Tornare in Italia è strano. La gente parla la mia lingua, mi capisce e la capisco. E’ come se fossi stato parzialmente sordo e muto per mesi, e all’improvviso avessi riacquistato tutte le capacità. Ma dopo l’euforia comincio a chiedermi: a che serve? A che serve comunicare nel dettaglio con la maggior parte delle persone? A che serve capire la televisione? A che serve leggere i giornali? Non è meglio essere sordi e muti, ma concentrati e lucidi?
L’Italia è sedante, come se tutto fosse sfuocato, tutto attutito. Sono bombardato da informazioni e stimoli che non voglio, e nello sforzo di filtrarli perdo gran parte della mia percettività, non vedo e non trovo più le piccole e le grandi cose che mi interessano.
Nulla è cambiato da quando sono partito: tre mesi, mi dicono, non sono molti. Ma la mia vita è cambiata, perché qui non è cambiato nulla? Stesso lavoro, stessa università, stesse coppie, stessi posti preferiti, stesse opinioni. E’ come guardare a un dipinto ad olio. Le persone che conosco mi trattano come se fossi lo stesso di prima, ma non lo sono. Non lo sarò mai più: niente più timidezza, niente più compromessi con l’ottusità milanese, niente più giornate passate a vivere in mondi immaginari. Ho bisogno di nuova aria.
Pechino mi manca da subito, e cerco conforto nel contattare i miei compagni di laggiù.
Massimiliano torna due settimane dopo di me. Ironia della sorte, il giorno di Pasqua, 20 aprile 2003, il giorno successivo alla mia partenza, coincide con l’ammissione ufficiale del governo cinese circa la malattia. A Pechino, mi racconta Massi, scoppia il panico. Intere aree in quarantena, assalti ai supermercati e poi il deserto. Il terzo anello vuoto, i bar di Sanlitun vuoti. Pochi ormai vanno al lavoro, praticamente nessuno esce la sera e va in luoghi pubblici. Massi, che ha perso anche il suo supporto linguistico, si impigrisce ancora di più, immerso nella solitudine, consapevole della prossima partenza. Come me, tuttavia, si ostina a far scadere il visto prima di ripartire. Quando torna in Italia si sente esattamente come me, sedato né più né meno.
Christian torna nei miei stessi giorni, ma non a Milano, bensì in Bulgaria, a trovar la fidanzata storica. Questa, disfandogli la valigia, gli becca i capelli lunghi e nerissimi di Betty tra i vestiti e, nonostante l’italiano sostenga trattarsi dei capelli dell’aiyi, la storia finisce. Era destino. Betty, di lì a poco, di sposerà con un cinese. Ma a Christian non potrebbe importare di meno, la vita è cambiata anche a lui. Partirà presto per l’università di Dalian, per studiare cinese un semestre.
Stefano rimane solo, a Pechino, a presidiare l’ufficio, dopo che tutti i suoi colleghi sono partiti. Eroico, si fa tutto il periodo della SARS nel Kerry Centre, accettando con orgoglio la sua condizione di sacrificio umano alla malattia e alla professionalità. Se la caverà benissimo, grazie al cielo.
Jingyi come al solito esibisce coraggio e tranquillità di spirito. Per tutto il periodo della SARS frequenta l’unico bar rimasto aperto a Pechino, il the Tree. Cocktail economici, musica funky, luci stroboscopiche e una sala che sarà forse trenta metri quadri. Il DJ, un inglese con i capelli neri e riccissimi stile afro, è anche il proprietario. Ci sentiamo per mail ancora qualche volta, io e Jingyi, ma le sue risposte tardano sempre a venire. Alla fine capisco che preferisce tagliare completamente i ponti, e smetto di scriverle.
L’ambasciata per una volta viene utile: tramite una mailing list di istruzioni in caso di SARS, trovo l’indirizzo e-mail di Benedetta, la migliora amica di Jingyi, in Cc. La prima volta non mi risponde. La seconda è gentilissima e pare sia diventato il suo miglior amico. Poi basta, non si sente più, nemmeno per rispondere agli auguri di Natale, mesi dopo. Stronza.
Il mio capo si sposa con il suo fidanzato a casa sua, in Nepal, con rito induista. Il loro viaggio di nozze percorre il Nepal insieme a tutti gli invitati per un paio di settimane, come una carovana principesca. Vaira si sposa con Vikash quell’estate, ma con rito civile italiano all’ambasciata, alla presenza dei soli genitori: il matrimonio induista è fissato per l’anno seguente a Mauritius.
Marco scompare. Ci sentiamo una volta dandoci appuntamento in un McDonald e non si presenta. Tipico di lui. E’ l’ultima volta che lo sento.
L’unica amica che rimane fissa in Cina è Elena. Non so perché, ma pur essendo la persona che ho meno frequentato in quel periodo a Pechino, è anche quella con cui a volte mi intendo meglio. Paradossalmente, sarà quella che nei mesi a venire incontrerò più spesso.
L’Italia è sedante, come se tutto fosse sfuocato, tutto attutito. Sono bombardato da informazioni e stimoli che non voglio, e nello sforzo di filtrarli perdo gran parte della mia percettività, non vedo e non trovo più le piccole e le grandi cose che mi interessano.
Nulla è cambiato da quando sono partito: tre mesi, mi dicono, non sono molti. Ma la mia vita è cambiata, perché qui non è cambiato nulla? Stesso lavoro, stessa università, stesse coppie, stessi posti preferiti, stesse opinioni. E’ come guardare a un dipinto ad olio. Le persone che conosco mi trattano come se fossi lo stesso di prima, ma non lo sono. Non lo sarò mai più: niente più timidezza, niente più compromessi con l’ottusità milanese, niente più giornate passate a vivere in mondi immaginari. Ho bisogno di nuova aria.
Pechino mi manca da subito, e cerco conforto nel contattare i miei compagni di laggiù.
Massimiliano torna due settimane dopo di me. Ironia della sorte, il giorno di Pasqua, 20 aprile 2003, il giorno successivo alla mia partenza, coincide con l’ammissione ufficiale del governo cinese circa la malattia. A Pechino, mi racconta Massi, scoppia il panico. Intere aree in quarantena, assalti ai supermercati e poi il deserto. Il terzo anello vuoto, i bar di Sanlitun vuoti. Pochi ormai vanno al lavoro, praticamente nessuno esce la sera e va in luoghi pubblici. Massi, che ha perso anche il suo supporto linguistico, si impigrisce ancora di più, immerso nella solitudine, consapevole della prossima partenza. Come me, tuttavia, si ostina a far scadere il visto prima di ripartire. Quando torna in Italia si sente esattamente come me, sedato né più né meno.
Christian torna nei miei stessi giorni, ma non a Milano, bensì in Bulgaria, a trovar la fidanzata storica. Questa, disfandogli la valigia, gli becca i capelli lunghi e nerissimi di Betty tra i vestiti e, nonostante l’italiano sostenga trattarsi dei capelli dell’aiyi, la storia finisce. Era destino. Betty, di lì a poco, di sposerà con un cinese. Ma a Christian non potrebbe importare di meno, la vita è cambiata anche a lui. Partirà presto per l’università di Dalian, per studiare cinese un semestre.
Stefano rimane solo, a Pechino, a presidiare l’ufficio, dopo che tutti i suoi colleghi sono partiti. Eroico, si fa tutto il periodo della SARS nel Kerry Centre, accettando con orgoglio la sua condizione di sacrificio umano alla malattia e alla professionalità. Se la caverà benissimo, grazie al cielo.
Jingyi come al solito esibisce coraggio e tranquillità di spirito. Per tutto il periodo della SARS frequenta l’unico bar rimasto aperto a Pechino, il the Tree. Cocktail economici, musica funky, luci stroboscopiche e una sala che sarà forse trenta metri quadri. Il DJ, un inglese con i capelli neri e riccissimi stile afro, è anche il proprietario. Ci sentiamo per mail ancora qualche volta, io e Jingyi, ma le sue risposte tardano sempre a venire. Alla fine capisco che preferisce tagliare completamente i ponti, e smetto di scriverle.
L’ambasciata per una volta viene utile: tramite una mailing list di istruzioni in caso di SARS, trovo l’indirizzo e-mail di Benedetta, la migliora amica di Jingyi, in Cc. La prima volta non mi risponde. La seconda è gentilissima e pare sia diventato il suo miglior amico. Poi basta, non si sente più, nemmeno per rispondere agli auguri di Natale, mesi dopo. Stronza.
Il mio capo si sposa con il suo fidanzato a casa sua, in Nepal, con rito induista. Il loro viaggio di nozze percorre il Nepal insieme a tutti gli invitati per un paio di settimane, come una carovana principesca. Vaira si sposa con Vikash quell’estate, ma con rito civile italiano all’ambasciata, alla presenza dei soli genitori: il matrimonio induista è fissato per l’anno seguente a Mauritius.
Marco scompare. Ci sentiamo una volta dandoci appuntamento in un McDonald e non si presenta. Tipico di lui. E’ l’ultima volta che lo sento.
L’unica amica che rimane fissa in Cina è Elena. Non so perché, ma pur essendo la persona che ho meno frequentato in quel periodo a Pechino, è anche quella con cui a volte mi intendo meglio. Paradossalmente, sarà quella che nei mesi a venire incontrerò più spesso.
Nessun commento:
Posta un commento