L’ostello Poachers è stato fondato nei tempi bui degli anni ‘90 da un vecchio signore britannico, e da allora è rimasto la residenza temporanea ideale di tutti i turisti zaino in spalla e degli studenti stranieri che dalle città minori della Cina vengono a visitare Pechino, specie durante il week end. L’edificio ha tre piani con svariate camere a uno o due letti e un bagno doppio ad ogni piano, uno per le donne e uno per gli uomini. E’ piuttosto pulito, silenzioso, accogliente.
Il signore britannico non si vede mai, ma lascia tutto in mano a Zhu Li. D’altra parte, anche Zhu Li non si vede quasi mai, se non al mattino quando arrivano gli ospiti, che vengono accolti in inglese. Per tutto il resto del tempo, praticamente 18 ore su 24, alla reception sta un ragazzo sui venticinque anni, sorriso ebete stampato sul volto, giubbotto di pelle alla Fonzie di 4 taglie troppo piccolo, carnagione bianchiccia. Per il 90% del tempo guarda un televisore portatile in bianco e nero che sta dietro al banco, per il restante 10% sorride a chi passa, o sorride quando gli viene fatta una domanda e non la capisce (praticamente sempre). La sua unica apparente funzione è quella di fare la guardia alla porta che separa il bar dall’ostello, in modo che elementi indesiderati non accedano alle stanze. Non si è mai saputo come si chiamasse questo strano personaggio.
La camera che ci hanno dato è silenziosa e offre una vista rilassante sugli alberi del cortile e sul Bookworm, una biblioteca/bar sul retro, quasi sempre vuota. Ci sono due letti (quello vicino alla finestra e al calorifero lo occupo io d’ufficio, memore del gelo del Dabei, lasciando Massimiliano piuttosto interdetto), un tavolino con il thermos dell’acqua e delle buste di tè, un armadio che dividiamo, e un’unica sedia su cui accumuliamo giubbotti, jeans e magliette in una pila in cui si cercano ogni mattina alla cieca i propri indumenti.
In settimana sono poche le persone che stanno al Poachers, e solo nel weekend si riempie di giovani stranieri che escono dalle stanze sorridenti e ci ritornano devastati dall’alcol, e quasi sempre in compagnia. Per molti versi, il Poachers è un bordello, considerata anche la facilità con cui si trova un partner per la notte nel bar sottostante. Mi capita, una sera, di tornare in camera alle tre, e di sentire musica in tutte le stanze. Nell’unica sprovvista di musica i gemiti e i respiri pesanti sono piuttosto chiari.
Curiosamente, come vicini di camera abbiamo uno studio grafico il cui titolare, forse per risparmiare denaro, ha pensato di affittare come uffici due camere d’ostello che si guardano l’un l’altra. Ci lavorano dentro cinque ragazzi e ragazze giovani, che però raramente salutano. Sarà anche che la mattina gli passiamo davanti all’ufficio in pigiama e con lo spazzolino da denti in bocca, e che il sabato facciamo la stessa cosa ma indossando solo un asciugamano, diretti alla doccia.
Tutto sommato ci si sta bene al Poachers: tranquillo, pulito, economico, situato nel centro di Sanlitun, e crocevia per una serie di personaggi impossibili che conosceremo nelle settimane seguenti.
Il signore britannico non si vede mai, ma lascia tutto in mano a Zhu Li. D’altra parte, anche Zhu Li non si vede quasi mai, se non al mattino quando arrivano gli ospiti, che vengono accolti in inglese. Per tutto il resto del tempo, praticamente 18 ore su 24, alla reception sta un ragazzo sui venticinque anni, sorriso ebete stampato sul volto, giubbotto di pelle alla Fonzie di 4 taglie troppo piccolo, carnagione bianchiccia. Per il 90% del tempo guarda un televisore portatile in bianco e nero che sta dietro al banco, per il restante 10% sorride a chi passa, o sorride quando gli viene fatta una domanda e non la capisce (praticamente sempre). La sua unica apparente funzione è quella di fare la guardia alla porta che separa il bar dall’ostello, in modo che elementi indesiderati non accedano alle stanze. Non si è mai saputo come si chiamasse questo strano personaggio.
La camera che ci hanno dato è silenziosa e offre una vista rilassante sugli alberi del cortile e sul Bookworm, una biblioteca/bar sul retro, quasi sempre vuota. Ci sono due letti (quello vicino alla finestra e al calorifero lo occupo io d’ufficio, memore del gelo del Dabei, lasciando Massimiliano piuttosto interdetto), un tavolino con il thermos dell’acqua e delle buste di tè, un armadio che dividiamo, e un’unica sedia su cui accumuliamo giubbotti, jeans e magliette in una pila in cui si cercano ogni mattina alla cieca i propri indumenti.
In settimana sono poche le persone che stanno al Poachers, e solo nel weekend si riempie di giovani stranieri che escono dalle stanze sorridenti e ci ritornano devastati dall’alcol, e quasi sempre in compagnia. Per molti versi, il Poachers è un bordello, considerata anche la facilità con cui si trova un partner per la notte nel bar sottostante. Mi capita, una sera, di tornare in camera alle tre, e di sentire musica in tutte le stanze. Nell’unica sprovvista di musica i gemiti e i respiri pesanti sono piuttosto chiari.
Curiosamente, come vicini di camera abbiamo uno studio grafico il cui titolare, forse per risparmiare denaro, ha pensato di affittare come uffici due camere d’ostello che si guardano l’un l’altra. Ci lavorano dentro cinque ragazzi e ragazze giovani, che però raramente salutano. Sarà anche che la mattina gli passiamo davanti all’ufficio in pigiama e con lo spazzolino da denti in bocca, e che il sabato facciamo la stessa cosa ma indossando solo un asciugamano, diretti alla doccia.
Tutto sommato ci si sta bene al Poachers: tranquillo, pulito, economico, situato nel centro di Sanlitun, e crocevia per una serie di personaggi impossibili che conosceremo nelle settimane seguenti.
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