2006-08-13

Tra gli hutong

 

Un sabato pomeriggio io e Massimiliano decidiamo di andare a visitare il Tempio dei Lama e quello di Confucio. Il primo è grandioso: in stile tibetano e popolato da monaci in tonaca gialla e grigia, per lo più mongoli, esibisce lo sfarzo dell’arte buddhista e il museo, con tanto di foto, illustrazioni e diorami, svela numerose curiosità storiche, per esempio l’incontro tra il XIII Dalai Lama e l’Imperatore Qing Qianlong, nel XVIII secolo, in cui il supremo capo religioso del Tibet formalmente riconobbe la sua terra come facente storicamente parte della Cina, e fece tributo a Pechino in quanto supremo centro politico del Paese. Quante cose non si vengono a sapere, in Europa, penso. Tanto rumore per nulla, questa faccenda del Tibet libero!
 
Lasciando piuttosto deluso il tempio dei Lama, entro nel tempio di Confucio, là dove per secoli gli studenti hanno acceso bastoncini d’incenso al supremo sapiente della civiltà cinese. Si respira un’aria diversa, niente sfarzo, ma solo vecchie pietre grigie ricoperte di caratteri incisi fitti fitti, con i nomi di migliaia di sapienti e studiosi che hanno superato gli esami imperiali nel corso della storia.
 
E’ davanti al tempio di Confucio che vengo fermato da un vecchio: alto sul metro e sessanta, occhiali spessi e quadrati, piumino a ripararlo dal freddo, e tra le mani decine di fogli di carta di riso ricoperti di eleganti caratteri tracciati ad inchiostro. Prova a vendermene qualcuno, ma senza troppa insistenza. Non capisco nulla di quel che c’è scritto, se non che si tratta di formule per la buona fortuna, per il successo negli studi o negli affari, o in amore.
“Puoi scrivere il mio nome?” chiedo.
“Seguimi” risponde il vecchio.

E’ così che faccio la conoscenza di Ban Xiaolin (班晓林), e che sostengo, grazie alla sua pazienza e alla sua insistenza, la mia prima conversazione complessa in cinese. Il signor Ban guida la strada, con me leggermente più dietro, e un Massimiliano poco convinto alle spalle, che ci guarda chiedendosi che avremo mai da dirci io e il vecchio in quella successione di strani suoni che è il mandarino. Il signor Ban mi racconta che una volta era professore di matematica alle scuole medie, poi è andato in pensione e ora vive con la moglie, due figli e le loro famiglie in una casa poco lontano, e via tra hutong sconosciuti e larghi appena da passarci, con zero gradi, un’aria secca che fa sanguinare le mani e il naso, e cinesi che ci guardano come se fossimo i primi laowai ad entrare in quel quartiere. Almeno un quarto d’ora e una ventina di curve dopo arriviamo alla casa del signor Ban: da una parte salotto e camera da letto di quattro persone, totale forse venti metri quadri; dall’altra parte del vicolo la camera da letto di altre tre persone, più la “biblioteca”, uno scaffale ingombro di libri che il signor Ban adora macinare, dedicando gli ultimi anni della sua vita allo studio e alla cultura come si conviene a un intellettuale; se poi si guadagna qualche spiccio vendendo caratteri su carta di riso, tanto meglio. La cucina è un metro quadro, una cabina sulla strada senza collegamenti alla casa, con un fornelletto e una bombola del gas. Il bagno e la doccia stanno a un centinaio di metri, condivisi dal quartiere intero.
Il signor Ban ci fa accomodare nel suo salotto, e ci mostra orgoglioso i biglietti da visita di una quantità di laowai che spaccia per amici, e con qualcuno si è anche fatto fare una foto: europei, americani, australiani. Quindi passa al mio nome: gli chiedo di scriverlo in caratteri tradizionali, e ne segue una discussione piuttosto accesa che al di là di ogni pronostico vede la vittoria del giovane straniero sul vecchio intellettuale: un vecchio dizionario dà ragione a me sul modo di tracciare il carattere ye, selvaggio. Questa mossa mi fa guadagnare il rispetto del professore, che con grande concentrazione fa diverse prove, e solo alla terza rimane soddisfatto del risultato. Mi passa il foglio ancora umido d'inchiostro: 10 kuai, non c’è verso di contrattare.
Ora tocca a Massimiliano, che non ha ancora un nome cinese. Chiedo al signor Ban di crearne uno, ma non ne vuole sapere di responsabilità del genere, e allora mi ci provo io. Il risultato è 十最大, Shi Zuida, la Massima Croce, che come traduzione del nome di Massimiliano potrebbe anche starci, non fosse che suona come se lui fosse una tegola di uomo, e che chiunque sappia due parole di cinese riderebbe a un nome così composto. Massimiliano giustamente non è entusiasta, e la settimana dopo si farà dare un nome da Linda, infinitamente migliore di quello improvvisato da me: Maxinuo.
Fanno altri dieci kuai, e poi un’immancabile foto assieme, io e il vecchio Ban. Anzi, due, perché una mi fa promettere di riportargliela indietro.

Per una ragione o per l’altra, quella foto adesso sta in Italia, e chissà che fine ha fatto il vecchio Ban. L’incontro con lui segna una tappa significativa non solo per il mio cinese parlato, ma anche per la mia comprensione della gente di Pechino: della semplicità della sua vita, eppure della sua dignità, dell’equilibrio e della tradizione che li animano, dell’orgoglio d’esser cinesi e ancora prima pechinesi, gente della capitale, del centro politico e culturale del Paese di Mezzo; e della loro gentilezza verso gli stranieri che mostrano interesse per le loro tradizioni. Un giorno, se trovo il tempo, dovrei proprio andarlo a trovare il signor Ban, e farmi insegnare ancora qualcosa davanti a una tazza di tè al gelsomino, perduto tra gli hutong alle spalle del Tempio di Confucio.

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