Jingyi è un’intellettuale. Se non lo fosse non mi piacerebbe. Tutte le ragazze che mi piacciono sono disperatamente intellettuali. Cerco una qualunque scusa per invitarla fuori, e mi ricordo che abbiamo parlato di film. Le piace Fellini. E all’Istituto Italiano di Cultura, interno all’Ambasciata, ogni giovedì danno un film in italiano, sottotitolato. Questa settimana danno "La Strada" di Fellini. La fortuna è dalla mia. Be’, se fossi più fortunato magari sarebbe capitato Salvatores. Ma non si può avere tutto.
La chiamo, accetta. Si presenta in ritardo, uscendo di corsa dal lavoro; entriamo in sala a film già iniziato. E’ noioso, maledettamente lento e noioso, ma fingo che mi sia piaciuto, faccio finta di non aver rischiato di addormentarmi per un paio di volte. Usciamo, e avrei in mente una cena a due, per parlare, per conoscerci meglio, ma la fortuna non può durare. Incontriamo dei suoi amici, pugliesi, un ragazzo e due ragazze che sono qui per qualche stage. Via, tutti a cena insieme, ristorante coreano con griglia. I tre sono decisamente poco radicati, non parlano cinese e non sono nemmeno troppo svegli nel muoversi: hanno l’aspetto del gruppo d’amici in vacanza di due settimane all’estero. Ci raccontano di quella volta in cui sono entrati in un negozio di tè, hanno chiesto del tè e l’impiegata e questa, non ricevendo nessuna specifica sul tipo di tè desiderato, ha proposto il più popolare:
“Molihuacha?” chiede quella. Tè al gelsomino?
I tre pugliesi, digiuni di cinese, si guardano per qualche secondo, poi uno azzarda un’interpretazione:
“Marijuana?”
L’impiegata scandisce “Mo-li-hua-cha?” e indica la scatola.
I tre si guardano di nuovo, e questa volta non hanno più dubbi:
“Marijuana, OK!”
Ne hanno preso solo mezzo chilo perché non eran sicuri di riuscire a portarlo in valigia in Puglia. Avrei tanta voglia di prendere la tazza del tè rovente e tirargliela addosso.
A cena finita, ci si separa. Rimaniamo io e Jingyi davanti al vecchio supermercato 24 hours di Sanlitun, dove l’ho accompagnata a comprare qualche cosa da mangiare il giorno dopo a colazione. Ci guardiamo negli occhi, il mio viso si avvicina al suo…
“Thank you for tonight, see you” dice, e si infila di corsa in un taxi. La vedo andare via.
Ci rimango male. Ma ci provo ancora, e così un paio di giorni dopo siamo di nuovo in giro, e gira e rigira ci troviamo all’Hidden Tree, uno dei più vecchi locali della scena pechinese. Poco dopo di noi entrano Christian e la sua fiamma cinese, Betty. Rimaniamo a chiacchierare un po’, ed è divertente vedere le differenze tra Betty, 22 anni, brava ragazza, sorridente e vestita a modo, e Jingyi, 28 anni, capello lungo e trasandato con sfumature castane, anfibi e sciarpa con colori jamaicani. Con aria di sfida, Jingyi estrae un pacchetto di sigarette, Zhongnanhai 8mg, e se ne accende una. Betty è sconvolta; le donne non dovrebbero fumare in Cina, è sconveniente. Le dita mie e di Jingyi si uniscono, e sotto il tavolo ci prendiamo la mano. Rimaniamo a chiacchierare a lungo, dopo che Christian e Betty se ne sono andati. Parliamo di cose che non abbiamo mai raccontato a nessuno, e poi usciamo dal locale e passeggiamo. La chimica è ottima, ma i miei tentativi di contatto fisico non hanno successo, al di là della mano nella mano sotto il tavolo. Alle tre del mattino finiamo in un ristorante cinese, dove condividiamo un piatto di jiaozi (饺子), ravioli cinesi. Jingyi ordina da bere del latte di soia, caldo, al gusto di mais. La guardo berlo come si guarda a una persona che mangia dei vermi. Lei ride, e il suo sguardo ironico dice chiaramente “Vorresti venire a casa mia a insegnarmi cosa è buono e cosa non lo è?”. Guardo il jiaozi che sto addentando: carne di maiale, cavolo, aglio e aceto. Alle tre del mattino. Ha ragione lei: Paese che vai…
E anche quella sera nulla di fatto. Comincio seriamente a dubitare di me stesso e a sentirmi frustrato. Perché, perché, perché?
Venerdì ci vediamo di nuovo. Come al solito si esce, si chiacchiera, ci si tiene per mano. Ancora una volta i miei approcci vengono respinti, e allora la butto sul verbale, e le chiedo chiaramente perché. Si sottrae alla domanda, un po’ imbarazzata e un po’ scocciata per la mia aggressività. E’ notte tarda, e mi prende per mano conducendomi verso nord, dalla Jiuba Jie alla zona della ambasciate. Passiamo sotto l’ombra dei pini e lo sguardo delle giovani sentinelle sull’attenti, e arriviamo a un canale. Passeggiamo sui lati del canale, un sentiero dove non c’è nessuno. Jingyi mi parla come si parla un bambino a cui occorre spiegare tutto.
“Qui” dice “siamo più tranquilli”
Mi invita a sedere sull’erba. Ci stendiamo e ci baciamo a lungo, e allora capisco. Ci sono cose pubbliche e cose private; ci sono luoghi e momenti per le cose pubbliche, altri per le cose private. Ho fatto confusione nella mia superficialità da laowai. Eppure le dita incrociate sotto il tavolo mi ci potevano far arrivare. Ma ora ho capito.
Un’oretta dopo, lei prende un taxi, io torno al Poachers a piedi, rimuginando su cosa stia cambiando nella mia vita e in me. E siccome i cambiamenti a Pechino sono veloci e repentini, mi sono già innamorato.
La chiamo, accetta. Si presenta in ritardo, uscendo di corsa dal lavoro; entriamo in sala a film già iniziato. E’ noioso, maledettamente lento e noioso, ma fingo che mi sia piaciuto, faccio finta di non aver rischiato di addormentarmi per un paio di volte. Usciamo, e avrei in mente una cena a due, per parlare, per conoscerci meglio, ma la fortuna non può durare. Incontriamo dei suoi amici, pugliesi, un ragazzo e due ragazze che sono qui per qualche stage. Via, tutti a cena insieme, ristorante coreano con griglia. I tre sono decisamente poco radicati, non parlano cinese e non sono nemmeno troppo svegli nel muoversi: hanno l’aspetto del gruppo d’amici in vacanza di due settimane all’estero. Ci raccontano di quella volta in cui sono entrati in un negozio di tè, hanno chiesto del tè e l’impiegata e questa, non ricevendo nessuna specifica sul tipo di tè desiderato, ha proposto il più popolare:
“Molihuacha?” chiede quella. Tè al gelsomino?
I tre pugliesi, digiuni di cinese, si guardano per qualche secondo, poi uno azzarda un’interpretazione:
“Marijuana?”
L’impiegata scandisce “Mo-li-hua-cha?” e indica la scatola.
I tre si guardano di nuovo, e questa volta non hanno più dubbi:
“Marijuana, OK!”
Ne hanno preso solo mezzo chilo perché non eran sicuri di riuscire a portarlo in valigia in Puglia. Avrei tanta voglia di prendere la tazza del tè rovente e tirargliela addosso.
A cena finita, ci si separa. Rimaniamo io e Jingyi davanti al vecchio supermercato 24 hours di Sanlitun, dove l’ho accompagnata a comprare qualche cosa da mangiare il giorno dopo a colazione. Ci guardiamo negli occhi, il mio viso si avvicina al suo…
“Thank you for tonight, see you” dice, e si infila di corsa in un taxi. La vedo andare via.
Ci rimango male. Ma ci provo ancora, e così un paio di giorni dopo siamo di nuovo in giro, e gira e rigira ci troviamo all’Hidden Tree, uno dei più vecchi locali della scena pechinese. Poco dopo di noi entrano Christian e la sua fiamma cinese, Betty. Rimaniamo a chiacchierare un po’, ed è divertente vedere le differenze tra Betty, 22 anni, brava ragazza, sorridente e vestita a modo, e Jingyi, 28 anni, capello lungo e trasandato con sfumature castane, anfibi e sciarpa con colori jamaicani. Con aria di sfida, Jingyi estrae un pacchetto di sigarette, Zhongnanhai 8mg, e se ne accende una. Betty è sconvolta; le donne non dovrebbero fumare in Cina, è sconveniente. Le dita mie e di Jingyi si uniscono, e sotto il tavolo ci prendiamo la mano. Rimaniamo a chiacchierare a lungo, dopo che Christian e Betty se ne sono andati. Parliamo di cose che non abbiamo mai raccontato a nessuno, e poi usciamo dal locale e passeggiamo. La chimica è ottima, ma i miei tentativi di contatto fisico non hanno successo, al di là della mano nella mano sotto il tavolo. Alle tre del mattino finiamo in un ristorante cinese, dove condividiamo un piatto di jiaozi (饺子), ravioli cinesi. Jingyi ordina da bere del latte di soia, caldo, al gusto di mais. La guardo berlo come si guarda a una persona che mangia dei vermi. Lei ride, e il suo sguardo ironico dice chiaramente “Vorresti venire a casa mia a insegnarmi cosa è buono e cosa non lo è?”. Guardo il jiaozi che sto addentando: carne di maiale, cavolo, aglio e aceto. Alle tre del mattino. Ha ragione lei: Paese che vai…
E anche quella sera nulla di fatto. Comincio seriamente a dubitare di me stesso e a sentirmi frustrato. Perché, perché, perché?
Venerdì ci vediamo di nuovo. Come al solito si esce, si chiacchiera, ci si tiene per mano. Ancora una volta i miei approcci vengono respinti, e allora la butto sul verbale, e le chiedo chiaramente perché. Si sottrae alla domanda, un po’ imbarazzata e un po’ scocciata per la mia aggressività. E’ notte tarda, e mi prende per mano conducendomi verso nord, dalla Jiuba Jie alla zona della ambasciate. Passiamo sotto l’ombra dei pini e lo sguardo delle giovani sentinelle sull’attenti, e arriviamo a un canale. Passeggiamo sui lati del canale, un sentiero dove non c’è nessuno. Jingyi mi parla come si parla un bambino a cui occorre spiegare tutto.
“Qui” dice “siamo più tranquilli”
Mi invita a sedere sull’erba. Ci stendiamo e ci baciamo a lungo, e allora capisco. Ci sono cose pubbliche e cose private; ci sono luoghi e momenti per le cose pubbliche, altri per le cose private. Ho fatto confusione nella mia superficialità da laowai. Eppure le dita incrociate sotto il tavolo mi ci potevano far arrivare. Ma ora ho capito.
Un’oretta dopo, lei prende un taxi, io torno al Poachers a piedi, rimuginando su cosa stia cambiando nella mia vita e in me. E siccome i cambiamenti a Pechino sono veloci e repentini, mi sono già innamorato.
1 commento:
Grande!!!! un fan from Italy
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