E poi capita che venga per lavoro a Pechino anche lei, in un momento in cui ci sono anche io. Guarda con stupore e malinconia a tutto quello che è cambiato, eppure riconosce alcuni luoghi come quelli della sua adolescenza, e mi racconta di quando non c’erano bar dove andare, e lei e i suoi amici rubavano la macchina di un ambasciatore, il padre di uno dei ragazzi, e a 16 anni se ne andavano per la Chang’an Jie senza che nessun poliziotto osasse fermare una targa diplomatica. O quando facevano battaglie con fucili ad acqua in Tian’anmen inzuppando tra le altre cose anche le guardie militari.
Per cena la porto a Houhai, di cui ha un ricordo vago. Ci sediamo al Buddha Bar, e ci portano un menu da una ventina di pagine scritte fitte fitte in caratteri cinesi.
“Non avete un menù in inglese?”
Il proprietario annuisce con tipico stupore cinese, come uno che ha imparato una cosa interessante, e ce ne porta uno, di due pagine. Lei sceglie prosciutto di Parma e melone, solo per curiosità di sapere se è vero o falso. Il prosciutto è vero, solo che tutto il piatto è abbondantemente condito con olio d’oliva. Un musicista cinese suona la chitarra in un angolo, una canzone rock in cinese. Tutte le rive del lago, un tempo vuote, sono ricoperte di locali, la cui età è indirettamente proporzionale alle dimensioni e alla rumorosità. Pechino è cambiata tanto, tanto sì.
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