Appena vedo la gente che c’è con me in aula, il primo giorno di lezione di questo corso tenuto in un palazzo seicentesco del centro di Milano, mi rendo conto che la gente qui non è tanto normale. Nessuno ha capito con che criterio abbiano aggiudicato le borse di studio: la voce è che le candidature siano state 440, le borse 40. Le quaranta persone in questa classe sono tutte strane, tutte dannatamente alternative, fuori da qualsiasi schema, con le esperienze più incredibili alle spalle.
Quelli che come me sono stati in Cina a lavorare un periodo sono parecchi; qualcuna ci è stata a studiare e poi si è laureata sinologa; c’è un ingegnere di Parma di trent’anni, che quando stava all’università ha passato un periodo all'università Xi’an, in mezzo al nulla; un architetto che a Shanghai ha studiato la struttura urbanistica e ci ha fatto una tesi di dottorato; una ragazza che a Pechino ci ha vissuto da piccola perché il padre lavorava in Cina; pochissimi quelli che non ci sono mai stati. Di questi, uno ha sostituito con l’Iraq, dove ha partecipato a un progetto umanitario; un altro si è fatto New York in Morgan & Stanley.
Si tratta di solitari, gente talmente fuori dagli schemi che non la si può catalogare in nessun gruppo. Gente tipicamente accomunata solo dalla passione per le sigarette – la Cina segna le abitudini di un fumatore – e quella per l’alcool – durante quei mesi di corso, saremo tutti ubriachi diverse volte a settimana, complice la Milano da bere.
E’ strano sentirsi una mosca bianca e poi all’improvviso trovarsi in un nido di mosche bianche. E’ un po’ quello che sentono tutti, nel corso. Niente formalismi, è amicizia da subito tra quasi tutti. Nasce un gruppo niente male, i cui legami, le cui guanxi, dureranno nel tempo.
Al termine del corso si svolgono dei colloqui per l’assegnazione di stage, ce ne sono solo tredici. Ne ottengo una, da parte di una grande azienda alimentare italiana. E così, dopo una festa alcolica, un training di tre settimane tra Milano e Lugano dove ha sede l’ufficio export, e tanti saluti, mi ritrovo con sei compagni di corso di quel di Shanghai.
“Non è Pechino ma ci si accontenta” mi dico.
Niente di più sbagliato.
Quelli che come me sono stati in Cina a lavorare un periodo sono parecchi; qualcuna ci è stata a studiare e poi si è laureata sinologa; c’è un ingegnere di Parma di trent’anni, che quando stava all’università ha passato un periodo all'università Xi’an, in mezzo al nulla; un architetto che a Shanghai ha studiato la struttura urbanistica e ci ha fatto una tesi di dottorato; una ragazza che a Pechino ci ha vissuto da piccola perché il padre lavorava in Cina; pochissimi quelli che non ci sono mai stati. Di questi, uno ha sostituito con l’Iraq, dove ha partecipato a un progetto umanitario; un altro si è fatto New York in Morgan & Stanley.
Si tratta di solitari, gente talmente fuori dagli schemi che non la si può catalogare in nessun gruppo. Gente tipicamente accomunata solo dalla passione per le sigarette – la Cina segna le abitudini di un fumatore – e quella per l’alcool – durante quei mesi di corso, saremo tutti ubriachi diverse volte a settimana, complice la Milano da bere.
E’ strano sentirsi una mosca bianca e poi all’improvviso trovarsi in un nido di mosche bianche. E’ un po’ quello che sentono tutti, nel corso. Niente formalismi, è amicizia da subito tra quasi tutti. Nasce un gruppo niente male, i cui legami, le cui guanxi, dureranno nel tempo.
Al termine del corso si svolgono dei colloqui per l’assegnazione di stage, ce ne sono solo tredici. Ne ottengo una, da parte di una grande azienda alimentare italiana. E così, dopo una festa alcolica, un training di tre settimane tra Milano e Lugano dove ha sede l’ufficio export, e tanti saluti, mi ritrovo con sei compagni di corso di quel di Shanghai.
“Non è Pechino ma ci si accontenta” mi dico.
Niente di più sbagliato.
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