2006-10-28

La Nan Sanlitun

Sanlitun è per antonomasia il centro della vita notturna di Pechino. La via si divideva tradizionalmente in due parti: la jiuba jie propria, la “via dei bar”, roccaforte dei locali per cinesi con musica pop a palla, luci al neon esagerate, buttadentro, papponi; e la nan jiuba jie, la “via dei bar del sud”, che stava a sud della Gongti Bei Lu. Relativamente nascosta alla vista, la nan jiuba jie era il regno della comunità internazionale che viveva a Pechino, piena di bar meravigliosi di ogni genere: l’Hidden Tree, famoso per l’incredibile selezione di birre europee e la pizza migliore della città; il Durty Nellie’s, il pub irlandese di Pechino; il The River (河), tutto in legno con un palco dove suonavano rock band di ogni parte della Cina, e dopo che questi erano scesi dal palco cominciava l’open jamming: chi con la chitarra, chi con l’armonica, chi battendo la bottiglia di Yanjing sul tavolo, tutti i presenti partecipavano spontaneamente alla melodia proposta. Il posto migliore della città per passare la serata.

Quando torno a visitarla, più di due anni dopo, nulla poteva prepararmi allo spettacolo che mi trovo davanti. Una distesa di macerie a perdita d’occhio. Non esiste quasi pietra su pietra, se non i resti di un muretto, quello che nascondeva l’albero dell’Hidden Tree, un albero ormai morto e coperto di polvere.

Con la scusa di “sviluppare” l’area di Sanlitun, la municipalità ha espropriato e spianato l’area, demolendo i bar un tempo pieni di gente, nel 2004. Nel 2006, quando scrivo, i lavori per lo “sviluppo” dell’area non sono ancora cominciati. Le macerie giacciono mute, coperte di polvere e occasionali ciuffi d’erba. Gli unici suoni sono quelli del vento e, lontano, il rumore di qualche ruspa al lavoro, ma non per costruire, solo per distruggere. Operai cinesi vagano qua e là con gli elmetti in testa, mentre il sole cala; non sembra abbiano un gran daffare.

Mi volto, e in un angolo nascosto noto un ultimo bar rimasto in piedi, una costruizione di mattoni degli anni ’50 con un’insegna rotta e una lista dei drink scritta a mano di fianco alla porta. Di fronte ad essa, seduti su sedie di plastica, bottiglie di Qingdao in mano, una buona ventina di africani che mi guardano, chi sorridendo con apparente scherno, chi torvo. Uno si avvicina, alzando la mano pronto a darmi un cinque. So già dove vuole puntare.

“Grazie, non fumo” dico. E me ne vado, con lo stomaco sottosopra per quello che ho trovato.

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