2006-11-04

Di nuovo Jingyi

Quando torno in Cina le scrivo una mail per avvertirla. Mi risponde in modo strano, sembra che sia felice ma non abbia il tempo di scrivermi troppo a lungo. Poi, quando torno a Pechino, la chiamo ancora “Vediamoci una sera di queste”: Lei è come sempre impegnatissima, e mi dà un sabato sera appuntamento allo Yan Club, che non è né vicino né comodo per vedersi e raccontarsi due anni di storia.
Ci arrivo con Marco, un mio compagno di corso a Milano. Alla porta chiamo Jingyi, “Arrivo” dice.. Un minuto, e la vedo sbucare dal club, e saltarmi addosso abbracciandomi stretto stretto. “Ciao!” mi dice in italiano. Ricambio l’abbraccio un po’ imbarazzato.
Poi mi porta dentro, dove ci sono altri suoi amici. Musica trance a palla, coltre di fumo, alcolici da quattro soldi offerti gratis. E’ dimagrita, Jingyi, e mi sembra anche cambiata. Sono passati due anni, diamine. Ma c’è qualcosa in lei che mi insospettisce e disturba, sebbene non capisca cos’è. Mi dedica poco tempo, perché deve tornare a ballare, insieme ai suoi amici, tutti sotto le casse dove il volume è più forte. Non mi va di unirmi a loro, e rimango praticamente abbandonato.

Ci esco di nuovo qualche tempo dopo, una cena a un ristorante xinjiangese, io, lei e una sua amica francese. Ora Jingyi sta con un altro ragazzo italiano: lui sta a Roma. Si vedono un paio di volte l’anno, e lei è molto contenta di questa situazione di libertà. In questo non è cambiata. Durante la cena evita accuratamente di portare il discorso sui nostri trascorsi, di cui ovviamente l’amica non è al corrente. La stuzzico con qualche frecciata e mi risponde tagliente come al solito.
“Un altro ragazzo italiano… ” le chiedo, sorridendo “Quanti ne hai avuti?”
“Uno solo che abbia amato” mi risponde. E so che non si riferisce a me.
Poco dopo ci ritroviamo allo Yugong Yishan, un nuovo locale costruito dentro un parcheggio degli autobus. Il locale è vuoto, l’estate è calda, e così ci sediamo fuori, sotto gli alberi. Jingyi rolla una canna, e finalmente mi parla della sua svolta da raver:
“Odio la gente che beve, va nei locali solo per ubriacarsi. Sono molesti e fuori luogo, e danno fastidio per buona parte della notte. Ma c’è un momento, che è quello dell’alba, che è il più bello. E’ quando gli ubriachi se ne sono andati ed è rimasto solo lo zoccolo duro della festa, quelli che sono lì per ballare. Sei allo Yan Club, la musica è fortissima, e dalle vetrate vedi il sole sorgere, e la sua luce illumina le facce delle persone che ti stanno attorno e ballano. E allora non c’è nulla da dire, basta guardarsi negli occhi. E tutti noi sappiamo perché siamo lì”
La mia mente vaglia una decina di risposte taglienti che possano distruggere il suo entusiasmo, da “In ogni caso anche a voler parlare non avreste nulla da dirvi” a “Non vi sarete mai parlati allora” fino a “Non sapevo che ti drogassi”. Ma alla fine sono sempre troppo buono e le scarto tutte. Accetto la canna che mi passa.
“Mi fa piacere che tu sia tornato” mi dice.
“Grazie. Peccato stia a Shanghai” rispondo.
Lei storta la bocca con quel suo modo particolare: “Ci sono stata una volta, a Shanghai. Non è la città per me”
Almeno su questo, siamo ancora d’accordo.

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