2006-08-20

L’incontro con Jingyi

Arriva una telefonata dalla mia collega Yao il venerdì pomeriggio; “Stasera vi va di uscire a cena? C’è anche una mia amica”. Francamente la cosa non mi eccita da matti, ma Massimiliano mi convince a partecipare, e come sempre fa un gran bene. Ci incontriamo in un ristorante Hakka nascosto in una traversa di Sanlitun, in mezzo a vecchie case di mattoni. Gli Hakka sono una minoranza etnica che vive nel Sud della Cina, dal Guangxi a Taiwan, e il loro cibo è untuoso, brodoso e piccante, ma tutto sommato niente male se c’è qualcuno che sa come ordinare.

E’ così che conosco quella che, per rispettare la riservatezza, in questo blog chiameremo Jingyi. D’età indefinibile, originaria di Tianjin e trasferitasi a Pechino da pochi mesi, non è bella, ma ha un viso interessante, e soprattutto mi piace il modo in cui si veste e parla. Si vede che pensa prima di parlare. C’è un velo di tristezza che la copre, che la rende poco colloquiale, ma sostiene senza problemi una conversazione in un buon inglese, e spesso riesce a concluderla con qualche frase tagliente o molto appropriata. Pare quasi che abbia l’abitudine di far ironia sulle persone poco sveglie, il che mi stupisce da parte di una cinese. E’ intelligente Jingyi, si vede dai suoi occhi neri e attenti. Anche i suoi gusti musicali mi stupiscono, ascolta funky, musica internazionale e relativamente recente. Mentre parla, con le mani si diverte a trasformare scontrini in uccelli e tovaglioli di carta in conigli, con una tecnica che stupisce lo straniero in me; ha delle bellissime mani e talento creativo, al punto che si occupa di grafica per una rivista in lingua inglese. C’è una buona chimica tra noi due, e la nostra conversazione è qualcosa di veramente fresco e interessante dopo la noia che sta emergendo dal mondo del Poachers. So che mi piacerebbe vederla ancora, e le chiedo il numero di telefono. Dal portafoglio estrae un biglietto da visita bianco e arancione. Sopra c’è scritto That’s Beijing.

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