre e comunque per pranzo, per godermi uno dei panini stupendi che fanno.

Sasha sta davanti al chiosco, tipicamente camminando avanti e indietro con una birra e una sigaretta in mano. Saluta i clienti, li conosce tutti, spesso si siede a chiacchierare con loro, prende le ordinazioni. Si vede che il suo lavoro lo fa con passione, e nonostante gli orari impossibili che fa i primi tempi – dalle dieci di mattina alle dieci di sera, gran parte del tempo in piedi – è molto più felice di prima. Manco a dirlo, i tavolini del Kiosk sono sempre pieni, tutti sanno dov’è e ci sono stati prima o poi, molti ci vanno diverse volte a settimana per gustare un panino sano fatto con verdure fresche e un bel pezzo di carne speziata.

Seduto a uno dei tavolini, il 21 giugno 2005 scrivo:
“In una traversa di Sanlitun, un vicolo appena, ci sono dei tavolini, all’ombra di grandi ombrelloni verdi che coprono dal sole di giugno. Ad uno di questi tavolini tre uomini parlano in spagnolo: uno è di Salamanca, uno di Milano, l’altro di Belgrado. Quando lo spagnolo se ne va, il serbo torna al suo lavoro e l’italiano si siede in un angolo con la sua birra e accende una sigaretta. Chiacchiera in italiano con la cameriera indiana. Poco dopo, arriva in bicicletta una ragazza messicana, bacia il serbo, suo marito, e saluta tutti in italiano. I camerieri cinesi sorridono, borbottando timidi nella loro tipica calata del nord. E poi arrivano altri amici: italiani di Napoli, Padova, Perugia, Roma; cinesi da Pechino e da Tianjin; svedesi da Malmo; altri spagnoli, francesi, americani, australiani.

Questa è la Pechino che ricordavo. Non c’è distinzione d’origine. Il diverso si mescola discretamente, senza attriti, nell’ombra di un vicolo e al fresco di una birra
qingdao.”

2006-11-04

Di nuovo Jingyi

Quando torno in Cina le scrivo una mail per avvertirla. Mi risponde in modo strano, sembra che sia felice ma non abbia il tempo di scrivermi troppo a lungo. Poi, quando torno a Pechino, la chiamo ancora “Vediamoci una sera di queste”: Lei è come sempre impegnatissima, e mi dà un sabato sera appuntamento allo Yan Club, che non è né vicino né comodo per vedersi e raccontarsi due anni di storia.
Ci arrivo con Marco, un mio compagno di corso a Milano. Alla porta chiamo Jingyi, “Arrivo” dice.. Un minuto, e la vedo sbucare dal club, e saltarmi addosso abbracciandomi stretto stretto. “Ciao!” mi dice in italiano. Ricambio l’abbraccio un po’ imbarazzato.
Poi mi porta dentro, dove ci sono altri suoi amici. Musica trance a palla, coltre di fumo, alcolici da quattro soldi offerti gratis. E’ dimagrita, Jingyi, e mi sembra anche cambiata. Sono passati due anni, diamine. Ma c’è qualcosa in lei che mi insospettisce e disturba, sebbene non capisca cos’è. Mi dedica poco tempo, perché deve tornare a ballare, insieme ai suoi amici, tutti sotto le casse dove il volume è più forte. Non mi va di unirmi a loro, e rimango praticamente abbandonato.

Ci esco di nuovo qualche tempo dopo, una cena a un ristorante xinjiangese, io, lei e una sua amica francese. Ora Jingyi sta con un altro ragazzo italiano: lui sta a Roma. Si vedono un paio di volte l’anno, e lei è molto contenta di questa situazione di libertà. In questo non è cambiata. Durante la cena evita accuratamente di portare il discorso sui nostri trascorsi, di cui ovviamente l’amica non è al corrente. La stuzzico con qualche frecciata e mi risponde tagliente come al solito.
“Un altro ragazzo italiano… ” le chiedo, sorridendo “Quanti ne hai avuti?”
“Uno solo che abbia amato” mi risponde. E so che non si riferisce a me.
Poco dopo ci ritroviamo allo Yugong Yishan, un nuovo locale costruito dentro un parcheggio degli autobus. Il locale è vuoto, l’estate è calda, e così ci sediamo fuori, sotto gli alberi. Jingyi rolla una canna, e finalmente mi parla della sua svolta da raver:
“Odio la gente che beve, va nei locali solo per ubriacarsi. Sono molesti e fuori luogo, e danno fastidio per buona parte della notte. Ma c’è un momento, che è quello dell’alba, che è il più bello. E’ quando gli ubriachi se ne sono andati ed è rimasto solo lo zoccolo duro della festa, quelli che sono lì per ballare. Sei allo Yan Club, la musica è fortissima, e dalle vetrate vedi il sole sorgere, e la sua luce illumina le facce delle persone che ti stanno attorno e ballano. E allora non c’è nulla da dire, basta guardarsi negli occhi. E tutti noi sappiamo perché siamo lì”
La mia mente vaglia una decina di risposte taglienti che possano distruggere il suo entusiasmo, da “In ogni caso anche a voler parlare non avreste nulla da dirvi” a “Non vi sarete mai parlati allora” fino a “Non sapevo che ti drogassi”. Ma alla fine sono sempre troppo buono e le scarto tutte. Accetto la canna che mi passa.
“Mi fa piacere che tu sia tornato” mi dice.
“Grazie. Peccato stia a Shanghai” rispondo.
Lei storta la bocca con quel suo modo particolare: “Ci sono stata una volta, a Shanghai. Non è la città per me”
Almeno su questo, siamo ancora d’accordo.

2006-11-01

La Teoria della Prospettiva

Una delle cose in assoluto più irritanti della Cina è la generale incapacità della popolazione locale di deambulare in maniera coerente, che siano a piedi o su un mezzo di locomozione. Andate in un centro commerciale, in un aeroporto, in una strada gremita: troverete gente che vi urta costantemente, gente che si ferma di colpo per guardare il cellulare nonostante abbia una fila interminabile dietro di sé, gente che spinge nonostante abbia una fila interminabile davanti a sé, gente con le borse che non bada minimamente all’urto di queste contro gli astanti. La situazione è replicata pressoché uguale nel traffico: in particolare, i cinesi sembrano avere serie difficoltà nell’evitare gli oggetti in movimento. Esempio: state attraversando la strada sulle strisce e una bicicletta vi viene incontro da destra. Un ciclista normale ha a disposizione due possibilità: 1) aggirare il pedone a sinistra; 2) frenare. I cinesi ne considerano una terza: aggirare il pedone a destra, accelerando e tagliandogli la strada, infilandosi tra lui e il marciapiede più vicino. Di fatto la possibilità viene considerata ma la decisione non viene presa. E quindi, mentre il ciclista cerca di trovare l’opzione migliore tra le tre, potete leggere il panico nei suoi occhi e lo vedete agitare convulsamente il manubrio, che immancabilmente vi punta o vi centra; che voi stiate fermi o scappiate in qualunque direzione quella bicicletta è come un missile a guida di calore, non c’è scampo, a meno di gettarsi a lato l’ultimo secondo, come nei film quando il cattivo spara al buono. Nel caso il cinese vi centri, tipicamente casca rovinosamente, quindi si alza e vi guarda come a dire “E’ colpa tua” e se ne va senza scusarsi.

Da qui nasce la Teoria della Prospettiva che tenta di mettere ordine logico in questa faccenda. La Teoria sostiene che gran parte dei cinesi devono in qualche modo avere un problema ottico o cerebrale che impedisce loro di assorbire ed elaborare velocemente le informazioni spaziali. Questa situazione non è generalizzata, tuttavia molto molto comune.
Le basi di questa teoria sono qui di seguito riassunte:
a) come prima esposto, in media i cinesi non sanno muoversi in uno spazio con altri oggetti in movimento senza andare a sbattere;
b) nonostante siano una delle più grandi civiltà della storia, dal punto di vista architettonico e scultoreo non hanno lasciato granché a parte un muro di mattoni lungo lungo e delle torri di legno con la base larga e il tetto stretto, e anche oggi i grattacieli belli li hanno tutti progettati gli stranieri;
c) nessun cinese apparentemente è in grado di capire una mappa bidimensionale e relazionarla con la realtà (provate a mostrare una mappa urbana a un tassista e ve ne accorgerete);
d) il codice stradale cinese, con la svolta libera a destra, la corsia di inversione a destra di quella per la svolta a sinistra, e il sorpasso libero su entrambi i lati è in ovvio conflitto con la geometria euclidea.

La Teoria, pur coraggiosa, è effettivamente efficace nello spiegare una serie di fenomeni altrimenti misteriosi. Attendiamo la reazione della comunità scientifica a riguardo.

2006-10-30

What's up, man?

Chiunque viva in Cina conosce a memoria le varie cantilene che assalgono i laowai per le strade.

I venditori di roba falsa:
Halo ssir!?! Watcha, begas’, looka looka, special price for you! Halo friend?!? OK?!?!?

I venditori di DVD:
Halo ssir?!? CD, VCD, DVD! SSex DVD! OK?!?

I papponi e le ruffiane:
Halo ssir?!? Lady bah? Lady club? Masaji? Ssex! Have a looka! OK?!?

I tassisti irregolari:
Halo ssir?!? Tekasi? Let’sa go, OK?!?

I venditori di fapiao (fatture) false:
Fapiao, fapiao, fapiao!!! Yao fapiao maaa?!?

I mendicanti:
Halo-xiexie-mani-mani-xiexie-halooo…

Chi vive a Pechino ne conosce una di più. L’inglese non è così maccheronico, la voce è profonda come una caverna, affascinante e suadente, e fa più o meno così:
What’s up, maaan? Hey, how are you? Where are are you going? Hey, come here a minute, just wanna say hi to you… hey… do you want some shit?

Non si tratta di cinesi, ma di africani. Nigeriani, Liberiani, Sudafricani, Ghanesi, Senegalesi… tutti con un’andatura ciondolante e lo sguardo sornione, con la mano aperta per dare il cinque e aggrapparsi al potenziale cliente. Spacciano: principalmente hashish e pasticche, altri articoli speciali disponibili su richiesta. Nel 2003, quando stavo al Poachers, li conoscevo tutti: erano cinque o sei, e gravitavano attorno alla discoteca che era il loro centro di business. Quando torno nel 2005 ne trovo trenta, quaranta, tutti uguali, tutti con la loro cantilena identica, e la loro zona di lavoro ora comprende le strade laterali della Jiuba Jie e un bel pezzo della Gongti Bei Lu. Ne deduco che il giro d’affari è cresciuto.

Come fanno trenta heiren, trenta neri, a spacciare nel centro di Pechino senza avere problemi da chicchessia è un interrogativo interessante, e cerco di informarmi. La prima cosa che noto è che non escono mai dalla loro zona di lavoro: trovarli sulla Jiuba Jie, per esempio, è impossibile, non ci mettono piede. Il Poachers rimane un centro nevralgico della loro attività, ma sulla stressa stradina sono sorti molti piccoli bar gestiti da cinesi, con prezzi ridicolmente bassi, dove gli spacciatori passano gran parte del loro tempo a bere alcolici falsi e ad abbracciare ragazze d’ogni razza e colore ben contente di girar con loro; e il più emblematico di questi baretti, dotato di una tavola calda, porta il nome di “Brother Pizza”. Dentro, a parte il gestore, sua moglie e un paio di ragazze cinesi vestite con tute colorate di tre taglie troppo grandi, tutti neri. Un altro covo preferito è il Bus Bar, due autobus attaccati e ricoperti da loghi della Heineken, parcheggiati nella stazione di fronte allo Yugong Yishan. La seconda cosa che noto è che non propongono mai le loro merci ai cinesi, ma lavorano esclusivamente con gli stranieri. E sono tipicamente gentili, invadenti all’inizio, ma non insistono troppo. Le loro attività sono controllate, evidentemente. Sento però diverse storie sul fatto che la sera tardi capita che si ubriachino e se qualcuno li provoca finisca in rissa; e pare che qualcuno non paghi nemmeno i tassisti che, per paura, li scarrozzano di qua e di là ma evitano ogni discussione con questi giganti dalla pelle nera. Pochi li apprezzano, la maggior parte dei cinesi ne è terrorizzata, molti li vedrebbero volentieri buttati fuori dalla Cina, tanto per esser sicuri che non si facciano vivi ancora.

E allora come fanno a rimanere lì, in bella mostra davanti alle macchine della polizia? La risposta che ricostruisco tramite varie conversazioni è la seguente: la Cina da diversi anni ha avviato una politica estera mirata a farsi amici tanti Paesi, e gli unici disposti ad essere amici della Cina sono tanti staterelli tirannici e poveri dell’Africa centrale, che ricevono da Pechino finanziamenti e armi in cambio dell’utilizzo di risorse naturali da parte di aziende statali cinesi. Andate per esempio nella zona della ambasciate in Sanlitun e vedrete che l’ambasciata del Sudan è grossa tre volte quella italiana, che le sta di fronte. Ora, queste ambasciate mantengono gran numero di persone, e tra queste mandano certi figli di papà che sanno l’inglese e il francese e stanno male in Africa; non sapendo o non avendo voglia di lavorare, costoro si riversano nelle strade e grazie ai loro canali preferenziali nell’ambasciata importano e vendono sostanze stupefacenti senza che la polizia abbia la possibilità di mettere le mani sul loro passaporto diplomatico. Quei poliziotti che ci provano si trovano in tasca grosse somme di denaro, abbastanza da raddoppiare il loro misero stipendio, e quindi, pur di malavoglia, accettano la situazione e fanno finta di non vedere gli ospiti africani, che sono liberi di prosperare a patto di non esagerare nelle loro attività: lontano dagli onesti cittadini cinesi e lontano dai turisti stranieri, che la loro vergogna rimanga isolata nella comunità espatriata e i cinesi che le gravitano attorno.

Questa situazione non può durare. Questi figli di ricconi africani che si atteggiano a ghetto boys, che ricalcano perfettamente gli stereotipi dei neri d'America, facendo una pessima figura davanti a cinesi e stranieri; e che spacciano indisturbati, con l'aria dei re del quartiere che non tollerano impedimenti.
Prima o poi, mi dico, qualcuno sgarrerà, la farà grossa e allora le autorità reagiranno: do loro tempo fino alle Olimpiadi del 2008, quando la Pechino “perfetta” sarà presentata al Mondo. E allora insieme ai mendicanti e ai papponi anche gli spacciatori neri scompariranno. La loro presenza non si addice proprio alla Pechino “perfetta” da presentare al mondo. Grazie al cielo non viviamo in un regime di democrazia.

La storia mi darà ragione. Nell’autunno del 2006, improvvisamente una buona metà degli spacciatori scompare nel nulla. Quelli rimasti pare si nascondano, sono cento volte più cauti, più attenti alle loro mosse, meno arroganti nei loro “What’s up maan”. I tempi sono maturi. Brother Pizza, bye bye…

2006-10-28

La Nan Sanlitun

Sanlitun è per antonomasia il centro della vita notturna di Pechino. La via si divideva tradizionalmente in due parti: la jiuba jie propria, la “via dei bar”, roccaforte dei locali per cinesi con musica pop a palla, luci al neon esagerate, buttadentro, papponi; e la nan jiuba jie, la “via dei bar del sud”, che stava a sud della Gongti Bei Lu. Relativamente nascosta alla vista, la nan jiuba jie era il regno della comunità internazionale che viveva a Pechino, piena di bar meravigliosi di ogni genere: l’Hidden Tree, famoso per l’incredibile selezione di birre europee e la pizza migliore della città; il Durty Nellie’s, il pub irlandese di Pechino; il The River (河), tutto in legno con un palco dove suonavano rock band di ogni parte della Cina, e dopo che questi erano scesi dal palco cominciava l’open jamming: chi con la chitarra, chi con l’armonica, chi battendo la bottiglia di Yanjing sul tavolo, tutti i presenti partecipavano spontaneamente alla melodia proposta. Il posto migliore della città per passare la serata.

Quando torno a visitarla, più di due anni dopo, nulla poteva prepararmi allo spettacolo che mi trovo davanti. Una distesa di macerie a perdita d’occhio. Non esiste quasi pietra su pietra, se non i resti di un muretto, quello che nascondeva l’albero dell’Hidden Tree, un albero ormai morto e coperto di polvere.

Con la scusa di “sviluppare” l’area di Sanlitun, la municipalità ha espropriato e spianato l’area, demolendo i bar un tempo pieni di gente, nel 2004. Nel 2006, quando scrivo, i lavori per lo “sviluppo” dell’area non sono ancora cominciati. Le macerie giacciono mute, coperte di polvere e occasionali ciuffi d’erba. Gli unici suoni sono quelli del vento e, lontano, il rumore di qualche ruspa al lavoro, ma non per costruire, solo per distruggere. Operai cinesi vagano qua e là con gli elmetti in testa, mentre il sole cala; non sembra abbiano un gran daffare.

Mi volto, e in un angolo nascosto noto un ultimo bar rimasto in piedi, una costruizione di mattoni degli anni ’50 con un’insegna rotta e una lista dei drink scritta a mano di fianco alla porta. Di fronte ad essa, seduti su sedie di plastica, bottiglie di Qingdao in mano, una buona ventina di africani che mi guardano, chi sorridendo con apparente scherno, chi torvo. Uno si avvicina, alzando la mano pronto a darmi un cinque. So già dove vuole puntare.

“Grazie, non fumo” dico. E me ne vado, con lo stomaco sottosopra per quello che ho trovato.

2006-10-27

I tassisti di Pechino

Una delle prime categorie di gente con cui si viene in contatto in Cina sono i tassisti. Li trovi fuori dall’aeroporto che ti aspettano, e da quel giorno li vedrai quasi quotidianamente. I tassisti in Cina sono coloro che scarrozzano gli stranieri che non sono in grado o hanno troppa fretta per prendere l’autobus, e gli sparring partner per la pratica del cinese di tutti coloro che lo studiano.

I tassisti di Pechino sono famosi, tra i loro compatrioti, per esser gentili e chiacchieroni. Onesti no, anzi, se possono fregare un laowai sul tragitto, sulla fattura o sulla mancia lo fanno subito. Se però il laowai parla cinese l’atteggiamento cambia: a quel punto il tassista comincia una serie interminabile di domande, solitamente in quest’ordine: da dove vieni? Dove vivi? Studi o lavori? Che fai? Ma hai fratelli e sorelle? E i tuoi genitori dove sono? Sei sposato? Quando ti sposi? Quanto guadagni al mese? Ti piace bere la baijiu (grappa cinese di riso)? Quanta riesci a berne senza svenire?

A seconda delle risposte al sopraccitato questionario il tassista dispensa commenti e consigli, senza peraltro che nessuno l’abbia mai invitato a farsi i fatti del passeggero. A questo punto, terminate le domande, se siete ancora sul taxi – il che è probabile visto il traffico di Pechino – il tassista sceglie l’argomento che più lo stuzzica dalla precedente conversazione e ne pontifica esponendo tutte le sue opinioni, solitamente prive di cognizione di causa, e sempre accompagnate da richieste di assenso: “对吗?对吧?是不是?(giusto? ho ragione? è così o no?)” al termine di ogni frase.

Uno degli argomenti che i tassisti preferiscono sono le nazionalità. Italiano? Ah, adoro il calcio italiano! Lo guardo sempre, è il migliore! E alzano il pollice incurvando il labbro inferiore: “O-kei!”. Quindi cominciano a recitare le formazioni della nazionale, che vengono intuite solo per assonanza: “Matalaqi, Gulousuo, Pierlo, Bufeng, Madini”. E poi l’idolo, quello che tutti conoscono non perché è pallone d’oro ma perché è buddista. “Baqiao!!! Baqiao zui hao de, Baqiao OK! (Baggio!!! Baggio è il migliore, Baggio OK!”). I tassisti passano la giornata ad ascoltar la radio e li conoscono tutti. Se non si parla di calcio, i luoghi comuni sull’Italia sono le scarpe, le borse, l’abbigliamento, il fatto che è un Paese con una storia molto lunga. Qualche volta le gaffe internazionali di Berlusconi (sì, anche in Cina ne ridono). Comunque il calcio viene sempre prima di tutto.

Dai tassisti si può imparare molto, perché sono tutti pechinesi: conoscono la città come le loro tasche, e la lingua locale, il beijing hua, che pur essendo la base del cinese mandarino se ne discosta per l’uso di certe parole e principalmente per l’erhua, il ringhio che taglia la prima o l’ultima parola in ogni frase. Sono sempre disposti a condividere informazioni con chiunque. Se ci entrate in confidenza, vi possono anche raccontare varie leggende metropolitane e le storie di Pechino che non finiscono sul giornale. Tra loro e i loro gemen’r (letteralmente fratelli, in pratica colleghi, compari) non c’è nulla che non sappiano sulle strade della loro città.

Seduto come sempre accanto al tassista, su un taxi rosso fiammante, percorro il Terzo Anello diretto a Sanlitun, sotto un cielo azzurro e terso. Quando il tassista, che ringhia particolarmente forte, scopre che vivo a Shanghai mi chiede:
“你喜欢上海吗?” (Ti piace Shanghai?)
“不喜欢,太快:快快,钱钱!” (Non mi piace, è troppo frettolosa, ogni giorno si corre e si pensa solo ai soldi)
“哈哈,上海人真小气” (Haha, gli shanghainesi sono dei gran taccagni)
“他们说上海话的时候,我听不懂” (E quando parlano il loro dialetto non capisco nulla)
“我是中国人,我也听不懂” (Anche io che sono cinese non capisco nulla)
“北京话最好听!” (Il pechinese è la lingua che suona meglio!)
Il tassista ride e alza il pollice “O-kei!”.

Appoggio la testa al sedile, mi rilasso, e sorrido anch’io. Eh, sì, sono proprio a casa.

2006-10-23

Ritorno alla casa del mio spirito

E’ il 25 maggio 2005, quando il mio aereo atterra all’aeroporto di Pechino; mi ci porta un viaggio di lavoro insieme a un collega australiano. Mentre l’aereo scende, mi sento una strana sensazione di formicolio allo stomaco che mi eccita e mi fa sorridere. Il mio collega non capisce cosa significhi per me questo ritorno. E’ una bella giornata di sole e, appena possibile, mi libero di lui, tolgo giacca e cravatta a favore di jeans e t-shirt, e me ne vado a spasso da solo. Quella sera scrivevo:

“Lascio una Shanghai fredda e umida, e la guardo scomparire lontana, la testa del dragone avvolta nella nebbia, il corpo serpeggiante dello Huangpu e le corna dei grattacieli, che spuntano dal suo alito brumoso.
Quando atterro, mi accolgono un sole dolce e una brezza fresca e forte. Gli alberi ai lati della grande strada sono rinverditi dalla primavera, e i bianchi palazzi scintillano, mentre ai loro piedi bandiere rosse garriscono felici al vento.

C’è un luogo, dove due anni, un mese e quattro giorni fa ho lasciato un pezzo della mia anima. Lo raggiungo camminando all’ombra dei pini odorosi di Sanlitun, e in riva al fiume mi inginocchio, cercando nella terra là dove le mie lacrime disperate sono cadute. Le ripongo di nuovo sulla mia fronte, sulle mie labbra e sul mio cuore.
Oggi sono tornato, ed il mio spirito è in festa. E’ difficile descrivere l’emozione di camminare di nuovo per questi luoghi familiari, e trovarli talvolta identici a come li ricordavo, talvolta ingoiati dallo sviluppo economico che spietato distrugge ogni bellezza imperfetta sostituendola alla perfezione dell’efficienza e della grandezza.

Ma oggi sono a casa, e i miei piedi calcano le pietre grigie e irregolari della strada. Sono a casa, le ragazze sono più belle, i vecchi più nobili, le sigarette più buone e leggere, il cibo più economico e saporito, i passanti più quieti e gentili, e gli stranieri tutti amici miei, miei alleati. Incontro ragazze italiane bionde, e scopro che lavorano ora dove io e Massimiliano lavoravano in quei tempi lontani e ora di nuovo così vicini. Cammino nel passato, ma è come se ne tenessi la trama tra le mani per poterla ritessere in nuovi orditi, sorprendenti e sempre migliori.
Sono a casa, quando il suono dei miei passi risuona per l’atrio di Poachers. Sono a casa, quando mangio yangrouchuan’r alla Red Rose. Sono a casa, quando la gente mi offre CD, VCD, DVD. Sono a casa, quando siedo con il nuovo segretario generale della Camera nella sala riunioni al 36° piano del Jingguang, e so che quel luogo è stato prima mio che suo.
Sono a casa, e sento chiaramente, senza ombra di dubbio nel mio cuore, che questa sarà la mia casa nel futuro. La mia Medina, il luogo del mio Graal, la mio Utopia, il luogo dove la mia anima trova la pace, ed entra in armonia col mondo.

Beijing.”

2006-10-22

Shanghai


Chiunque mi conosca sa già come la penso di Shanghai. Faccio due premesse; la prima è che il mio giudizio iniziale è stato condizionato negativamente da vari altri problemi sorti nel lavoro, nella convivenza in appartamento, nelle relazioni sociali ed sentimentali, nelle abitudini consolidate, nella reazione al clima e al cibo. La seconda è che Pechino e Shanghai sono città rivali, rappresentanti due modi diversi di vedere il mondo, e chi ama l’una non può amare l’altra. Come Roma e Milano. Come Pisa e Livorno.

Una terza premessa è che la maggior parte degli stranieri che vivono in Cina adora Shanghai: moderna, veloce, ottima per lavorare, fornita di tutto, dalla rete wireless alla Nutella importata dall’Italia, dai negozi di Armani e Luois Vuitton ai bar stilosi in cima ai grattacieli più scintillanti.

E allora, eccomi a Shanghai. Non è la Cina che mi aspettavo. Non è quella che conoscevo. Non sembra nemmeno di stare nello stesso Paese di Pechino, a cominciare dal fatto che non si parla la stessa lingua. Tutti parlano shanghainese, lo shanghai hua (上海话), un incomprensibile quanto sguaiato dialetto che sta al cinese mandarino come il sardo sta all’italiano. La gente è più bassa, più sottile; si veste in modo diverso, le donne dai 10 agli 80 anni hanno tutte i tacchi, moltissime il trucco e i capelli tinti di colori chiari; gli uomini hanno tutti la scarpa di pelle o vernice nera col calzino corto. Non esiste la solenne rozzità di Pechino, gente grossa, sporca e vestita per stare comoda; gli shanghainesi sono i più ricchi della Cina e vogliono fare gli eleganti. Pur essendo generalmente più puliti della media dei cinesi, ad essere eleganti non ci riescono e risultano al meglio kitch, al peggio brutti. La noto in tutta la città questa voglia d’esser belli senza riuscirci. Pechino può essere squallida, lo si è detto, ma non fa nulla per nasconderlo; accetta la sua condizione di metropoli stuprata dallo sviluppo industriale. Shanghai no, vuol sembrar bella: e così davanti all’immondizia mette i fiori, alle case decrepite dà una mano di rosa pastello, a una finestra che dà su una discarica mette una tendina con gli orsacchiotti. E’ una città superficiale e ipocrita.

Gli shanghainesi sono straodiati un po’ ovunque in Cina, con l’accusa d’esser taccagni e spocchiosi. Lo sono certamente. A loro difesa posso solo dire che quanto meno sono onesti, il che non si può dire di molti loro compatrioti. A loro ulteriore detrazione dico invece che sono anche ignoranti: i pechinesi vanno fieri della loro storia e la sanno citare relazionandola ai vari luoghi della città. Gli shanghainesi, la cui città di storia non manca, sembrano aver dimenticato e guardano solo al futuro. Tutto pare nuovo a Shanghai, quello che non è nuovo è brutto, se si può si spiana per metterci qualcosa di nuovo. C’è quasi un tabù del passato, e qualche volta anche a parlar di presente si vien guardati strano.

Alla mia antipatia per la gente si aggiunge la debolezza al clima. A vederla sulle cartoline Shanghai è bella: bella nei grattacieli di Lujiazui come nei palazzi coloniali del Bund e nelle ville della Concessione Francese, le strade alberate e le file di shikumen, le case tradizionali che stanno a Shanghai come i siheyuan stanno a Pechino. Fare parte di quella scena è diverso: aprile, maggio e ottobre sono i mesi in cui Shanghai è vivibile, c’è spesso il sole e fa un bel caldo, ci si siede all’aperto e ci si gode la bella stagione. Da novembre a marzo il clima è freddo e umido, con pioggia e nebbia quotidiane, il tutto in una città che non è dotata di riscaldamento diverso dall’aria condizionata. Da giugno a settembre,il clima è caldo tropicale, con nebbia e pioggia quotidiane: di giorno quaranta gradi, di notte trentacinque, e comunque sempre umido. L’umidità potrebbe anche contribuire a una splendida fauna e flora, ma gli unici animali di Shanghai sono ratti e scarafaggi che gozzovigliano nell’immondizia gettata in strada, e i passeri che fanno il nido sui buchi dei tetti; le uniche piante fuori dai giardini sembrano essere platani, forse le uniche piante che sopravvivono alla mancanza di luce e di aria. La Nanjing Lu è costeggiata da platani; la Beijing Lu anche; la Huaihai Lu pure; La Fuxing Lu, la Xinzha Lu, la Jianguo Lu. Tutte a platani, che pare d’esser in via Lorenteggio o Giambellino a Milano, solo senza i palazzi d’epoca, i marciapiedi larghi e la spazzatura dentro i cestini. A guardar la scena, sembra che anche la natura abbia fallito nel sopravvivere in questo luogo, lasciando solo le specie più resistenti. Non è incoraggiante.

A completare il quadro delle mie nemesi, insieme alla gente e al clima c’è il cibo. Io amo il cibo cinese. Adoro la cucina di Pechino, grassa e saporita; adoro quella musulmana, con il suo montone speziato di cumino e le lunghe tagliatelle; adoro quella cantonese, così ricca e complessa; e adoro anche quella sichuanese, piccante ma deliziosa. Quella shanghainese no, è immangiabile. Non è tanto il fatto che tutto sia fritto e intriso d’olio, peraltro di quarta categoria, che il glutammato venga usato a blocchi, o che la carne sia spesso stopposa e dura. E’ che lo zucchero è dappertutto: nella verdura, nella carne, nella pasta, tutto è dolce e stucchevole, ogni pasto nauseante. Nessuno straniero che conosca riesce a mangiare shanghainese; nessun cinese che conosca sostiene che al cucina shanghainese sia buona (a meno che non venga da Shanghai). Ciò significa che il piacere di buttarsi nella bettola sotto casa e pasteggiare con pochi centesimi di euro non c’è più. Non solo: anche i ristoranti stranieri, se gestiti da locali, si adattano al gusto locale: mi trovo a mangiare spaghetti dolci, cibo alla pechinese dolce, pizza dolce, hamburger dolce. E il pane dolce è la cosa più avvilente: pane intriso di burro e zucchero, con la generica etichetta “pane”, quasi fosse normale; così non si distingue nemmeno dal pane normale.

In questo inferno di città ci passerò sei mesi filati, ma il mio lavoro mi permetterà di tornare a Pechino relativamente spesso.

2006-10-21

Business in China

Appena vedo la gente che c’è con me in aula, il primo giorno di lezione di questo corso tenuto in un palazzo seicentesco del centro di Milano, mi rendo conto che la gente qui non è tanto normale. Nessuno ha capito con che criterio abbiano aggiudicato le borse di studio: la voce è che le candidature siano state 440, le borse 40. Le quaranta persone in questa classe sono tutte strane, tutte dannatamente alternative, fuori da qualsiasi schema, con le esperienze più incredibili alle spalle.
Quelli che come me sono stati in Cina a lavorare un periodo sono parecchi; qualcuna ci è stata a studiare e poi si è laureata sinologa; c’è un ingegnere di Parma di trent’anni, che quando stava all’università ha passato un periodo all'università Xi’an, in mezzo al nulla; un architetto che a Shanghai ha studiato la struttura urbanistica e ci ha fatto una tesi di dottorato; una ragazza che a Pechino ci ha vissuto da piccola perché il padre lavorava in Cina; pochissimi quelli che non ci sono mai stati. Di questi, uno ha sostituito con l’Iraq, dove ha partecipato a un progetto umanitario; un altro si è fatto New York in Morgan & Stanley.
Si tratta di solitari, gente talmente fuori dagli schemi che non la si può catalogare in nessun gruppo. Gente tipicamente accomunata solo dalla passione per le sigarette – la Cina segna le abitudini di un fumatore – e quella per l’alcool – durante quei mesi di corso, saremo tutti ubriachi diverse volte a settimana, complice la Milano da bere.
E’ strano sentirsi una mosca bianca e poi all’improvviso trovarsi in un nido di mosche bianche. E’ un po’ quello che sentono tutti, nel corso. Niente formalismi, è amicizia da subito tra quasi tutti. Nasce un gruppo niente male, i cui legami, le cui guanxi, dureranno nel tempo.

Al termine del corso si svolgono dei colloqui per l’assegnazione di stage, ce ne sono solo tredici. Ne ottengo una, da parte di una grande azienda alimentare italiana. E così, dopo una festa alcolica, un training di tre settimane tra Milano e Lugano dove ha sede l’ufficio export, e tanti saluti, mi ritrovo con sei compagni di corso di quel di Shanghai.
“Non è Pechino ma ci si accontenta” mi dico.

Niente di più sbagliato.

Guanxi

Guanxi (关系) viene generalmente tradotto come “relazione”, ma ha anche l’accezione di qualcosa che si incrocia, che lega. Guanxi può essere l’incrocio di due strade, o il nesso tra due argomenti. Una di queste tante accezioni è la più comune, e quella che ci interessa dal punto di vista socio-culturale: guanxi è la relazione che si instaura tra due persone. Quando io conosco qualcuno, stabilisco una guanxi. La qualità di questa guanxi migliora tanto più sono profondi la fiducia e il rispetto reciproci.
La Cina è un Paese antico, come l’Italia, il centro di una civiltà che si è diffusa in tutto il pianeta; ne va da sé che anche i rapporti sociali tra le persone siano stati strutturati in modo particolarmente complesso. Ma mentre in Occidente il nostro pensiero ha portato alla generalizzazione dell’essere umano, “il prossimo”, “l’umanità”, in Cina le relazioni sono rimaste sempre molto specifiche, differenziate da persona a persona.
Tradotto in parole semplici, mentre in Occidente noi tendiamo a trattare tutte le persone allo stesso modo, almeno in linea di principio, i cinesi discriminano. Verso chi non si conosce è possibile mentire, è possibile truffare, è possibile tutto perché ci sono ben pochi doveri morali verso uno sconosciuto. Le cose cambiano quando due persone si conoscono: costruiscono un rapporto di fiducia. I cinesi dicono “dare la faccia”, ovvero permettere a una persona di entrare nella propria sfera personale, instaurare un rapporto umano e mostrare i reciproci limiti e punti deboli, al fine di costituire un rapporto di fiducia. Quando c’è fiducia, c’è una buona guanxi.
Quando i cinesi hanno bisogno di qualcosa, si affidano alle persone con cui hanno una buona guanxi: anzitutto la famiglia, quelli dello stesso sangue; quindi le persone che conoscono da molto tempo, tipicamente amici di famiglia, vicini di casa, compagni di scuola, colleghi. Evitano il più possibile di doversi affidare e fidare di chi non conoscono. Ciascun cinese coltiva le proprie guanxi con telefonate, inviti a cena o a prendere il tè, auguri, regali piccoli e grandi. Le persone con cui si condivide una buona guanxi sono un’assicurazione per il futuro.
Questo modo di pensare porta, nel mondo degli affari, a vari atteggiamenti che noi occidentali potremmo definire “favoritismi”, “nepotismo”, “lobbismo”, “mafia”. Mettiamo che io debba assumere una persona: come faccio a sapere che questa persona lavorerà sodo e non tradirà l’azienda quando più gli conviene? Tramite le guanxi: la figlia del mio compagno di scuola, il fratello di un mio amico, il fidanzato di mia cugina. Devo trovare un fornitore: cercherò qualche azienda tramite le mie guanxi. Devo concedere un prestito: darò la preferenza a chi può garantirmi fiducia, tramite le guanxi.
Questo sistema di ragionamento è antico quanto il Confucianesimo, estremamente razionale, molto efficiente in una situazione di incertezza. Equo non tanto, perché rafforza le gerarchie. Ma applicato con onestà, dando fiducia a chi se la merita con le azioni, è perfetto. E poi i cinesi non hanno il tabù della gerarchia che abbiamo noi in Occidente: noi mettiamo la legge meccanica al di sopra di tutto e nel lavoro calcoliamo il valore delle persone in denaro fatturato o in anni di servizio. I cinesi sono più discrezionali, non generalizzano e non semplificano come facciamo noi. Se ci pensiamo, poi, la mentalità italiana non è tanto diversa oggi, e se guardiamo indietro nel tempo di qualche decennio è quasi uguale.

Anche io imparo a coltivare le mie guanxi. E’ un piacere sottile, perché mescola rapporti umani ed economici, senza slegarli astrattamente. Per molti versi il sistema delle guanxi umanizza il sistema economico, lo rende meno arido e spietato. Una delle mie guanxi mi verrà estremamente utile nella ricerca del lavoro, perché mentre molte decine di miei CV mandati via posta elettronica vengono cestinati dalle aziende italiane presenti in Cina, un CV passato a mano da un’amica – che lasceremo innominata – all’ufficio personale della Camera di Commercio in cui lavora, mi frutterà due colloqui e infine il mio primo contratto di lavoro.

Purtroppo, mi rendo conto, le mie guanxi sono forti ma non abbastanza in alto. A 24 anni le guanxi in alto non si creano da soli, si ereditano. E siccome io non ne ho ereditate, devo lavorarci: dimostrando alle persone che ho attorno la mia buona volontà, la mia intelligenza, il mio rispetto, la mia sincerità, la mia credibilità. Il mio primo lavoro mi fa lavorare con la Cina ma non mi ci manda. Tre mesi dopo l’assunzione il contratto non viene rinnovato, ma vengo assunto in un’associazione di categoria, dopo che la segretaria del direttore, con cui avevo collaborato in Camera, passa il mio CV al suo capo lodando la mia professionalità. Questa volta lavoro ottimo, ambiente sereno, stipendio da sogno, ma niente Cina. Sono quasi sul punto di rinunciare al mio ritorno in Oriente quando, a due anni dalla mia partenza per Pechino, ricevo un’e-mail dalla mia università, un invito a un concorso per borse di studio che finanziano un corso di tre mesi a Milano sull’economia cinese, e uno stage semestrale direttamente in Cina. La coordinatrice del progetto è la mia relatrice di tesi, quella che mi ha spedito la prima volta in Cina, a forza. Non so se si ricordi di me tra i tanti suoi ex-studenti, se si ricordi della mia tesi per cui aveva proposto sette punti, della nostra guanxi gelidamente professionale, fatta di incontri su appuntamento e dialoghi formali e misurati. Forse se ne ricorda, ed è per questo che mi è arrivato l’invito via e-mail. Forse se ne ricorderà, se la scelta dei candidati spetterà a lei. La parola guanxi, dopotutto, me l’ha insegnata lei durante i suoi corsi all’università. Mando il materiale necessario all’iscrizione e prego. Poi, un’e-mail dall’università per richiedere un colloquio motivazionale. E poi, una telefonata dall’ufficio relazioni internazionali: “Complimenti, Lei è stato scelto tra i beneficiari della borsa di studio per il programma Business in China”.

2006-10-19

Laurea

L’autunno che segue è segnato da nuove compagnie. Abbandono tutte le vecchie abitudini e le vecchie amicizie, conosco tanta gente quanta non ne ho mai conosciuta nel resto della mia vita a Milano. Sono sempre in giro, la sera. Cambio, sperimento, cresco; è come una febbre che mi spinge lontano da ogni staticità. La mia vecchia vita mi va stretta. Quella nuova pure, ma un po’ meno. Continuo a sognare la Cina, in fondo.

E poi, finalmente, poco più di un anno dopo la mia partenza per Pechino, sono all’università davanti a una schiera di professori, a presentare la mia tesi di laurea. E’ una bella tesi. La mia relatrice chiederà 7 punti, me ne daranno 5 perché è palese che sui numeri ho un po’ bluffato. D’altra parte, chiunque abbia consultato l’annuario statistico cinese si rende conto che nulla torna, le cifre che contiene sono bluff completi e nemmeno coerenti con sé stessi. Pazienza. 101 su 110 è più di quanto chiedessi. E ora sono laureato.

Pronto a entrare nel mondo del lavoro, mi manca solo un’azienda che mi rispedisca in Oriente. Elena è presente alla mia discussione. Ora lavora a Milano: ha lasciato la sua azienda, stufa della Cina, per lavorare ad Agrate Brianza. Poi non ha retto nemmeno lei all’Italia, e ha accettato una proposta per tornare in Cina, a Shanghai. In quei giorni è ancora a Milano per un periodo di training. Ci siamo visti, di tanto in tanto, a commemorare i bei vecchi tempi di Pechino. Questa volta mi porta un regalo, da parte sua e del capo alla Camera di Commercio. Un libro fotografico di Yann Layma, un fotografo che ha girato tutta la Cina e ne ha fotografato ogni angolo. Un regalo significativo, perché è un augurio.

Purtroppo il neolaureato, anche se con una buona laurea, un buono stage e una conoscenza discreta del cinese, si trova davanti un mondo del lavoro che non lo capisce. Mi offrono posizioni nel settore delle assicurazioni, della finanza, delle risorse umane, tutti basati a Milano.
“Veramente vorrei andare in Cina”
“Ah, bene, complimenti per il coraggio. Ce ne vorrebbe di più di gente come lei. Purtroppo per la Cina non abbiamo nulla da offrirle. Buona fortuna”.

Quattro mesi di attesa, colloquio dopo colloquio, ciascuno più fuori luogo dell’altro. Poi, finalmente, a giugno qualcosa si muove.

Lakshmi

L’ho amata quando avevo quattordici anni, ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Poi si è messa con un mio amico, e ci è rimasta cinque anni. Quando si sono lasciati, mi sono innamorato ancora di lei, ma ancora non ho avuto il coraggio di dirglielo. E lei si è messa assieme a un altro.

Anche io le piacevo, lo so. Ma la verità è che non ho mai avuto le palle per dirle in faccia che l’amavo e invitarla fuori. Non riuscivo a parlarle. Mi tremavano le gambe e il cuore mi batteva se solo la vedevo. Dopo la seconda volta, ho deciso di sparire, tagliare i ponti. Finita la scuola superiore non l’ho più vista, non ho nemmeno più voluto sapere dove fosse finita. Ma la sognavo ancora, la notte, di tanto in tanto, a distanza di mesi una volta dall’altra. Ritornava sempre a tormentarmi con la mia sconfitta morale, il mio fallimento e il mio desiderio. Per lei avevo scritto la mia prima poesia; è anche per causa sua che ho cominciato a interessarmi di India; l’esperienza dell’amore fallito mi ha reso ciò che sono, dannatamente romantico e insicuro.

Ma la Cina è arrivata come uno shock. E’ stato come dimostrare a me stesso che potevo fare qualcosa di molto più significativo delle persone che avevo attorno. Sono cambiato, niente più timidezza, niente più insicurezza. Sognavo Laksmi pochi giorni dopo essere arrivato a Pechino, all’hotel Dabei. La sogno ancora a maggio, un paio di settimane dopo essere tornato in Italia. E’ tempo di affrontare il mio demone, una volta per tutte.

La scusa del mio ritorno è ottima per incontrare vecchie conoscenze comuni. In qualche giorno riesco a scoprire che abita sempre nello stesso posto e che lavora in centro a Milano, vicino a via Torino. E’ il 10 giugno quando – con lei sosterrò sempre che passassi di lì per caso – la incontro, sola, che torna dalla pausa pranzo.

Lingua asciutta. Gambe che tremano. Cuore che batte. Non la vedevo da cinque anni è l’effetto è sempre lo stesso. Qualche parola scambiata così, e un appuntamento per un aperitivo. Molto più di quanto mi aspettassi. All’aperitivo scopro che, come me, non ha programmi per le vacanze.
“Perché non andiamo insieme, io e te, in vacanza?” mi chiede.

Non è possibile. E invece è vero. La vacanza che segue è di gran lunga la più surreale della mia vita. Due settimane, zaino in spalla, nessuna prenotazione; Milano-St-Maries de la Mer-Barcellona-Madrid-Burgos-Santander-Saragozza-Barcellona-Milano. Tutta in pullman o in treno, senza nemmeno una guida Lonely Planet.
E’ la prima volta, mi rendo conto, che spendo tempo con Laksmi. Mi rendo conto solo ora che la ragazza che amavo esisteva solo nella mia mente. Lei è diversa – bellissima, dolce, folle, piena di energia – ma pericolosa. Innocente, ingenua, irresponsabile. Tutti i suoi ex sono ancora innamorati di lei. Quasi tutti sono in analisi dopo che la storia è finita improvvisamente. Lei ne ride: “Me li cerco col lanternino”. Non capisce, non ha mai letto nel cuore di un’altra persona. Afferra la vita e la morde, ma non guarda alle conseguenze. E’ così bella e così pericolosa da far impazzire gli uomini. Si è messa con un tizio un paio di settimane prima, e usa questa scusa per darmi picche. Per due settimane viaggiamo, mangiamo, dormiamo assieme. Nemmeno un bacio. Probabilmente l’idea che potesse piacermi non le è passata per la testa all’inizio. Ora che capisce comunque le interessa poco. La donna con cui ho sempre sognato un futuro non esiste. La donna che ho davanti non promette un futuro a nessuno. Lascerà il suo ragazzo alcuni mesi dopo, per mettersi con un australiano vegetariano conosciuto in India tre settimane prima.

Ho sconfitto il mio demone? Sono cambiato abbastanza?
Non esiste più una battaglia da combattere. La Laksmi che ho tanto amato non è mai esistita nella realtà, e ora nemmeno nei miei sogni. Non c’è nulla che possa fare per cambiare la realtà in ciò che non è mai stata.

Ma ho trovato qualcosa di importante: la pace. Ora siamo amici, e io non la sogno più. Rido, pensando alle mie illusioni di una volta. Non per l’ingenuità di un tempo, ma per la libertà di oggi.

Grazie, Cina.

2006-10-09

Fumare al tramonto

Nei mesi successivi, nei pigri pomeriggi milanesi, quando il sole comincia a scendere dietro i palazzi e gli alberi colorando di rosso il cielo azzurro, spesso metto su una delle canzoni di Pechino. La porta del balcone spalancata, mi siedo a guardare fuori, e mi accendo una Zhongnanhai 8, estratta dai pochi pacchetti che ho portato con me in Italia.
Non fumo più come prima, a Milano. Si sente che l’aria è pulita e la puzza del tabacco rimane addosso. Fumo meno, e con più gusto. La sigaretta mi porta indietro ai ricordi di poche settimane prima, e penso alla mia avventura e a quanto è cambiato dentro di me. Guardando la strada sotto casa mia, sembra tutto un sogno: sono davvero stato in Cina?

Sì, ci sono stato. E ci tornerò ancora.

2006-10-08

There and back again

Tornare in Italia è strano. La gente parla la mia lingua, mi capisce e la capisco. E’ come se fossi stato parzialmente sordo e muto per mesi, e all’improvviso avessi riacquistato tutte le capacità. Ma dopo l’euforia comincio a chiedermi: a che serve? A che serve comunicare nel dettaglio con la maggior parte delle persone? A che serve capire la televisione? A che serve leggere i giornali? Non è meglio essere sordi e muti, ma concentrati e lucidi?
L’Italia è sedante, come se tutto fosse sfuocato, tutto attutito. Sono bombardato da informazioni e stimoli che non voglio, e nello sforzo di filtrarli perdo gran parte della mia percettività, non vedo e non trovo più le piccole e le grandi cose che mi interessano.
Nulla è cambiato da quando sono partito: tre mesi, mi dicono, non sono molti. Ma la mia vita è cambiata, perché qui non è cambiato nulla? Stesso lavoro, stessa università, stesse coppie, stessi posti preferiti, stesse opinioni. E’ come guardare a un dipinto ad olio. Le persone che conosco mi trattano come se fossi lo stesso di prima, ma non lo sono. Non lo sarò mai più: niente più timidezza, niente più compromessi con l’ottusità milanese, niente più giornate passate a vivere in mondi immaginari. Ho bisogno di nuova aria.

Pechino mi manca da subito, e cerco conforto nel contattare i miei compagni di laggiù.
Massimiliano torna due settimane dopo di me. Ironia della sorte, il giorno di Pasqua, 20 aprile 2003, il giorno successivo alla mia partenza, coincide con l’ammissione ufficiale del governo cinese circa la malattia. A Pechino, mi racconta Massi, scoppia il panico. Intere aree in quarantena, assalti ai supermercati e poi il deserto. Il terzo anello vuoto, i bar di Sanlitun vuoti. Pochi ormai vanno al lavoro, praticamente nessuno esce la sera e va in luoghi pubblici. Massi, che ha perso anche il suo supporto linguistico, si impigrisce ancora di più, immerso nella solitudine, consapevole della prossima partenza. Come me, tuttavia, si ostina a far scadere il visto prima di ripartire. Quando torna in Italia si sente esattamente come me, sedato né più né meno.


Christian torna nei miei stessi giorni, ma non a Milano, bensì in Bulgaria, a trovar la fidanzata storica. Questa, disfandogli la valigia, gli becca i capelli lunghi e nerissimi di Betty tra i vestiti e, nonostante l’italiano sostenga trattarsi dei capelli dell’aiyi, la storia finisce. Era destino. Betty, di lì a poco, di sposerà con un cinese. Ma a Christian non potrebbe importare di meno, la vita è cambiata anche a lui. Partirà presto per l’università di Dalian, per studiare cinese un semestre.


Stefano rimane solo, a Pechino, a presidiare l’ufficio, dopo che tutti i suoi colleghi sono partiti. Eroico, si fa tutto il periodo della SARS nel Kerry Centre, accettando con orgoglio la sua condizione di sacrificio umano alla malattia e alla professionalità. Se la caverà benissimo, grazie al cielo.


Jingyi come al solito esibisce coraggio e tranquillità di spirito. Per tutto il periodo della SARS frequenta l’unico bar rimasto aperto a Pechino, il the Tree. Cocktail economici, musica funky, luci stroboscopiche e una sala che sarà forse trenta metri quadri. Il DJ, un inglese con i capelli neri e riccissimi stile afro, è anche il proprietario. Ci sentiamo per mail ancora qualche volta, io e Jingyi, ma le sue risposte tardano sempre a venire. Alla fine capisco che preferisce tagliare completamente i ponti, e smetto di scriverle.


L’ambasciata per una volta viene utile: tramite una mailing list di istruzioni in caso di SARS, trovo l’indirizzo e-mail di Benedetta, la migliora amica di Jingyi, in Cc. La prima volta non mi risponde. La seconda è gentilissima e pare sia diventato il suo miglior amico. Poi basta, non si sente più, nemmeno per rispondere agli auguri di Natale, mesi dopo. Stronza.


Il mio capo si sposa con il suo fidanzato a casa sua, in Nepal, con rito induista. Il loro viaggio di nozze percorre il Nepal insieme a tutti gli invitati per un paio di settimane, come una carovana principesca. Vaira si sposa con Vikash quell’estate, ma con rito civile italiano all’ambasciata, alla presenza dei soli genitori: il matrimonio induista è fissato per l’anno seguente a Mauritius.


Marco scompare. Ci sentiamo una volta dandoci appuntamento in un McDonald e non si presenta. Tipico di lui. E’ l’ultima volta che lo sento.

L’unica amica che rimane fissa in Cina è Elena. Non so perché, ma pur essendo la persona che ho meno frequentato in quel periodo a Pechino, è anche quella con cui a volte mi intendo meglio. Paradossalmente, sarà quella che nei mesi a venire incontrerò più spesso.