2006-08-25

E’ arrivata la polizia

Beijing Olympic Readyness Gathering from Beijing Police - Chongwen Station

E’ una mattina infrasettimanale e vengo svegliato dal rumore della porta della camera che si apre. E’ Massimiliano, bianco come un lenzuolo. Saranno le cinque del mattino, forse le sei. Mi ricordo che la sera prima l’avevo visto con Monica, la spagnola trentenne.
Ci metto un po’ a tirargli fuori la storia di quello che è successo, ma verso mezzogiorno la verità viene fuori più o meno tutta.

La sera prima, incontriamo nella Nan Sanlitun Monica e Kelly. Io torno a casa presto, Massimiliano rimane, e io me ne vado a dormire senza aspettarlo troppo. Le chiavi, unico mazzo in due, sono sempre nascoste in un paio di ciabatte parcheggiate davanti alla porta. Massimiliano dunque va a casa con Monica. Nell’appartamento ci sono le due padrone di casa, e ciascuna si è portata in camera un uomo – Monica Massimiliano, Kelly il francese tinto di rosso. Nel salotto, buttata sul divano, c’è una delle americane grasse che si è trovata senza sistemazione dopo che la coinquilina è tornata negli States. La poverina adagia la sua massa sul piccolo divano mentre da entrambe le camere vengono rumori da film porno, così forti che probabilmente qualcuno dei vicini decide che quella è la goccia che fa traboccare il vaso, e alza il telefono, ma non per lamentarsi come al suo solito.
E’ alle quattro del mattino che la polizia fa irruzione. Cinque persone in un appartamento da due, e per di più non abilitato ad accogliere stranieri, schiamazzi notturni e per di più di natura immorale; ci sono tutti gli estremi per agire, e la polizia cinese non va per il sottile. Come se non bastasse, non è facile spiegarsi con persone che non parlano mezza parola di inglese e hanno tutto tranne che pazienza. Per fortuna Monica mastica qualche parola di cinese. Massimiliano si trova svegliato dai rumori e nascosto in mutande dentro la camera della spagnola, mentre questa e la sua coinquilina tentano di discutere, per quanto possibile con i tutori della legge. Vanno avanti per una buona mezzora. Poi, quando la polizia lascia l’appartamento, dopo numerosi avvertimenti e minacce ma nessun provvedimento, Massimiliano prende e se ne va alla svelta. Arriva al Poachers ancora pallido per lo spavento. Mi verrebbe da ridere se non capissi quanto si deve essere atterrito.

Alla fine se ne ride insieme. Lui di certo a casa delle spagnole non ci torna più. E i nostri dialoghi fatti di citazioni ne incorporano di nuove:
“E’ arrivata la polizia. Novanta, la paura. Ci stiamo cacando addosso”

In ufficio ci informiamo sull’argomento, e veniamo scoprire che gli italiani detenuti dalle forze dell’ordine cinesi al momento sono due: uno è un imprenditore che, come tutti, non pagava le tasse. Poi un giorno il governo ha deciso di agire come suo solito, applicando il principio del punirne uno per educarne cento. Il poverino è finito in prigione, e da allora gli stranieri hanno smesso di evadere le tasse. L’altro è un pazzo che una mattina si è svegliato ed ha deciso di andare in piazza Tian’anmen a manifestare a favore del Dalai Lama: tempo dieci minuti, sono arrivate le guardie e da allora non se ne sa più nulla. E’ così che succede in Cina – apparentemente la polizia non si sente, è pigra, svogliata, talvolta anche spaventata dagli stranieri. Tutto si può fare, purché con discrezione. Poi, quando la dirigenza giudica che un fenomeno sta crescendo troppo, prende una persona a caso e le infligge una punizione esemplare, tanto per chiarire che il Partito concede tante libertà ma non bisogna mai abusarne.

Tutto è bene quel che finisce bene, nel caso di Massimiliano. Ma di certo da oggi in poi saremo entrambi molto più cauti nel Paese dei Balocchi.

2006-08-24

Jingyi


Linda mi ha chiesto di considerarla come la mia sorella maggiore. E’ un modo come un altro, in Cina, per classificare un’amicizia molto profonda. Lì per lì la cosa mi mette quasi a disagio, non capisco come mai, al contrario delle altre colleghe, lei si prenda la briga di condividere questa intimità con me. Col tempo, tuttavia, ho scoperto che era sincera Linda, e ha sempre preso il suo ruolo molto seriamente. In particolare, si interessa di sapere che tipo è la ragazza con cui mi vedo. Le mostro una foto di Jingyi. La bocca di Linda si storta in un’espressione di disappunto:
“Carina… ” commenta, con un palese sforzo di volontà.

Va detto che a Linda i tipi alternativi non piacciono, ma questo lo sappiamo.

Jingyi ha cinque anni più di me. I cinesi sembrano più giovani, e io non immaginavo che fosse così tanto più grande. Ma oramai usciamo assieme, e le cose vanno bene, più o meno. Ciò che mi piace di più in lei è la sua indipendenza: rompe tutti gli schemi comportamentali della sua società, è una ribelle ma non per egoismo né per il gusto di ribellarsi: ha i suoi principi, molto forti, e poco si interessa di quelli condivisi dalla società. Si nota da come parla, come si veste, come tratta le altre persone. Per quanto non sia bella, ha fascino da vendere.
E’ riservata, quasi timida, ma molto sicura di sé, quasi presuntuosa a volte. E’ indipendente anche da me, e spesso ci scontriamo su questo. Io sono possessivo, la vorrei vedere ogni giorno, condividere quanti più momenti possibile con lei prima della mia inevitabile partenza per Milano; lei si sforza di mantenere un certo distacco, ben sapendo che la mia partenza la farà soffrire. Lei fugge, io inseguo.
Si trova in una situazione difficile. Per quanto forte, eccezionalmente forte di carattere, ora è a Pechino dopo aver lasciato famiglia e lavoro, ha un nuovo lavoro precario e sottopagato e vive a casa di un’amica italiana che la ospita. E’ un periodo di passaggio fondamentale nella sua vita e si pone mille interrogativi che condivide solo parzialmente con me. Me, che ho cinque anni e un sacco di esperienza in meno di lei, me che a volte le appaio come un ragazzino viziato che pensa solo a divertirsi e non capisce le difficoltà della vita. Ancora oggi non ho ben capito perché uscisse con me; di certo non mi ha mai amato, e questo me lo ha detto senza mezzi termini. Eppure stavamo bene insieme, io stavo bene e lei stava bene, e questo lo vedevo. Forse aveva bisogno di affetto in un momento così difficile.

C’è qualcosa tra noi, che stupisce un po’ entrambi: è che riusciamo a stare insieme in silenzio, e stare bene. E’ una sensazione fisica, uno scambio di energia che passa dalle mani che si stringono e dagli occhi che si incontrano. Le parole, scambiate occasionalmente per dividere i momenti di silenzio, sono un contorno. E’ come se non ci fosse molto da dire, perché entrambi già sappiamo. Cosa poi, non l’abbiamo mai capito.

Non è un rapporto che può durare. Lei lo sa, io lo capisco anche se non lo accetto completamente. Cerchiamo cose diverse, ci siamo incontrati per caso e, oltre la situazione contingente, non siamo in grado di darci molto l’un l’altra. Ma in quel momento contingente, le cose tutto sommato filano, e neanche male.

2006-08-23

Il bacio che non arriva mai

Jingyi è un’intellettuale. Se non lo fosse non mi piacerebbe. Tutte le ragazze che mi piacciono sono disperatamente intellettuali. Cerco una qualunque scusa per invitarla fuori, e mi ricordo che abbiamo parlato di film. Le piace Fellini. E all’Istituto Italiano di Cultura, interno all’Ambasciata, ogni giovedì danno un film in italiano, sottotitolato. Questa settimana danno "La Strada" di Fellini. La fortuna è dalla mia. Be’, se fossi più fortunato magari sarebbe capitato Salvatores. Ma non si può avere tutto.
La chiamo, accetta. Si presenta in ritardo, uscendo di corsa dal lavoro; entriamo in sala a film già iniziato. E’ noioso, maledettamente lento e noioso, ma fingo che mi sia piaciuto, faccio finta di non aver rischiato di addormentarmi per un paio di volte. Usciamo, e avrei in mente una cena a due, per parlare, per conoscerci meglio, ma la fortuna non può durare. Incontriamo dei suoi amici, pugliesi, un ragazzo e due ragazze che sono qui per qualche stage. Via, tutti a cena insieme, ristorante coreano con griglia. I tre sono decisamente poco radicati, non parlano cinese e non sono nemmeno troppo svegli nel muoversi: hanno l’aspetto del gruppo d’amici in vacanza di due settimane all’estero. Ci raccontano di quella volta in cui sono entrati in un negozio di tè, hanno chiesto del tè e l’impiegata e questa, non ricevendo nessuna specifica sul tipo di tè desiderato, ha proposto il più popolare:
“Molihuacha?” chiede quella. Tè al gelsomino?
I tre pugliesi, digiuni di cinese, si guardano per qualche secondo, poi uno azzarda un’interpretazione:
“Marijuana?”
L’impiegata scandisce “Mo-li-hua-cha?” e indica la scatola.
I tre si guardano di nuovo, e questa volta non hanno più dubbi:
“Marijuana, OK!”
Ne hanno preso solo mezzo chilo perché non eran sicuri di riuscire a portarlo in valigia in Puglia. Avrei tanta voglia di prendere la tazza del tè rovente e tirargliela addosso.
A cena finita, ci si separa. Rimaniamo io e Jingyi davanti al vecchio supermercato 24 hours di Sanlitun, dove l’ho accompagnata a comprare qualche cosa da mangiare il giorno dopo a colazione. Ci guardiamo negli occhi, il mio viso si avvicina al suo…
“Thank you for tonight, see you” dice, e si infila di corsa in un taxi. La vedo andare via.

Ci rimango male. Ma ci provo ancora, e così un paio di giorni dopo siamo di nuovo in giro, e gira e rigira ci troviamo all’Hidden Tree, uno dei più vecchi locali della scena pechinese. Poco dopo di noi entrano Christian e la sua fiamma cinese, Betty. Rimaniamo a chiacchierare un po’, ed è divertente vedere le differenze tra Betty, 22 anni, brava ragazza, sorridente e vestita a modo, e Jingyi, 28 anni, capello lungo e trasandato con sfumature castane, anfibi e sciarpa con colori jamaicani. Con aria di sfida, Jingyi estrae un pacchetto di sigarette, Zhongnanhai 8mg, e se ne accende una. Betty è sconvolta; le donne non dovrebbero fumare in Cina, è sconveniente. Le dita mie e di Jingyi si uniscono, e sotto il tavolo ci prendiamo la mano. Rimaniamo a chiacchierare a lungo, dopo che Christian e Betty se ne sono andati. Parliamo di cose che non abbiamo mai raccontato a nessuno, e poi usciamo dal locale e passeggiamo. La chimica è ottima, ma i miei tentativi di contatto fisico non hanno successo, al di là della mano nella mano sotto il tavolo. Alle tre del mattino finiamo in un ristorante cinese, dove condividiamo un piatto di jiaozi (饺子), ravioli cinesi. Jingyi ordina da bere del latte di soia, caldo, al gusto di mais. La guardo berlo come si guarda a una persona che mangia dei vermi. Lei ride, e il suo sguardo ironico dice chiaramente “Vorresti venire a casa mia a insegnarmi cosa è buono e cosa non lo è?”. Guardo il jiaozi che sto addentando: carne di maiale, cavolo, aglio e aceto. Alle tre del mattino. Ha ragione lei: Paese che vai…
E anche quella sera nulla di fatto. Comincio seriamente a dubitare di me stesso e a sentirmi frustrato. Perché, perché, perché?

Venerdì ci vediamo di nuovo. Come al solito si esce, si chiacchiera, ci si tiene per mano. Ancora una volta i miei approcci vengono respinti, e allora la butto sul verbale, e le chiedo chiaramente perché. Si sottrae alla domanda, un po’ imbarazzata e un po’ scocciata per la mia aggressività. E’ notte tarda, e mi prende per mano conducendomi verso nord, dalla Jiuba Jie alla zona della ambasciate. Passiamo sotto l’ombra dei pini e lo sguardo delle giovani sentinelle sull’attenti, e arriviamo a un canale. Passeggiamo sui lati del canale, un sentiero dove non c’è nessuno. Jingyi mi parla come si parla un bambino a cui occorre spiegare tutto.
“Qui” dice “siamo più tranquilli”
Mi invita a sedere sull’erba. Ci stendiamo e ci baciamo a lungo, e allora capisco. Ci sono cose pubbliche e cose private; ci sono luoghi e momenti per le cose pubbliche, altri per le cose private. Ho fatto confusione nella mia superficialità da laowai. Eppure le dita incrociate sotto il tavolo mi ci potevano far arrivare. Ma ora ho capito.
Un’oretta dopo, lei prende un taxi, io torno al Poachers a piedi, rimuginando su cosa stia cambiando nella mia vita e in me. E siccome i cambiamenti a Pechino sono veloci e repentini, mi sono già innamorato.

2006-08-21

That’s Beijing


 
All’inizio del 2003 That’s Beijing è il vademecum dello straniero a Pechino. Su questa rivista, di cui esiste una copia corrispettiva a Shanghai e una nel Sud della Cina, vengono pubblicati articoli su vari argomenti, dalle recensioni di bar e ristoranti a mostre e rappresentazioni, cucina, sport ed escursioni, musica, letteratura, nuove leggi che coinvolgono gli stranieri, più annunci vari per chi cerca/offre casa, lezioni di lingua e ogni altro genere di servizi. La cosa più bella è che è tutto gratuito, finanziato con le pubblicità, e si trova in tutti i luoghi dove gli stranieri vanno, per lo più hotel, ristoranti e bar. Col tempo sono nate diverse copie di That’s Beijing, ma nessuna ha mai raggiunto i suoi livelli qualitativi, che stanno non solo nella parte grafica, merito di fotografi professionisti e Jingyi, ma anche e soprattutto nei contenuti, creati da un team di anglofoni e sinofoni che vivono nella capitale da anni.
That’s Beijing non è solo una rivista commerciale, ma rappresenta uno stile di vita: è scritto e curato da persone che non stanno a Pechino per lavoro o per necessità, ma perché la amano. Persone che, a dispetto delle origini, si sentono pechinesi dentro e si sono radicati nella città, venendone adottati. Ne conoscono le strade, gli angoli più sperduti e lo slang, e vivono per realizzare una nuova cultura, fatta delle tradizioni della vecchia Pechino mescolate con le tendenze nuove di tutto il mondo esterno; una cultura di una nuova Pechino, non solo capitale della Cina, ma di diritto centro culturale di primo piano del mondo. Ci sono scrittori, musicisti, artisti, presidenti di associazioni che ogni giorno si impegnano per rendere Pechino, la loro città, un luogo migliore che fonda Cina e mondo esterno, passato e futuro, in qualcosa di nuovo e unico, la nuova Beijing.
L’esistenza di That’s Beijing apre prospettive nuove alla mia mente. Non lo realizzo ancora, ma questa epifania avrà conseguenze importanti nella mia vita.

2006-08-20

L’incontro con Jingyi

Arriva una telefonata dalla mia collega Yao il venerdì pomeriggio; “Stasera vi va di uscire a cena? C’è anche una mia amica”. Francamente la cosa non mi eccita da matti, ma Massimiliano mi convince a partecipare, e come sempre fa un gran bene. Ci incontriamo in un ristorante Hakka nascosto in una traversa di Sanlitun, in mezzo a vecchie case di mattoni. Gli Hakka sono una minoranza etnica che vive nel Sud della Cina, dal Guangxi a Taiwan, e il loro cibo è untuoso, brodoso e piccante, ma tutto sommato niente male se c’è qualcuno che sa come ordinare.

E’ così che conosco quella che, per rispettare la riservatezza, in questo blog chiameremo Jingyi. D’età indefinibile, originaria di Tianjin e trasferitasi a Pechino da pochi mesi, non è bella, ma ha un viso interessante, e soprattutto mi piace il modo in cui si veste e parla. Si vede che pensa prima di parlare. C’è un velo di tristezza che la copre, che la rende poco colloquiale, ma sostiene senza problemi una conversazione in un buon inglese, e spesso riesce a concluderla con qualche frase tagliente o molto appropriata. Pare quasi che abbia l’abitudine di far ironia sulle persone poco sveglie, il che mi stupisce da parte di una cinese. E’ intelligente Jingyi, si vede dai suoi occhi neri e attenti. Anche i suoi gusti musicali mi stupiscono, ascolta funky, musica internazionale e relativamente recente. Mentre parla, con le mani si diverte a trasformare scontrini in uccelli e tovaglioli di carta in conigli, con una tecnica che stupisce lo straniero in me; ha delle bellissime mani e talento creativo, al punto che si occupa di grafica per una rivista in lingua inglese. C’è una buona chimica tra noi due, e la nostra conversazione è qualcosa di veramente fresco e interessante dopo la noia che sta emergendo dal mondo del Poachers. So che mi piacerebbe vederla ancora, e le chiedo il numero di telefono. Dal portafoglio estrae un biglietto da visita bianco e arancione. Sopra c’è scritto That’s Beijing.

Frustrazione e trascendenza della notte a Sanlitun

beijing

Il tempo dell’amore dura due, tre settimane, cambiamento radicale e repentino, ma anche di breve durata, come sono le cose in Cina, un divenire continuo. E’ una sera al Poachers e facciamo la conoscenza di un gruppo di studenti australiani venuti da Nanchino per il week-end. Davvero alla mano e giocosi questi australiani, faccio amicizia subito con tutti, ma con Melissa è diverso. Avrà un anno o due meno di me, lunghi capelli castani e occhi neri e lucenti; balla come non ho mai visto ballare una ragazza nemmeno al Poachers, con il suo corpo si stende su tutti e non si concede a nessuno. Quando mi guardo attorno, capisco che siamo tutti innamorati di lei; ma la partita si gioca tra me e il francese dai capelli rossi fuoco. E’ una partita dura, lui devo dirlo ci sa fare molto più di me.
La serata finisce in bianco per entrambi, ma lui un passo avanti a me perché si fa dare il numero dall’australiana. Sarà la frustrazione di arrivare secondo, o qualcos’altro, forse la consapevolezza che tutto qui cambia e nulla rimane, che i rapporti durano al meglio una notte, al peggio un ballo, che forse questo gaudio da paese dei balocchi ha un lato sinistro, che è l’impossibilità di costruire qualunque cosa di stabile. Puoi ballare, e comunicare col corpo e con gli occhi come non hai mai fatto, ma in fondo cosa puoi dire? Queste cose sono complementari, non sostitutive delle parole, e al Poachers la musica è tanto alta che non si possono scambiare più di poche frasi. Quante persone posso dire di conoscere, qui dentro?


Non salgo in camera con Massimiliano, ma esco in strada, nel freddo, con solo la mia maglietta leggera, e mi incammino nel buio di Sanlitun alle quattro del mattino. Mi rendo improvvisamente conto di essere solo, di avere 23 anni e di non sapere poi tanto di concreto del mondo; mi sembrava che tutto fosse a portata di mano, e scopro che non lo è, e anche se lo fosse, non è tutto oro quel che luccica.
Sulla Nan Sanlitun Lu incrocio una ragazza orientale: alta, capelli lunghi e lucidi, trucco pesante, tacchi alti e gonna con spacco generoso. I nostri sguardi si incrociano, il mio apatico, il suo gioioso. Mi insegue, e mi fermo ad aspettarla.
“Hello!” dice in cinglese la mongola, prendendomi sotto braccio “Let’s go to a bah!”
“Grazie” rispondo, scuotendo la testa “non mi interessa”
“One hundred dollah OK?” propone aggressiva, tirando il braccio di un corpo che non si smuove proprio da dove si trova.
“Non ho soldi” mento spudoratamente.
“OK fifty dollah OK?” ripropone speranzosa.
“Mi spiace, non ho proprio nulla”.
Rimaniamo a guardarci, lei con il suo sorriso smagliante e i grandi occhi pieni di falsa innocenza, io con un sorriso di chi vede sé stesso in una scena che di senso non ne ha proprio.
“Baciami” le dico alla fine.
Anche questo non ha senso. Ma nella mia noia esistenziale nei confronti di un mondo che non si piega ai miei desideri voglio almeno verificare un mito. Sarà vero, come si dice, che le puttane non baciano?
Lei non ci pensa, semplicemente appoggia le labbra alle mie e le nostre lingue si incontrano. E’ un bacio che sa di lucidalabbra alla pesca, e di profumo da quattro soldi. Dura a lungo, e quando finisce lei non ha altro da dire se non:
“Fifty dollah OK?”
Scoppio a ridere. Tutto questo non ha un senso, né il nostro dialogo, né le nostre azioni.
“Non ho davvero soldi, sono uno studente” le dico, e me ne vado. Rimane a guardarmi un attimo, incerta se inseguirmi oppure no. A quest’ora i potenziali clienti non abbondano. Poi forse capisce, e se ne va nella direzione opposta.


Rientro in camera ridendo ancora. Ho fatto una cosa che credevo impossibile, una cosa da uomo e non da ragazzino quale sono, e ciò che più conta una cosa di cui non mi interessava assolutamente nulla. La realtà non è così difficile da modificare; forse il segreto è non desiderare di farlo. Il distacco, questo fa la differenza fra attaccamento e frustrazione, e una risata a cuor leggero.

2006-08-18

Medici senza frontiere

Xinjiang

Una mattina scendo a far colazione, e nella sala silenziosa e semibuia trovo altre due persone, due donne sui trentacinque anni. Non ci vuole molto prima che mi sieda al loro tavolo. Sono americane le due: una è una turista venuta a visitare l’amica. L’altra, che risponde al curioso nome di Arwen, è un dottore che lavora per Medici senza frontiere in Xinjiang. Vengono da lì, le due, e si sono fermate al Poachers per un paio di giorni, uno sguardo veloce a Pechino, poi via verso gli Stati Uniti.

Arwen ha occhi luminosi quando mi racconta del luogo dove vive e lavora, sul confine occidentale della Cina, dove la gente non parla e non scrive cinese ma solo dialetti turchi locali, dove occhi a mandorla convivono con occhi verdi e azzurri di diverse tribù, dove le radici di montagne innevate affondano nelle sabbie del deserto.


E’ un Paese grande la Cina, antico e diverso nelle sue tante province. E’ una frontiera, e se alcune città confinano col futuro, altre si perdono nel passato più remoto delle tradizioni della Via della Seta. I viaggiatori si incontrano e raccontano le loro storie, le loro avventure meravigliose, stupendo e stupendosi di ogni cosa. Pechino è una città senza apparente fine, ma il Paese di cui è capitale è mille volte più vasto.

2006-08-17

Primavera a Pechino


L’inverno pechinese è lungo e duro, ma come tutte le cose ha una fine; e allora, è come se la terra rinasca: l’aria smette di essere tagliente, l’erba gialla rinverdisce pian piano, i salici e i pioppi mettono fuori le foglie, e la gente dismette i pesanti giacconi a favore di abiti più leggeri e comodi. E’ una rinascita, sembra quasi di stare in una nuova città.


La gente scende nelle strade, spostando il centro della vita dall’interno all’esterno. L’inverno è una stagione privata. La primavera è pubblica, porta la condivisione, tutti sono fuori a passeggiare con i bambini e i cani, a far volare gli aquiloni, a giocare a scacchi, a chiacchierare, a pedalare sulle biciclette. E’ così che l’estremo squallore del grigio sembra scomparire, e improvvisamente Pechino si rivela nei suoi colori dolci e piacevoli.


E’ sabato mattina, una tarda mattinata, ma mi sono appena svegliato. Colazione e doccia, mi sento rinato. Siedo a gambe incrociate sul letto e guardo dalla finestra il grande albero nel cortile, ora trasformato dal tempo clemente. Metto su “Shaman”, comprato il giorno precedente, e sulle note della chitarra di Santana che scorrono liquide come acqua che lava un corpo appena risvegliatosi, rifletto su me stesso e sui cambiamenti occorsi dal mio arrivo qui, poco più di un mese prima.


Mi viene in mente una frase di Laksmi: “Ma sì che la vita è bella!” mi aveva scritto un giorno, per tirarmi su di morale. Una frase banale. Ora, a nove anni di distanza, è come se queste parole avessero acquisito un senso. Sorrido: la vita è imprevedibile, chi l’avrebbe mai pensato di essere qui, ora, ed essere diventato la persona che sono?

2006-08-16

Falso

fake wall  -  China

Una delle impressioni che ha la persona che fa shopping in Cina è che esista una quantità di merce falsa da far paura, e i cinesi siano disonesti da copiare ogni cosa che credono possa avere successo. Ci sono i prodotti di Prada, Armani, Louis Vuitton, Tommy Hilfiger and Calvin Klein falsi. Ci sono i CD e i DVD falsi, piratati. Ci sono i prodotti d’elettronica falsi, spacciati per Sony o Hitachi ma cinesissimi. Ci sono i mobili IKEA falsi. I gadget con i personaggi della Disney, dei Looney Tunes, dei Pokemon e di Hello Kitty falsi. E questi non stupiscono. Stupiscono di più le sigarette false; i prodotti alimentari falsi, o semplicemente copiati – vedi venti marche di miele con packaging identico; gli alcolici e i superalcolici falsi, come la Sol che produce una birra uguale alla Corona ma col nome Sol. Le automobili false, come quella fabbrica cinese che aveva comprato le macchine nel fallimento dall’impianto messicano della Wolkswagen, e li usava per produrre le loro auto in Cina – auto uguali, nome diverso, eppure sulle parti interne c’era ancora il marchio Wolkswagen lasciato dalla macchina originale. Ci sono i cantanti falsi, con abbigliamento e mossette da divi americani e nome che ricalca l'originale (vedi J.Lo e la sua controparte cinese Jo Lin). Ci sono i fiori e gli alberi falsi, di plastica, per abbellire certe aree della città dove una pianta normale non sopravviverebbe per mancanza d'aria respirabile o luce. Ogni tanto si vede anche l'erba falsa, di gomma. E poi i poliziotti del traffico falsi: anche quelli di plastica, tipo spaventapasseri, con il braccio che si muove meccanicamente indicando di fare la curva larga.

Spiegarlo non è così semplice: in Cina non esistono i concetti di “originale” e “falso” come da noi, né esiste quello di “copyright”. Un’invenzione, un’idea è di tutti, mica di una persona sola, e se è una buona cosa va imitata. Da noi imparare significa elaborare. In Oriente, fin dall’asilo, i bambini vengono educati a individuare modelli – il maestro, gli allievi migliori, gli esempi pubblicizzati – e replicarlo uguale. Anche la struttura stessa della lingua cinese promuove questo atteggiamento: non si possono creare neologismi in cinese, e i caratteri sono gli stessi da sempre, vanno imparati a memoria scrivendoli mille volte in successione.


Quando si fa notare a un cinese che qualcosa è copiato spesso non capisce. Ride imbarazzato, guarda originale e copia e si chiede quale sia il problema. Se è quasi uguale che problema c’è? Se la gente è disposta a pagare tre volte tanto per avere una scritta Calvin Klein sulla sua mutanda, significa che piace, e allora il produttore cinese la scritta ce la mette. Che diritto ha poi il signor Calvin Klein di vietare agli altri di fare mutande belle come lui? Non solo sarebbe illogico, ma anche immorale per un cinese non imitare chi fa meglio. Seguendo questa logica, come dargli torto?

 
Ciò non significa che siano tutti i buona fede. Tanti ci marciano sopra: producono a qualità infima e vendono come brand famosi con il chiaro scopo di fregare. Ma sono una minoranza.

Che fare? Ce ne vorrà di tempo prima che inizino a sospettare che le leggi internazionali sulla tutela dei marchi abbiano un senso logico. Fino ad allora, tanto vale aspettare. Metto su un CD dei Doors, con in copertina il famoso primo piano di Jim Morrison, e la prima canzone comincia a suonare un arpeggio di chitarra. No, non può essere. Purtroppo sì.
“Welcome to the Hotel California… “
Va detto. Non è che a copiare siano sempre bravi, ogni tanto si distraggono anche loro.

Marlboro e pugnette

Red cigarettes in Shantou (China)

La maggior parte della gente che sta in Cina e che conosco fuma. Tutti hanno cominciato in Cina. Il motivo è che tutti fumano (gran parte degli uomini, le donne no perché è sconveniente), si può fumare ovunque (dall’aeroporto all’ospedale) e le sigarette non costano nulla, vengono vendute ad ogni angolo di strada e anche nei bar, e sono disponibili almeno una trentina di marche diverse, comprese le sigarette importate dalla Russia, col pacchetto rosso e la scritta in cirillico dorato, che tolgono la vita a un polmone in pochi secondi, e le sigarette cubane, come le Cohiba, tabacco cubano puro, sigari travestiti da sigarette.
Anche se il mio incontro con la sigaretta data anni addietro, non posso considerarmi un vero fumatore finché non comincio a frequentare Massimiliano. “Marlboro e pugnette” è il suo motto, quando non c’è nulla da fare. E alla fine di ogni cena mi tenta: “Marlborina morbida? E dai!!!”.
Non è solo colpa sua: c’è anche l’omino delle sigarette che sta all’angolo di Poachers, con il suo banchetto e il suo sgabello su cui siede tutta notte sottozero, dentro un cappotto militare forse rubato all’esercito. Ogni volta che passo mi saluta con un “Helloooo!!!” e indica il banchetto colorato con sigarette, sigari, accendini e pipe. E poi ci sono tutti gli altri, a cominciare del gruppo del Poachers; fumano praticamente tutti.
Si comincia con la sigaretta dopo cena, che segna la fine di una dura giornata. E’ la migliore, fumata in qualche posto sordido, dopo una cena cinese grassa, sottozero fuori e venti gradi dentro, con folla eterogenea che urla dietro ai camerieri. Poi c’è quella del dopo-caffè. E poi quella della pausa sigaretta, che viene fumata non per desiderio di fumo ma per desiderio di pausa. E qui diventa malattia. Ma è troppo tardi, oramai ho preso il vizio, 5 sigarette al giorno non me le leva nessuno. Grazie al cielo la prima rimane quella dopo pranzo. Massimiliano fuma la prima dopo colazione.

Le sigarette cinesi sono tipicamente pesantissime. Ogni città ha una sua marca di sigarette, e i cinesi ci sono affezionati come ad una squadra di calcio. Se vai in una qualunque città e tiri fuori un pacchetto di sigarette di un’altra ti guardano male. Le marche famose sono tante: ci sono le Double Happiness di Shanghai, le Baisha di Wuhan, le Panda di Chengdu; poi ci sono pure le sigarette del presidente Mao, e siccome lui adorava questo aggregato impossibile di catrame, ora la fabbrica le vende a un prezzo triplo di un normale pacchetto. La marca di sigarette più famosa di Pechino sono le Zhongnanhai.
Zhongnanhai (中南海) è il nome di un complesso residenziale costruito sulle sponde di due laghi, il Zhonghai e il Nanhai, racchiusi all’interno del parco Beihai. Ci abitano i papaveri del partito, ed è simbolo di ricchezza e potere. Il pacchetto delle Zhongnanhai è sobrio rispetto a quello delle altre sigarette cinesi: bianco, il nome scritto in azzurro chiaro sullo sfondo a caratteri da calligrafia, e lo stesso nome stampato in chiari caratteri dorati in campo blu al centro-sinistra del pacchetto. La fabbrica delle Zhongnanhai ha diversificato la produzione, mettendo sul commercio almeno quattro tipi diversi di sigarette, dalle Zhongnanhai 10mg, quelle più schifose e che comunque sono leggere in confronto alla media, alle Zhongnanhai 5mg, le ultra-light per le donne e i fighetti. In mezzo ci sono le Zhongnanhai 8mg dorate, con un filtro speciale che dovrebbe renderle meno dannose, e infine le Zhongnanhai 8mg, quelle che si trovano solo a Pechino e già a Shanghai sono impossibili da reperire. Grazie alla quantità moderata di nicotina e catrame, le Zhongnanhai sono le sigarette più fumate dagli stranieri. I cinesi fuori Pechino le guardano un po’ male, come fossero sigarette da effeminati.
Io scelgo le Zhongnanhai 8mg, quelle che costano meno, quelle che si trovano solo a Pechino. Quest’ultima cosa non la sapevo, sarà destino. Massi invece si ostina a cercare le Marlboro morbide, con vari esiti: quando è fortunato le trova di contrabbando, con il marchio del monopolio statale delle Filippine; quando è sfortunato trova le Marlboro false, dal gusto orribile. Conviene guardare bene il pacchetto, visto che tempo dopo io riesco a trovare le Zhongnanhai false su una strada di Canton: le peggiori sigarette che abbia mai assaggiato, ma tengo ancora il pacchetto per ricordo: l’unica differenza è il tono dei colori del packaging, per il resto sono indistinguibili dalle originali finché uno non le accende.

Così, la sigaretta diventa abitudine, un’abitudine che sarà difficile separare dalle sensazioni che, in futuro, richiameranno alla mente e al cuore Pechino.

2006-08-15

Vita da stagista pechinese


La vita al Poachers con Massimiliano fila liscia, e il tempo vola. Andiamo d’accordissimo.
Ci svegliamo la mattina, con il cellulare di Massimiliano che vibra fragorosamente sul comodino. Non ci guardiamo. Io mi alzo, vado in bagno, mi vesto e scendo a far colazione. Risalgo, e mi lavo i denti. Più o meno allora suona la terza sveglia di Massmiliano, che si alza, va in bagno, scende a far colazione in pigiama e ciabatte, poi risale, si lava i denti, si veste, ed esce.


In quel momento io sono già per strada, camminando a piedi per le strade laterali del Terzo Anello. Dopo un po’ le imparo tutte e mi piace alternarle. Camminare per strada la mattina e guardarmi attorno mi rilassa, e spesso ascolto qualche CD a palla nelle orecchie, tipicamente “By the way” dei Red Hot Chili Peppers o “Heathen Chemistry” degli Oasis.


Massimiliano arriva più o meno insieme a me in ufficio, perché prende il taxi. Ciascuno al suo banchetto a guardare la posta del mattino e le carte del giorno prima. Quindi, ci si incontra alla macchina del caffè.
“Caffè?” chiede Massimiliano, in anticipo di qualche secondo prima di me.
“Grazie” rispondo.
Queste sono tipicamente le prime parole di entrambi al mattino, e il primo sguardo che ci scambiamo da quando ci siamo svegliati. Non ci si parla di solito, e certamente mai prima del caffè; è un reciproco ignorarsi. E’ una cosa talmente naturale che se Massimiliano non me la facesse notare, un mesetto più tardi, non ci farei neanche caso. D’altronde, che ci sarebbe da dire? Entrambi già sappiamo.


Ognuno lavoro alle sue attività, in stanze diverse. Ci si ritrova poi per pranzo, sempre insieme, e allora si chiacchiera. Si risale in ufficio, si prende il secondo caffè. Poi si lavora ancora divisi. Verso le quattro ci si ritrova automaticamente nella sala fumatori, io e lui. Sigaretta, chiacchiera, si torna al lavoro. Un altro paio di pause sigaretta dopo (mie pause sigaretta, quelle di Massimiliano sono più frequenti) sono arrivate le sette o le otto di sera. Si scende a cena.
“Dove mangiamo stasera?”
“Ti va di andare al XXX?”
“Va bene”
Cena luculliana, io ordino, Massimiliano si fida e lascia fare a me. Chiacchierata lunga. Sigaretta lunga, pacifica e goduta. Poi a piedi verso casa. Commenti sulle persone che passano. Qualche volta ci si ferma al negozio di CD e DVD a comprare qualcosa.


La sera infrasettimanale è dedicata al DVD, oppure al biliardo. Ce n’è uno al Bookworm, nel cortile stesso del Poachers. Hanno anche la moca al Bookworm. Massimiliano ha la tessera, io entro tipo ad invito suo; la cameriera non ha mai detto nulla. D’altronde siamo gli unici clienti. Caffè, sigaretta, biliardo. Chiacchiera. Poi letto.
“Buonanotte”
“Buonanotte, a domani”

Andiamo d’accordissimo.

I personaggi del Poachers

Dopo svariate settimane di frequentazione del Poachers si impara a conoscere lo zoccolo duro della festa. E a parte le due amiche cinesi della prima sera, che la fanno annusare un po’ a tutti, conosciamo un sacco di stranieri. Tra questi, i frequentatori più affezionati sono tre francesi più giovani di noi, tutti e tre cuochi che fanno un corso di cucina cucina cinese all’hotel Kempinski. Definirli loschi è un eufemismo. Uno è alto, bianchiccio e coi brufoli, e ha i capelli da tamarro con le punte e di un rosso vivo: becca ragazze a ruota, una dietro l’altra, e pure carine. Chissà come fa. Il secondo va in giro con piumino e bandana, capello rasato e atteggiamento da duro. Maneggia una quantità impossibile di hashish e se la intende con tutti gli spacciatori. Si vanta di scrivere testi hip hop in francese. Il terzo è il più tranquillo, occhiali tondi e vestiti da bravo ragazzo, il classico tipo un po' sfigato che appena in Cina cade vittima della febbre gialla: sta insieme a una giapponese neanche troppo carina che striscia ai suoi piedi. Diventano tutti e tre amici, dopo un po’. Ci invitano a qualche festino a casa loro, ovvero nella loro camera nel seminterrato del Kempinski, ma avendo più o meno capito il tenore degli invitati, decliniamo con nonchalance.

Poi ci sono Monica e Kelly, spagnole, entrambe sui trent’anni. Kelly è una strafiga, veramente bellissima; e se ne porta a casa uno diverso ogni sera. Quando non ne trova uno diverso, ri-scopa con una specie di modello danese biondo e altro un metro e novanta, oppure con il francese tinto di rosso, che pare meriti sotto le coperte. Monica è brutticchia, ma carica anche lei.


Ogni tanto si vedono due americane grasse: obese come solo le statunitensi possono essere, ballano in sandali con una borsetta minuscola su un braccio enorme, che fa tanto caricatura, e sotto l’altro braccio una bottiglia d’acqua da due litri, in caso di eccessiva sforzo fisico, immagino. Magari ci hanno anche messo dentro i sali in polvere. Sudatissime, e il bello è che provano anche ad attaccar bottone con me e Massimiliano. Noi ci guardiamo, e negli occhi leggiamo lo stesso pensiero: “No. Scappiamo”.


Gli spacciatori neri sono simpatici, una volta che imparano che non fumi e non vuoi comprare, e si dimostrano amichevoli anche se non danno eccessiva confidenza. Un po’ come i cinesi. Una sera io e il francese tinto di rosso ne becchiamo uno nei cessi, i cessi più luridi di Pechino probabilmente, e attacchiamo bottone. Entrambi siamo ubriachi e, quando questo ci dice che è giamaicano cominciamo a ridere come idioti e ammicchiamo visibilmente. Lui serissimo: “Sono un calciatore, non faccio uso di certe sostanze”. Se ne va offeso, lasciandoci desolati. Ecco i rischi delle generalizzazioni. Allora non sono tutti spacciatori.


E’ uno strano zoo quello del Poachers, non tutto quel che accade ha un senso. Io rimango a guardare, spettatore di infinite scene indipendenti, come un varietà che si ripete le sere di tutti i weekend.

2006-08-13

Pubblicità


La prima volta che sono stato a Pechino ho fatto un sacco di foto, ma una di quelle che più colpisce le persone che le guardano è uno scorcio di Chaoyangmen, non lontano dai magazzini Landao. Si vede una strada ampia, piena di macchine, biciclette e bus, fiancheggiata da grattacieli ipermoderni, e grandi manifesti.
"Cosa pubblicizzano?" chiede la gente.
"Il regime" è la risposta "sono slogan di propaganda politica a favore del Paese e del Partito Comunista Cinese"
 
La gente si indigna che nel XXI secolo esistano ancora cose del genere, e anch'io rimasi scosso la prima volta che le vidi. Però, pensiamoci bene: che differenza c'è con la pubblicità che noi conosciamo?
Ora, lasciamo da parte il discorso sulla verità e sull'indipendenza degli organi d'informazione: è superfluo, siamo tutti d'accordo sul fatto che dovrebbero essere indipendenti e non controllati politicamente. Ma veniamo alla pura parte promozionale. E' un caso che tutti quelli che vedono la foto credano che si tratti di manifesti pubblicitari?
La propaganda di questo tipo, le scritte "Il Partito è la Voce del Popolo", o "Il lavoro del suo popolo renderà la Cina grande", o ancora "La modernizzazione è un cammino luminoso" sono pubblicità. E la pubblicità è propaganda di un prodotto.
 
I Paesi democratici hanno una sorta di tabù nei confronti della propaganda politica in regimi non democratici. Ossia, se il Partito loda la sicurezza ottenuta nella Repubblica Popolare, compie un orribile peccato contro l'umanità. Ma a ben pensare, la democrazia capitalistica non fa lo stesso?
Il bombardamento pubblicitario cui siamo sottoposti in ogni momento - radio, TV, internet, manifesti per la strada, volantini - non è in realtà espressione di un sistema fondato sul consumo di beni, e che si regge e si perpetua grazie alla pubblicità (senza, a chi verrebbe in mente di andare a comprare tutta quella roba inutile?). E' propaganda consumistica, capitalistica, propaganda né più né meno di quella che si vede ai lati di Chaoyangmen.
Se non possiedi, non conti. Se non compri, sei un emarginato. Se critichi sei malvagio, anzi comunista invidioso perché tu, inetto disoccupato, vorresti in realtà avere le cose che possiedono gli altri. Quando di parla di democrazia…
 
Sì, la mia è una provocazione - in Italia non verrà a trovarmi la polizia a casa con i bastoni elettrici, se tiro un pomodoro sulla gigantografia di Megan Gale con il suo nuovo cellulare. Però, in piccolo, il principio è simile. Il bombardamento di informazione per inculcare nei soggetti-obiettivo l'attaccamento al sistema, per adattarli, uniformarli, favorire l'accettazione, e ricordare in ogni momento che il sistema economico-politico è uno, uno soltanto, giusto, perfetto, e immutabile.
 
Vale davvero la pena di stupirsi davanti ai manifesti politici in Cina? E merita più rispetto un sistema che spinge le persone a consumare ciò di cui non hanno bisogno, o un sistema che inculca nei cittadini il senso civico – lavorare sodo, difendere la sicurezza, essere ospitali con gli stranieri o promuovere il senso di appartenenza al quartiere?
 
La risposta la lascio a voi, io qui a Pechino mi guardo attorno, e ho una prospettiva diversa sui vantaggi del “mondo libero”.

Tra gli hutong

 

Un sabato pomeriggio io e Massimiliano decidiamo di andare a visitare il Tempio dei Lama e quello di Confucio. Il primo è grandioso: in stile tibetano e popolato da monaci in tonaca gialla e grigia, per lo più mongoli, esibisce lo sfarzo dell’arte buddhista e il museo, con tanto di foto, illustrazioni e diorami, svela numerose curiosità storiche, per esempio l’incontro tra il XIII Dalai Lama e l’Imperatore Qing Qianlong, nel XVIII secolo, in cui il supremo capo religioso del Tibet formalmente riconobbe la sua terra come facente storicamente parte della Cina, e fece tributo a Pechino in quanto supremo centro politico del Paese. Quante cose non si vengono a sapere, in Europa, penso. Tanto rumore per nulla, questa faccenda del Tibet libero!
 
Lasciando piuttosto deluso il tempio dei Lama, entro nel tempio di Confucio, là dove per secoli gli studenti hanno acceso bastoncini d’incenso al supremo sapiente della civiltà cinese. Si respira un’aria diversa, niente sfarzo, ma solo vecchie pietre grigie ricoperte di caratteri incisi fitti fitti, con i nomi di migliaia di sapienti e studiosi che hanno superato gli esami imperiali nel corso della storia.
 
E’ davanti al tempio di Confucio che vengo fermato da un vecchio: alto sul metro e sessanta, occhiali spessi e quadrati, piumino a ripararlo dal freddo, e tra le mani decine di fogli di carta di riso ricoperti di eleganti caratteri tracciati ad inchiostro. Prova a vendermene qualcuno, ma senza troppa insistenza. Non capisco nulla di quel che c’è scritto, se non che si tratta di formule per la buona fortuna, per il successo negli studi o negli affari, o in amore.
“Puoi scrivere il mio nome?” chiedo.
“Seguimi” risponde il vecchio.

E’ così che faccio la conoscenza di Ban Xiaolin (班晓林), e che sostengo, grazie alla sua pazienza e alla sua insistenza, la mia prima conversazione complessa in cinese. Il signor Ban guida la strada, con me leggermente più dietro, e un Massimiliano poco convinto alle spalle, che ci guarda chiedendosi che avremo mai da dirci io e il vecchio in quella successione di strani suoni che è il mandarino. Il signor Ban mi racconta che una volta era professore di matematica alle scuole medie, poi è andato in pensione e ora vive con la moglie, due figli e le loro famiglie in una casa poco lontano, e via tra hutong sconosciuti e larghi appena da passarci, con zero gradi, un’aria secca che fa sanguinare le mani e il naso, e cinesi che ci guardano come se fossimo i primi laowai ad entrare in quel quartiere. Almeno un quarto d’ora e una ventina di curve dopo arriviamo alla casa del signor Ban: da una parte salotto e camera da letto di quattro persone, totale forse venti metri quadri; dall’altra parte del vicolo la camera da letto di altre tre persone, più la “biblioteca”, uno scaffale ingombro di libri che il signor Ban adora macinare, dedicando gli ultimi anni della sua vita allo studio e alla cultura come si conviene a un intellettuale; se poi si guadagna qualche spiccio vendendo caratteri su carta di riso, tanto meglio. La cucina è un metro quadro, una cabina sulla strada senza collegamenti alla casa, con un fornelletto e una bombola del gas. Il bagno e la doccia stanno a un centinaio di metri, condivisi dal quartiere intero.
Il signor Ban ci fa accomodare nel suo salotto, e ci mostra orgoglioso i biglietti da visita di una quantità di laowai che spaccia per amici, e con qualcuno si è anche fatto fare una foto: europei, americani, australiani. Quindi passa al mio nome: gli chiedo di scriverlo in caratteri tradizionali, e ne segue una discussione piuttosto accesa che al di là di ogni pronostico vede la vittoria del giovane straniero sul vecchio intellettuale: un vecchio dizionario dà ragione a me sul modo di tracciare il carattere ye, selvaggio. Questa mossa mi fa guadagnare il rispetto del professore, che con grande concentrazione fa diverse prove, e solo alla terza rimane soddisfatto del risultato. Mi passa il foglio ancora umido d'inchiostro: 10 kuai, non c’è verso di contrattare.
Ora tocca a Massimiliano, che non ha ancora un nome cinese. Chiedo al signor Ban di crearne uno, ma non ne vuole sapere di responsabilità del genere, e allora mi ci provo io. Il risultato è 十最大, Shi Zuida, la Massima Croce, che come traduzione del nome di Massimiliano potrebbe anche starci, non fosse che suona come se lui fosse una tegola di uomo, e che chiunque sappia due parole di cinese riderebbe a un nome così composto. Massimiliano giustamente non è entusiasta, e la settimana dopo si farà dare un nome da Linda, infinitamente migliore di quello improvvisato da me: Maxinuo.
Fanno altri dieci kuai, e poi un’immancabile foto assieme, io e il vecchio Ban. Anzi, due, perché una mi fa promettere di riportargliela indietro.

Per una ragione o per l’altra, quella foto adesso sta in Italia, e chissà che fine ha fatto il vecchio Ban. L’incontro con lui segna una tappa significativa non solo per il mio cinese parlato, ma anche per la mia comprensione della gente di Pechino: della semplicità della sua vita, eppure della sua dignità, dell’equilibrio e della tradizione che li animano, dell’orgoglio d’esser cinesi e ancora prima pechinesi, gente della capitale, del centro politico e culturale del Paese di Mezzo; e della loro gentilezza verso gli stranieri che mostrano interesse per le loro tradizioni. Un giorno, se trovo il tempo, dovrei proprio andarlo a trovare il signor Ban, e farmi insegnare ancora qualcosa davanti a una tazza di tè al gelsomino, perduto tra gli hutong alle spalle del Tempio di Confucio.

2006-08-10

Colleghi

Lo staff alla camera, al trentaseiesimo piano del Jingguang, è costituito da dieci persone. Oltre a me, Massimiliano e Vaira, di italiano c’è il mio capo, Gladis. Friulana, Gladis ha 28 anni ed è Segretario Generale. Il suo posto se lo merita e la sua pagnotta se la guadagna lavorando dalle 11 alle 16 ore al giorno, a volte anche di più. Ha talento e volontà, anche se lo stress la distrugge e certi giorni parlarle è pericoloso. Marco l’ha imparato a sue spese. Ma è buona Gladis, e mi insegna tanto al punto che le invierò una copia della mia tesi, inserendola tra i ringraziamenti speciali. Sta con Rajiv, un nepalese che sempra il contrario di lei: dove Gladis è seria e disciplinata, Rajiv scherza sempre e si rompe una gamba andando in skateboard. Studia medicina a Tianjin. Il sogno di Gladis è andarsene da Pechino, avere una vita tranquilla e dedicarsi alla famiglia. Ce la farà, ma non anticipo dettagli.

Poi ci sono i colleghi cinesi. Di Linda ho già parlato: lei è di Xi’an, ed è l’ultima arrivata. Parla italiano in modo semplice ma cerca di imparare con tutta la sua forza di volontà e quando può passa tempo insieme a noi per migliorare. Mai visto nessuno impegnarsi così in qualcosa, ed è una grande lezione. Vive insieme ai genitori del marito, pechinese, che però ha uno show-room di mobili a Tianjin. E’ Linda che comanda in casa: Massimiliano, che incontra il marito qualche settimana dopo, me lo descrive come una persona buona, gentile, totalmente sottomessa alla moglie.


La segretaria e centralinista è Sofia. E’ una bella ragazza, il suo italiano è semplice, ancora più di quello di Linda, ma non si sforza più di tanto a migliorarlo. Una volta, si dice, aveva un fidanzato italiano, ma ora è finita, e lei ormai ha passato i trent'anni. Sofia non ama il suo lavoro, troppo noioso, ed abita a due ore di metropolitana, ad Haidian; ogni giorno è un viaggio all’alba e dopo il tramonto. Ma guadagna abbastanza bene, e si adatta. Anche se scherza tutto il giorno con le colleghe cinesi, non parla molto con noi italiani: il suo rapporto è esclusivamente di lavoro. Anche in ufficio, esiste una sorta di muro invisibile che divide cinesi e laowai, e anche se ci si comporta con gentilezza e generosità, i locali non amano ammettere stranieri nella loro sfera personale. In pausa pranzo e a fine giornata i cinesi semplicemente spariscono, senza nemmeno salutare.


La contabile è Claire, anche detta Xiannina da Gladis, che la predilige. Claire è una bella donna, ma non si cura per nulla: vestiti comodi per lavorare il più possibile, non parla mai con le colleghe, al massimo sorride a qualche battuta, poi sguardo fisso sullo schermo del computer 8 ore al giorno. Il suo wallpaper ha la figura di una bambina disegnata a cartone animato, e Claire le assomiglia tanto quando il cervello le si fonde a macinare dati, e allora si prende la testa tra le mani, una testa tonda con i capelli tirati indietro che la fanno sembrare ancora più grossa e tonda, ed esclama “Oyooo… ”.


Yao è la mia preferita: il suo italiano è quasi perfetto. Sta da anni insieme a un napoletano che gestisce un’agenzia di viaggi e spedisce gruppi di cinesi in Italia. E’ sveglia e simpatica, ed esce spessissimo con me e Massimiliano. A furia di star con gli italiani ragiona da italiana anche lei, e ci si discute bene; ha anche il gusto di un'italiana, e ad oggi rimane la cinese più elegante che conosca. Per un mese condividiamo una stanza dell'ufficio e si diventa grandi amici. Yao sogna un bambino, e sul suo schermo si alternano wallpaper di spiagge tropicali e infanti dagli occhi azzurri.


Poi c’è Xiao Ma’r, la piccola Ma, un metro e mezzo per quaranta chili di timidezza: non ci rivolge mai la parola, anche lei 8 ore al giorno incollata al computer. Gladis la definisce una scheggia: tu dici cosa, lei te lo trova su internet. Sorride sempre con la faccia furbetta; chissà cosa pensa. Sa parlare italiano, ma usa sempre e solo il pechinese per comunicare con qualcuno.


E poi c’è Wudi, il modello di vita di me e Massimiliano. Unico uomo in un ufficio di sole donne, trent’anni passati e ancora single (cosa stranissima in Cina), ufficio privato, impiegato dall’ENIT e non dalla Camera, quindi relativa indipendenza, libertà d’azione e lavoro parastatale. Viene in ufficio in pochi minuti di metrò o, quando fa caldo, in bicicletta elettrica. La sua scrivania è ingombra di riviste di turismo, il suo wallpaper è una foto di fiori colorati rilassanti. Di fianco al monitor una tazza in stile ming e tre diversi tipi di tè. Lo schermo del computer è posizionato in maniera tattica rispetto alla porta in modo da coprirlo completamente: non si sa cosa faccia Wudi tutto il giorno, solo si sa che riceve tre o quattro telefonate di media. Dopo pranzo, si mormora, si stende sulla sua poltrona in pelle nera, reclina il morbidissimo schienale, leva le scarpe, poggia i piedi su un boccione vuoto della macchina dell’acqua nascosto sotto la scrivania, e si addormenta placidamente. Quando si sveglia legge per un po’ il giornale. Alle 5.30 in punto è fuori dall’ufficio. Sorride sempre, Wudi. Che mito.
Un giorno, vorrei davvero essere come lui!

2006-08-07

Silenzio mentale


Uno dei motivi per cui il mio primo soggiorno a Pechino cambia la mia percezione del mondo è che capisco poco di quello che sento e sono analfabeta. Per la verità, so leggere quanto basta: dopo qualche settimana, ho imparato a distinguere un ristorante da un barbiere e un supermercato da una stazione di polizia. Ma non capisco la pubblicità, né quella stampata né quella trasmessa via radio o TV. Vivo di fatto senza essere irritato ogni santo giorno dai personaggi dell'immaginario pubblicitario: la ragazza dei cellulari, il cane della carta igienica, il bambino dei sofficini, il manager vincente delle banche. Mi dimentico della loro esistenza.

Di più, non sento nemmeno i discorsi della gente per strada, ignoro totalmente i loro ragionamenti futili, i loro lamenti fini a sé stessi, le loro battute sconvenienti. Tantopiù che, essendo laowai, la gente comune ha paura a rivolgermi la parola e nemmeno mi guarda per discrezione o timore di attrarre il mio sguardo di barbaro.




E mi rendo conto che il luogo in cui sono nato limita la mia libertà di pensiero: troppe luci, troppe distrazioni, troppi richiami uccidono il pensiero. Compra questo, prova quest’altro, vieni a vedere questo posto e comportati in questa maniera. I media e le persone che li seguono definiscono la realtà in cui esistiamo.

Qui, invece, vivo in una situazione di isolamento assoluto. Pechino è solitudine. Quando guardo il cielo, azzurro e sereno 300 giorni l'anno, mi sembra di sollevarmi da terra e perdermi in esso. Perché, in quell'assenza di distrazione, in quel silenzio completo, in quella solitudine impossibile da rompere anche volendo, io PENSO. E mi sento vivo, mi sento felice, mi sento uomo libero. Posso riflettere, scrivere, scegliere in assoluta indipendenza. Io sono me stesso senza compromessi, sono non già il nome che mi è stato assegnato alla nascita, ma quello che mi è stato dato da un'amante cinese nel mio ventunesimo anno d'età. Kuang Biye - la terra selvaggia, il deserto incontaminato, la landa senza fine dove mai nessun uomo ha tracciato sentiero. Uno spirito libero.


Nuove conoscenze

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Chiunque studi cinese fuori dalla Cina e lo faccia seriamente, non può esimersi dal passare un periodo di studio in un università cinese. Sono molte le università qualificate ad accogliere studenti stranieri, e tra esse le più famose e importanti sono a Pechino. Il pensionato per stranieri allo Yuyan Xueyuan (语言学院), l'Istituto di Studi Linguistici, è un insieme incredibile di razze e colori, anche grazie al fatto che la Cina supporta un gran numero di Paesi del Terzo Mondo con cui intrattiene relazioni amichevoli. E così non si conoscono solo europei, americani, giapponesi e coreani; ma si trovano liberiani, pakistani, mongoli, russi, ghanesi e mauriziani.

E’ venendo qui che Vaira ha conosciuto Vikash, che aveva vinto una borsa di studio per studiare medicina, ma doveva spendere il primo anno allo Yuyan per imparare la lingua. Vaira ora ha un lavoro e un appartamento non lontano dall’università, dove Vikash studia ancora, e il loro gruppo di amici è rimasto lo stesso. Un sabato ce li presentano, invitandoci a visitare la zona delle università, nella parte nord di Haidian. E’ una zona molto diversa da Chaoyang, dove si concentra la crescita economica e sorgono grattacieli ovunque; Haidian è un’area tranquilla, pacifica, molto più austera.


Vikash ha un gran numero di amici mauriziani, che nonostante siano molto pochi al mondo, abbondano a Pechino. Mauritius è un paradiso sperduto nell’Oceano Indiano dove convivono discendenti di francesi, inglesi, tamil e cinesi. La lingua ufficiale è il creolo, uno strano dialetto del francese. E gli amici di Vikash sono appunto bianchi, neri e gialli. Conducono una vita semplice, da studenti squattrinati, ma i ristoranti della zona universitaria costano poco. In quest’area si concentra gran parte della popolazione coreana di Pechino, e i ristoranti che servono cane sono moltissimi. Altro gruppo numeroso sono i musulmani, che sfornano pane al sesamo a ogni ora, e per pochi kuai ci si può sfamare con un nang che un po’ ricorda casa. Ma la vera passione dei mauriziani è la cucina piccante: quando ci portano in un ristorante cinese, riusciamo a toccare solo la metà dei piatti. Mai sentito niente così.


La serata continua a casa di Vaira. Vikash ha invitato Vinesh e un altro studente francese a vedere la partita. Vaira ha invitato Bao, una ragazza del Sichuan che ha studiato coreano e si è laureata da poco. Manca ancora parecchio alla partita di calcio, e Vikash tira fuori un DVD comprato sulla strada: un film indiano, Lagaan. Trama: gli inglesi vessano la popolazione del Deccan con un tributo sul raccolto, il Lagaan. Per umiliare i locali, il colonnello inglese cattivo propone una scommessa: se gli indiani del villaggio batteranno gli inglesi del forte in una partita di cricket, non dovranno pagare tributo. Se perderanno, lo pagheranno triplo. Durata del film: tre ore e quaranta; tono: ipernazionalista. Riusciamo a guardarlo per un’ora prima di ammutinarci e interromperlo.
Aspettando la partita, ci sediamo sul pianerottolo a fumare una sigaretta con il ragazzo francese, che ci confida la sua opinione della cultura locale. “Quando parli con un cinese” dice “questo è sempre orgoglioso del proprio Paese, che vanta avere 4.000 anni di storia. Ma quando provi a interrogarlo su un qualsiasi evento storico occorso in questi 4.000 anni, ti rendi conto che non ne sa nulla. Come si fa a ragionare così?!?”.


La partita incomincia, ma non tutti sono interessati. Io e Massimiliano ci sediamo al tavolino a chiacchierare con Vaira e Bao. La conversazione si svolge parte in italiano, parte in inglese, parte in cinese. Vaira spesso traduce per Bao, e veniamo a scoprire che sta con un ragazzo italiano di Ravenna, con cui si vuole sposare a breve. Ma proprio la settimana scorsa, Bao è andata all’ambasciata italiana a chiedere il visto e s’è trovata davanti la stessa burina che avevo incontrato io. E alla domanda di visto, quella risponde “Ma lei che se lo vuole sposare a fa’ il suo ragazzo in Italia?!?”. Visto rifiutato. Cerchiamo di consolare Bao, consci delle sue difficoltà a trattare col nostro governo. Al termine della serata, ci salutiamo e andiamo a casa, con nuove conoscenze alle spalle che non vedremo più per molto tempo. Tra chi parte e chi torna, è difficile mantenere rapporti con una persona incontrata per caso una sera.

Eppure, incontro Bao tre anni dopo a Shanghai. Conversiamo per una mezz’oretta prima di ricordarci di esserci conosciuti a Pechino nel 2003. Nell’estate del 2006, Bao lavora alla Camera di Commercio, il suo italiano è fluente, e finalmente si è sposata con Marco, che è chief representative di un’azienda di vini emiliana e ho conosciuto la settimana prima nel tentativo di formare una band. E’ un mondo piccolo, e le persone incontrate per caso una sera possono essere incrociate di nuovo a distanza di anni, e ciascuno avrà da raccontare la sua storia. Siamo tutti viaggiatori, e la nostra condizione comune ci fa cittadini dello stesso mondo.

2006-08-06

Acqua Bollente


Un oggetto peculiare della Cina è la macchina dell’acqua. Si tratta di un cubo o una colonna di plastica, cui si attacca un boccione pieno d’acqua, la quale fuoriesce da due rubinetti. Da quello azzurro acqua fredda direttamente dal boccione. Da quello rosso acqua calda che passa attraverso una serpentina rovente, e riempie la tazza al limite dei 100° C.

La macchina dell’acqua (饮水机) si trova ovunque: negli uffici, negli appartamenti, nei chioschetti dei guardiani, ovunque una persona possa trascorrere del tempo in un luogo chiuso. I cinesi bevono da mattina a sera, principalmente acqua calda. In un Paese sovrappopolato dagli albori del tempo, con un clima a dir poco ostile, le fonti d’acqua pura sono sempre state poche, e l’acqua è sempre stata tradizionalmente bollita e bevuta rovente. Ancora oggi si usa, nel dare il benvenuto a una persona, offrire una tazza di kaishui (开水), acqua bollente, ed è buona regola accettarla anche se non si è obbligati a berla. L’acqua bollente è una cosa a cui gli italiani difficilmente si abituano. Per darle gusto, i cinesi spesso ci buttano dentro foglie di tè.


La tradizione del tè in Cina è la più antica del mondo, e ve ne sono centinaia di tipi diversi, più o meno popolari a seconda delle aree. Il tè verde è il più comune. Nel sud qualcuno usa il tè scuro, le foglie della pianta del tè tostate, ai giorni nostri spesso nella forma di una bustina gialla con scritto sopra “Lipton”. Nel nord, e specialmente a Pechino, il tè non cresce bene, e si usa altro, quello che viene chiamato huacha (花茶), il tè di fiori. Invece di usare foglie di tè, si usano fiori. Il principio è lo stesso della camomilla, solo che le varietà qui sono infinite, e includono anche varie spezie e miscugli sapientemente dosati di ingredienti diversi. I tè più popolari a Pechino sono, tuttavia, due: il tè al gelsomino e quello al crisantemo.
Quello al crisantemo, juhuacha (菊花茶), lo si trova spessissimo nei ristoranti come tè da pasto. Ha un colore verdognolo e a differenza di quasi tutti gli altri tè cinesi, è concesso addolcirlo con un cristallo di zucchero servito su un piattino. Prendere il cristallo di zucchero, grosso meno di un quarto di una zolletta delle nostre e di forma irregolare, con le bacchette è un ottimo esercizio di manipolazione.
Quello al gelsomino, molihuacha (茉莉花茶), è il tè che si beve più frequentemente da solo: ha un odore intenso e inebriante, ma se infuso a lungo diventa amaro. Per questa bevanda, complice il freddo inverno, sviluppo una passione insana che mi porta a berne continuamente. Comincio verso le dieci del mattino, davanti al computer, con un bicchiere di carta pieno di acqua bollente e alcune foglie di tè comprato in un negozietto di strada. Fino a quando esco da lavoro, non smetto di sorseggiare, aggiungendo acqua bollente quando scarseggia. I colleghi lo apprezzano quale segno della mia accettazione delle loro tradizioni, il che mi fa guadagnare punti stima. Loro lo devono al massimo della temperatura; e pare che l’abitudine cinese di bere acqua e tè rovente sia alla base di diffusissime patologie gastriche. Io la mia tazza la faccio raffreddare, e l’odore dei petali di gelsomino profuma la mia giornata. Mi sento adattato alle condizioni locali, come se imparando gli usi avessi risolto gran parte dei problemi che porta il vivere in Cina. Sono molto orgoglioso di bere il mio tè al gelsomino. Me ne pentirò quando, alcune settimane dopo, i denti cominceranno a macchiarmisi. Perché il tè, questo me lo dirà il mio dentista mesi dopo, è una delle sostanze che in assoluto macchia più i denti. Le usanze locali, penso, non sempre sono le più convenienti.

天仁茗茶 喫茶趣 Cha for Tea trial mini

Il tempo dell’amore

http://beijingultimate.blogspot.it/2010/10/retrospective-poachers.html

Il passaggio dal Dabei al Poachers realizza un cambio totale dello stile di vita. Siamo passati dalla periferia squallida dove alle otto tutti dormono tranne gli operai dei cantieri, al centro della vita notturna della capitale. Proviamo qualche altro locale della via principale, la 酒吧街, ma sono frequentati principalmente da cinesi che si vestono nei modi più fuori luogo, non parlano inglese e ballano in modi strani al suono di musiche impossibili. Le serate al Poachers, l’unica discoteca dove si trovi un clima internazionale, diventano un appuntamento bisettimanale.

Non so se sia l’ambiente a facilitare le cose, o se si sia realizzato un vero e proprio cambiamento dentro di me. La mia timidezza e la mia insofferenza verso le persone sembrano scomparire, e per la prima volta mi sento circondato da persone simili a me, stranieri che hanno lasciato casa loro per venire in Cina, e da cinesi, con i quali non devo giustificare le mie stranezze. Sono straniero, quindi strano.
Mi lascio andare, e in tre settimane riesco a baccagliar ragazze più che nei 23 anni precedenti della mia vita. Mi innamoro ogni sera, e il giorno dopo già mi distacco, felice eppure libero da ogni catena emotiva. Tra le cento ragazze con cui flirto al Poachers, ce ne sono tre che ricordo.


La prima è Mina. Americana di S. Francisco, pelle nerissima, sedere tondo, sorriso bianchissimo e lunghi capelli raccolti in treccine sottili secondo la moda. Balliamo appiccicati, la bacio sul collo e le infilo una mano nei jeans. Mi sembra di impazzire. Finisce tutto così, una sera. La vedo ancora, aggrovigliata a ragazzi neri, ma non la cerco, né lei cerca me.


Le altre due ragazze sono senza nome, cinesi. La prima è bella, elegante e dall’occhio affascinante. La abbraccio e cominciamo a ballare, e scambiare frasi io in inglese, lei in cinglese. Mi domanda che faccio a Pechino, che tipo di lavoro… poi quanto guadagno, quindi quanto tempo ho intenzione di fermarmi. Rispondo sinceramente, incuriosito. Le mie risposte non la soddisfano.
“I’m sorry” mi dice “I think you’re not the guy I am looking for”
La situazione è ridicola. Rispondo a tono, bluffando con un’arroganza che non ho mai avuto prima nei confronti del genere femminile.
“And so you made me waste all this time? I can’t believe it!” dico “I think at least you owe me a kiss”
La richiesta le sembra equa. Il bacio è umido e a labbra chiuse, e mi lascia il sapore di un lucidalabbra alla frutta. Purtroppo la Cina, come molti altri Paesi non appartenenti al “Primo Mondo”, è piena di ragazze in cerca di uno straniero con un portafoglio grosso e un bel passaporto. Me ne accorgo a mie spese, e grazie al cielo la mia condizione di stagista non è abbastanza appetibile per queste opportuniste, così che non mi trovo invischiato nelle loro tele.


L’ultima ragazza mi approccia al termine di una serata poco soddisfacente, proprio mentre sto per scendere dal palco. Mi si piazza davanti e comincia a ballare, guardandomi con due occhi nerissimi ed enormi, su un viso bianco di porcellana, con due piccole labbra rosse come ciliegie. E’ una bambolina, e apre la conversazione con un “Hello!” (risata timida) “You are very handsome!”. Dopo due minuti di frasi di circostanza e ballo appiccicato ci stiamo già baciando. Bacia bene. Mai baciata una ragazza così, è il bacio perfetto. “I’m very hot” mi sussurra. Non credo alle mie orecchie, troppo facile. Appunto. La invito da me a bere qualcosa. “Where do you live?” chiede. “Just above, in the hostel!” proclamo orgoglioso della comodità. 23 anni di timidezza non si recuperano in tre settimane, e si casca facilmente in un errore madornale come questo.
“I’m sorry” dice “I have to go back to my boyfriend. He’s sitting out there, drinking alone, he’s very blue”
Poco credibile. Il perché di questo cambio di atteggiamento me lo spiega un amico un annetto dopo. No, 23 anni di incapacità totale con le ragazze non si recuperano in tre settimane. Ce n’è tanta di strada da fare.


Ma io continuo ad innamorarmi ogni sera, e il giorno dopo già mi distacco, felice di superare i limiti della mia vita precedente.

2006-08-03

Il Supermercato



La colazione da Poachers è inclusa nel prezzo, e viene servita all’interno del bar. Fa un effetto strano stare nella sala alle otto del mattino, senza persone, senza alcol, senza la nebbia creata dalle sigarette, senza la musica datata. Nel corridoio che mette in comunicazione ostello e bar c’è una finestrella che dà sulla cucina, e passandoci si avverte il cuoco della propria presenza. Un minuto dopo, questo arriva al tavolo con un vassoio: un piatto con tre fette di pane tostato dolce; una confezione monouso di burro; una confezione monouso di marmellata alla fragola; un piatto con frittata e spalla di maiale cotta in fetta quadrata; un bicchiere di succo di mela; tovagliolo di carta singolo; posate.
Tutti i giorni. Il succo alla mela è sempre di mela. La marmellata alla fragola sempre fragola. Il pane dolce sempre dolce. Dopo i primi tre giorni avverto il cuoco che rinuncio alla frittata. Quando imparo come si dice spalla cotta, rinuncio anche a quella. Tutte le mattine, per due mesi, la stessa frase:
“Bu yao jidan, bu yao huotui”
Il cuoco annuisce. Dopo due mesi impara che non voglio la frittata e mi anticipa.
“Bu yao jidan!”
“Bu yao huotui” aggiungo.
Annuisce come uno che ha imparato una cosa interessante. Qualche volta lo testo, e non glielo dico. Allora mi porta tutto quanto.
Il succo di mela e la marmellata alla fragola diventano stomachevoli dopo le prime due settimane. Non è disponibile alcuna alternativa, nemmeno pagando extra. Ma un'alternativa serve: la camera da Poachers non è fornita di frigo, ma la Camera di Commercio sì! E’ allora che scopriamo il supermercato.
Ci eravamo già stati tempo prima, facendo esperimenti strani con tè lipton che sapeva di chimico e nescafé mescolati con una penna bic, ma ora ci si apre davanti il mondo dei cibi freschi. Soprattutto a me, perché Massimiliano ha già passato un periodo in Inghilterra e si è fatto lo stomaco.
Visitando i supermercati di Pechino vengo così a scoprire la miriade di merendine chimiche e cremose che i cinesi adorano. Gli unici biscotti mangiabili sono i Chips Ahoy, ricetta americana ma fatti in Cina, frollini piatti con gocce di cioccolato: sanno di stantio, ma sono la cosa più simile a un biscotto italiano che esista qui. I Chuduoduo (楚多多), come si chiamano qui, vengono anche nella versione al burro di noccioline, una botta di calorie non indifferente, che dà nausea al terzo biscotto.



Il latte costa un occhio della testa, almeno 10RMB al litro, e quello intero è più leggero del nostro latte scremato. E quando mi viene la tosse, causata più dallo smog che dal freddo, prendo del miele. Venti marche diverse di miele, qualità identica, packaging identico: vaso trasparente, tappo giallo, etichetta gialla e verde, o gialla e arancione. Ne acquisto un vasetto e me lo porto in Camera, tra le risate delle colleghe cinesi che mi avvertono che ho comprato “miele per bambini”. Chissà poi che differenza c’è col miele per adulti… misteri del marketing cinese.
La cosa sconvolgente, tuttavia, è che l’introduzione del supermercato in Cina ha portato solo l’illusione della catena del fresco. Ci sono mosche un po’ ovunque. La carne è venduta su un tavolo senza refrigerazione; il pesce per fortuna è vivo, o dovrebbe esserlo, perché gli acquari puzzolenti con la merce che galleggia a pancia un su è più che frequente. I banchi gastronomia vendono le cose più impossibili, e tra tutte riconosco solo i ravioli cinesi, ovviamente non refrigerati. L’odore è indescrivibile. Il latte che ho comprato è rancido. Si sa, il latte è un alimento delicato. Il problema viene quando scopro che il anche miele è rancido.
“Ma da quando in qua il miele scade?!?” chiedo esasperato alle colleghe cinesi.
Nessuna risposta, sorrisi e facce tra l’imbarazzato e il divertito.
E’ allora che imparo l’importanza della data di scadenza. Che in Cina non c’è, per la verità. C’è la data di produzione. E poi, cercando tra i vari caratteri complicatissimi e minuscoli dell’etichetta, si trova la shelf-life, il periodo consigliato (non imposto) per il consumo. Tale periodo si addiziona alla data di produzione per ottenere la data di scadenza, anzi la data entro cui si consiglia il consumo. Tanto comunque la merce si vende anche dopo quella data. E comunque anche se il latte fresco in tetrapak dura una settimana, se lo si conserva alla temperatura sbagliata, anche il giorno dopo è già cagliato. Tutela del consumatore? No, qui non se n’è mai sentito parlare.
Gli acquisti successivi sono più fortunati, complice il controllo metodico delle etichette. Ma il cibo fresco al Jingkelong di fianco a casa rimane sempre una roulette.

Poachers – L'Ostello

L’ostello Poachers è stato fondato nei tempi bui degli anni ‘90 da un vecchio signore britannico, e da allora è rimasto la residenza temporanea ideale di tutti i turisti zaino in spalla e degli studenti stranieri che dalle città minori della Cina vengono a visitare Pechino, specie durante il week end. L’edificio ha tre piani con svariate camere a uno o due letti e un bagno doppio ad ogni piano, uno per le donne e uno per gli uomini. E’ piuttosto pulito, silenzioso, accogliente.
Il signore britannico non si vede mai, ma lascia tutto in mano a Zhu Li. D’altra parte, anche Zhu Li non si vede quasi mai, se non al mattino quando arrivano gli ospiti, che vengono accolti in inglese. Per tutto il resto del tempo, praticamente 18 ore su 24, alla reception sta un ragazzo sui venticinque anni, sorriso ebete stampato sul volto, giubbotto di pelle alla Fonzie di 4 taglie troppo piccolo, carnagione bianchiccia. Per il 90% del tempo guarda un televisore portatile in bianco e nero che sta dietro al banco, per il restante 10% sorride a chi passa, o sorride quando gli viene fatta una domanda e non la capisce (praticamente sempre). La sua unica apparente funzione è quella di fare la guardia alla porta che separa il bar dall’ostello, in modo che elementi indesiderati non accedano alle stanze. Non si è mai saputo come si chiamasse questo strano personaggio.
La camera che ci hanno dato è silenziosa e offre una vista rilassante sugli alberi del cortile e sul Bookworm, una biblioteca/bar sul retro, quasi sempre vuota. Ci sono due letti (quello vicino alla finestra e al calorifero lo occupo io d’ufficio, memore del gelo del Dabei, lasciando Massimiliano piuttosto interdetto), un tavolino con il thermos dell’acqua e delle buste di tè, un armadio che dividiamo, e un’unica sedia su cui accumuliamo giubbotti, jeans e magliette in una pila in cui si cercano ogni mattina alla cieca i propri indumenti.
In settimana sono poche le persone che stanno al Poachers, e solo nel weekend si riempie di giovani stranieri che escono dalle stanze sorridenti e ci ritornano devastati dall’alcol, e quasi sempre in compagnia. Per molti versi, il Poachers è un bordello, considerata anche la facilità con cui si trova un partner per la notte nel bar sottostante. Mi capita, una sera, di tornare in camera alle tre, e di sentire musica in tutte le stanze. Nell’unica sprovvista di musica i gemiti e i respiri pesanti sono piuttosto chiari.
Curiosamente, come vicini di camera abbiamo uno studio grafico il cui titolare, forse per risparmiare denaro, ha pensato di affittare come uffici due camere d’ostello che si guardano l’un l’altra. Ci lavorano dentro cinque ragazzi e ragazze giovani, che però raramente salutano. Sarà anche che la mattina gli passiamo davanti all’ufficio in pigiama e con lo spazzolino da denti in bocca, e che il sabato facciamo la stessa cosa ma indossando solo un asciugamano, diretti alla doccia.
Tutto sommato ci si sta bene al Poachers: tranquillo, pulito, economico, situato nel centro di Sanlitun, e crocevia per una serie di personaggi impossibili che conosceremo nelle settimane seguenti.