Dal momento che l’ostello comunica con un bar/discoteca, decidiamo di provarlo. Quando fuori è sottozero e dentro ci sono trenta gradi di temperatura bisogna vestirsi a strati e buttare tutto in un angolo sperando che nessuno decida di rovistarci; ma se puoi passare dalla camera al locale direttamente, ci arrivi in maglietta e non ti preoccupi.
La prima sera al Poachers vede me, Massimiliano e Christian sperimentare la vita notturna di Pechino. Il locale è piuttosto grande e la clientela è giovane grazie ai prezzi popolarissimi praticati – 5 RMB birra locale alla spina, 15 una Carlsberg. Il risultato è una folla di studenti di tutte le nazionalità che ballano ubriachi al ritmo di musica commerciale di almeno cinque anni prima. La sala è relativamente buia, con grandi tavoli e sedie in legno. Ci sono due soppalchi per chi vuol stare più tranquillo, e infine un palco illuminato dove balla lo zoccolo duro dei clubbers. Non so perché – ho sempre odiato ballare e sono sempre stato timido – però mi fiondo diretto sul palco.
Christian rimane titubante, e palesemente non si trova a suo agio. La discoteca non fa per lui. Massimiliano è in pace con sé stesso: ordina una birra, si accende una sigaretta, e si gode lo spettacolo con il sorriso sulle labbra. Io mi infilo nella folla e ballo. Ci sono europei, americani, africani, cinesi, tutti alticci o ubriachi, tutti sorridenti, tutti gentili. Nessuno tirato nel vestire o che storti il naso come in Italia, sono qui per divertirsi senza troppe paranoie. E’ un paradiso, per la prima volta mi sento a mio agio in una discoteca. E la cosa più strana è che la gente balla avvinghiata: ragazzi e ragazze appiccicati che scuotono il bacino senza apparente imbarazzo. Davanti a me c’è una ragazza cinese bellissima, con canottiera bianca e gonna a quadrettoni da collegiale.
“Vai!” mi grida Christian “ci sta, avvinghiati!”
Massimiliano annuisce, con un sorriso che non è chiaro se sia una benedizione o una presa per il culo. Guardo la ragazza, che mi dà le spalle e mi si avvicina. La sua amica, che le sta di fronte, mi sorride con aria saputa. E sia, mi avvinghio.
Cazzo, ci sta. Non ci credo.
Ballo con lei per un po’, appiccicato, corpo contro corpo in una tempesta di ormoni. Poi lei si stacca e va da un altro, io acchiappo un’altra ragazza cinese. Poi una straniera. Poi un’altra cinese. Ma che posto è questo? In Italia se fai una cosa così con sconosciuti o ti becchi un schiaffo, o ti accoltellano. Invece qui tutto è rilassato, gioioso, razze e colori mescolano in un equilibrio perfetto, senza pregiudizi o distacco inutile, e nessuno abusa di questa libertà.
Alla seconda birra mi muovo poco sicuro ma felice verso il bagno, e davanti ci trovo parcheggiati tre ragazzi africani.
“Hey man… “mi dice uno, con la voce affascinante e profonda che solo i neri hanno “do you want some shit?”
“Sorry?” chiedo, confuso.
“Hash” specifica, ammiccando “marijuana, ganja… ”
Mi guardo attorno, e incontro sguardi sornioni dei suoi compari. In questo posto, tutti i neri spacciano, e tutti gli spacciatori sono neri. Altro che negazione dei pregiudizi. Sospiro. Non tutto può sempre essere perfetto.
“No, thank you” dico.
“Ok, man, see you!” dice il pusher, stringendomi la mano come si fa coi bro.
“Ok” dico, dubitando per una volta della mia ingenua positività “see ya… ”
“No, thank you” dico.
“Ok, man, see you!” dice il pusher, stringendomi la mano come si fa coi bro.
“Ok” dico, dubitando per una volta della mia ingenua positività “see ya… ”
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