2007-02-26

Incontri durante un Giringiro

Una delle tante sere in cui si finisce in un ristorante a caso ci vengo invitato da un’amica. Il ristorante in questione è il Rio, brasiliano gestito da cinesi sulla Guijie (簋街). Per a cronaca, la Guijie, la “strada delle portate”, si estende dalla vecchia porta di Dongzhimen fino all’incrocio con la strada che da nord arriva dalla porta di Andingmen, entro i confini dell vecchia Pechino. E’ chiamata erroneamente “Ghost Street” da molti stranieri a causa dell’assonanza de carattere (gui, portata) con (gui, fantasma o demone, appunto), e la cosa viene giustificata dal fatto che la Guijie non chiude mai, è una via lunghissima costeggiata da ristoranti di ogni genere, tutti illuminati da insegne al neon per lo più rosse e lanterne a profusione, e a ogni ora del giorno o della notte chi ci passa viene assalito da “buttadentro” che cercano di indirizzare il flusso di persone verso il ristorante per cui lavorano. La Guijie è tradizionalmente un luogo per ristoranti cinesi, ma ai suoi estremi stanno aprendo anche altre cucine.

Nello specifico, davanti al Rio, due cinesi alti e dal capello lungo vestiti in quello che sembra un costume da Mr. Crocodile Dundee, ci invitano ad provare la cucina brasiliana: 59 kuai per un buffet di verdure, pezzi di carne arrosto distribuiti fino a chiusura e free flow di birra fino alle 11. Sembra proprio un affare.

Dei presenti conosco solo Luisa e un’altra ragazza italiana, che avevo incrociato alla cena di gala, peraltro senza che fosse nata da parte mia una gran simpatia. Ma al nostro tavolo siedono due nuovi personaggi di particolare rilievo che da lì in poi diventeranno miei grandi amici.

Il primo è Federico. Una parola, vulcanico. L’immagine della forma mentis “opportunità” contrapposta a quella “ostacolo”. Ogni cosa è per lui un invito a farsi coinvolgere e sviluppare come gruppo, si butta in tutto quello che stimola la sua curiosità, cioé quasi tutto quello che vede, sente o immagina. Insieme a un paio di amici ha creato un sto web, Stracina, con cui spera di creare un portale per gli italiani in Cina. Pensa in grande, e mi parla di tutti i suoi progetti, tavolta brillanti, talvolta donchisciotteschi, per creare una grandissima associazione che promuova tutto ciò che è buono e bello nell’universo conosciuto e sconosciuto. Mi confessa che il suo sogno è aprire una scuola in Africa. Pensa in grande, probabilmente troppo in grande, ma probabilmente il mondo avrebbe bisogno di più persone così.

L’altro personaggio è Joe; o meglio, Zhou, che si pronuncia uguale. Joe viene da Shanghai, e inspiegabilmente condivide tutte le mie opinioni sulla sua città natale. Vive a Pechino da 8 anni ormai, e ci si trova davvero bene. Lavora alla redazione cinese dell’Economist, a cui contribuisce spesso e volentieri, e nel tempo libero scrive poesie, organizza spettacoli, traduce libri. Sì, perché Joe, oltre a parlare mandarino, shanghainese e un inglese perfetto, mastica non troppo male una varietà di altre lingue tra cui l’ebraico, impossibilmente studiato proprio a Shanghai. E’ uno degli organizzatori di una serata di poesia che si tiene il mercoledì al Bookworm, e le sue poesie sono in effetti scritte in inglese. A vederlo Joe sembra davvero un super-Nerd, con il taglio di capelli da ingegnere, pelle pallida, polo rossa, jeans senza forma, timberland vecchie e consunte e occhialoni quadrati. E invece guarda un po’: parla di politica nazionale e internazionale, poesia, storia, linguistica senza mai trovarsi in imbarazzo. L’immagine del cinese uscito vivo dalle migliori scuole del Paese e del mondo: segnato fisicamente dagli anni di studio, memoria di ferro, acume da paura, e una capacità di pensiero indipendente da far invidia a un rivoluzionario.

I nostri discorsi inevitabilmente virano verso l’intellettuale, e grazie alla birra, mentre noi ci spingiamo verso vette d’astrazione eccelsa e collegameti improbabili tra argomenti, le ragazze cominciano a parlare di argomenti più leggeri i disparte. Non so come, da Umberto Eco si finisce a parlar di donne. E’ sempre così, maledetti intellettuali frustrati. Racconto del mio incontro con Dandan, e del fatto che nonostante nulla sia successo, da quando ho lasciato Chengdu io e lei ci sentiamo tutti i giorni. Joe mi fa i migliori auguri per la mia storia, e racconta della sua uscita con un cantante lirica che vorrebe studiare in Italia. Si tira tardi. Poi quando l’ennesimo boccale di birra è finito e Mr. Crocodile Dundee non ce lo riempie più, paghiamo i nostri 59 kuai e si saluta. Baci, abbracci, promesse di eterna amicizia.

E’ anche per questo che amo Pechino. Intellettuali idealisti di questo spessore non li si trova tanto facimente altrove.

2007-02-22

Sereno Vagabondare

L’Alameda ha vinto un sacco di premi come uno dei ristoranti più di successo della città, e per il suo anniversario organizza una grande festa al Nali Mall. Siccome il ristorante è famoso, e soprattutto siccome la festa è gratuita con stuzzichini, dolci, birra e vino gratis, il Nali si trasforma in un groviglio di folla, per lo più ragazzi della mia età che brindano e gridano per sovrastare la musica, e tutti i locali del minimall si aggregano. C’è Vivi che sorride ancora più del solito, c’è Carlos con un suo amico spagnolo che si è portato dietro due ragazze cinesi e le bacia a turno piazzando generose manate sul culo di entrambe, ubriaco marcio. C’è Sasha che come sempre sorride e sta zitto, al massimo fuma una sigaretta e beve un bicchiere di vino. Alex sta seduta a un tavolo del Kiosk a chiacchierare tranquillamente con Patti e altre amiche, apparentemente non toccata, nel suo aplombe britannico, dal clima da sagra. Irene mi raggiunge in ritardo, come suo solito, e rimane stupita nel vedere la situazione del Nali, solitamente così tranquillo. Saranno le sei, forse le sette, e il tasso alcolico è già alto, i bicchieri rotti si moltiplicano. Un signore esce a fatica con la calca, il bicchiere di vino vuoto tra le mani, e lo poge a Sasha:

“Ecco lo do a te, sono riuscito miracolosamente a salvarlo nella folla che mi spingeva” dice.

Sasha sorride, prende il bicchiere, va in un angolo, e con grazia la frantuma contro il muro.

“Salute!!!” grida, tra gli applausi degli astanti.

Io e Irene abbiamo fame. Agguantiamo due bicchieri di vino bianco e discretamente ci dirigiamo verso la Sanlitun Bei, verso lo spiedinaro. “I bicchieri li riportiamo tra un po’ ” dico a Sasha. Non credo che comunque l’informazione gli interessi. E’ una strana scena quella mia e di Irene all’angolo dell’Aperitivo, nel sole del tramonto, che addentiamo yangrouchuan’r nella destra, e nella sinistra reggiamo un elegante calice di bianco. Paghiamo entrambi in banconote da 5 mao stropicciate, roba che neanche i mendicanti ormai fanno più. Brindiamo ridendo, mentre il xinjianese ci guarda sospettoso.

Già che ci siamo decidiamo di fare un salto su al Top Bar, per fare un saluto a Jason, che come sempre sta progettando party improbabili. Il motivo principale è in realtà la voce incontrollata che dà per certa una grigliata gratuita; purtroppo il pettegolezzo si rivela infondato, così ci sediamo sul terrazzo, e notiamo come la sua idea di “festa di Sanlitun” sia una versione della festa dell’Alameda al Nali una decina di volte più grande, ed effettivamente concordiamo sulle potenziali conseguenze disastrose dell’evento per la pavimentaione stradale e l’arredo urbano.

Il sole è ormai tramontato quando torniamo al Nali a restituire i bicchieri ormai vuoti da un bel po’. La gente si è diradata, l’alcol ha cominciato a pesare sul corpo di molti, altri semplicemente si sono diretti dove possono trovarne altro da ingerire. Noi abbiamo fissato un appuntamento a cena con altri amici italiani; i yangrouchuan’r non erano abbastanza, serve altra carne, forse andremo a un ristorante brasiliano.

Le serate d’estate a Pechino sono così, un vagabondare sereno e casuale, un insieme di incontri fortuiti o meno in un luoghi conosciuti o anche nuovi. Quel che conta è il non programmare, l’abbandonarsi a un flusso di eventi generato dalla fantasia di chi passa di lì. Nulla di male può accadere.

Ci si infila in un taxi, si ringhia il nome di una strada dove non si è mai stati, e ci si rilassa sullo schienale...

2007-02-11

Cena di Gala @ Green T. House Living


Ogni anno, a giugno, la Camera organizza una serata di gala per promuovere lo stile italiano con un aziende di automobili, moto, moda, illuminazione, arredamento e alimentari. Non posso non esserci: l’anno prima avevo partecipato, e anche quest’anno è per me un dovere morale essere lì, tra gli italiani che si sforzano di far conoscere la loro cultura ai cinesi e promuovere il nostro Paese all’estero.

E così, nel tardo pomeriggio di giugno, svesto i miei panni da hippy – scarpe da tennis, jeans vecchi di anni, una maglia rossa di quelle che portano i musulmani in India, e la borsa verde militare con la faccia di Mao sopra – e indosso il mio completo da gala – abito nero fatto fare su misura da un sarto di Shanghai, camicia bianchissima fatta stirare apposta dal lavandaio di fianco all’albergo il giorno stesso, scarpe di cuoio nero e cravatta monocroma in seta dorata. Già che ci sono mi sbarbo e mi metto il profumo. Ecco, sono una persona presentabile.

L’anno prima mi ero presentato alla gala sfrecciando tra macchine nere a bordo di una scassatissima e impolveratissima Xiali rossa. Quest’anno non posso, e siccome la location è quantomeno “fuori” e so che un tassista non ci arriverà mai senza indicazioni chiare, decido di aggregarmi al pulmino organizzato dalla Camera. Alle sette di sera sono io nel parcheggio della Full Tower, e una signora cinese vestita elegante: classica donna del Nord della Cina, un metro e settanta per ottanta chili, occhiali alla Jiang Zemin e un sorriso a 32 denti enormi.

“Non si vede nessuno, eh?” scherzo “Ma ci sarà poi questo pulmino?”

E’ così che scopro che è la referente del pulmino, che sta alle mie spalle con l’autista che ci dorme dentro. Un quarto d’ora più tardi siamo tutti a bordo, io e meno di una decina di altri passeggeri, tutti cinesi, tutti eleganti, tutti nervosismi. Mi rilasso sul sedile e lascio le strade di Pechino scorrere oltre il finestrino, fino all’arrivo nella Suburbia a ovest dell’aeroporto. L’autista si ferma in una strada di campagna stretta e polverosa, di fianco a noi un cancello di metallo e oltre degli operai che stanno costruendo qualcosa, con gran rumore e polverone. Incerti, seguiamo la responsabile in processione, fila indiana, tutti elegantissimi, per una strada sterrata e piena di polvere. Il cielo è scuro e promette pioggia.

Ma dove cazzo siamo finiti?

E poi arriviamo alla Green T. House Living, un ristorante visionario costruito sul modello di un siheyuan antico, muri bianchi e grandi vetrate trasparenti, con ghiaia bianca nel cortile. Fotografi, telecamere, receptionists che consegnano materiale promozionale e prendono gli inviti degli ospiti. Il tutto nel mezzo del nulla della periferia pechinese, con attorno solo campagna e cantieri.

La gala è elegantissima, ospita la crema della comunità italiana in Cina e un buon numero di VIP e giornalisti cinesi. Attacco bottone con uno che stava sul pulmino, un tizio che sta in un angolo a guardarsi attorno smarrito. Scopro che è un giornalista della TV di Pechino. Ci scambiamo il biglietto da visita e flash! Ecco la prima foto della serata. Seguono varie rappresentazioni, tra cui una sfilata di moda di intimo e una troupe di ballerini che promuove delle lampade di design con originali coreografie basate sulla luce.

E poi, finalmente, ci si siede a tavola. Vicino a me un gruppo di dipendenti italiani della FIAT, che non sanno fare altro che lamentarsi del “livello scadente” della serata. Classici italiani all’estero, che supplicano il mio aiuto non appena falliscono nel comunicare con i camerieri. Questi pensano di stare in Italia.

Il menù è eccezionale, grazie a tre chef e un sommelier arrivati direttamente dall’Italia. Nelle cucine, li ho visti maledire lo staff cinese in rigorosissimo italiano, perché l’inglese è un problema per loro. Ma che ci venite a fare all’estero?!? Lo chef americano del Peninsula, uno degli hotel più famosi della città, che si occupa del catering, solleva gli occhi al cielo e mi sussurra: “Those Italians, always like this. When they arrived I said “Let’s start” and they said “Mangiare, mangiare”. Then later “Let’s start” and they say “No, first we want to see the Great Wall”. Then a few hours before the dinner they go in the kitchen, and then it’s “Cazzo! Porca Troia” Porcoddio!”. Always like these, the Italians. Non faccio fatica a immaginare la scena. Ma grazie al cielo la cena è un successo.

Lo staff cinese, va detto, ha comunque le sue colpe. Il secondo vino servito è un Barbaresco Superiore di una bontà mai sentita. Lo centellino e me lo gusto piano piano, in estasi. E poi, appena mi allontano un secondo, tra una portata e l’altra, per salutare un amico, ecco che la cameriera sfreccia e mi riempie il bicchiere di nuovo… con del Barolo. “Nooooooo!!!” La cameriera pare smarrita. Lo so cosa pensa: il rosso è rosso, che differenza fa se l’etichetta sulla bottiglia è diversa? Vorrei rispondere che la differenza sono tre mesi del suo stipendio, e di nuovo immagino la scena nelle cucine, improvvisamente provando simpatia per gli chef italiani. Respiro profondamente e mi risiedo.

Finita la cena, ci si ritrova tutti ad ammirare lo splendore delle macchine italiane gustando gelato, cioccolato e caffè all’italiana. Senza più posti a sedere si chiacchiera più facilmente e faccio la conoscenza di tante persone. L’atmosfera è rilassata e tutti paiono contenti, chi soddisfatto della presentazione dei suoi prodotti, chi felice di aver gustato cibo e vino eccellenti, chi si è occupato dell’organizzazione e constata che non sono successi disastri. Tutti sorridono e le mani si stringono.

Mi unisco a un paio di colleghi che lavorano nel vino, e sopra un taxi ci muoviamo verso Sanlitun. La serata finisce così, a notte fonda, su un tavolo dell’Aperitivo, seduti a chiacchierare con Stefano, il proprietario, gustando uno spritz e slacciandosi la cravatta. Sul tavolo davanti a noi, il Segretario della Camera si è tolta i tacchi e appoggia le gambe in grembo a suo marito, sorridendo contenta.

“Bella serata, come sempre un successo” le dico.

Lei alza il bicchiere: “Salute!”

2007-01-22

Quiete Campagnola


Sono i primi giorni di giugno quando un altro dei miei viaggi mi porta a Pechino. E’ sera, e faccio appena in tempo a farmi una doccia, poi vado a cena al Kiosk. Il Nali è praticamente vuoto, se si eccettuano un paio di cinesi di mezza età seduti sul dondolo, Sasha, le sue cameriere e due altri clienti, stranieri sui quarant’anni. Mi siedo direttamente al tavolo con loro, anche se non li conosco. Uno se ne va in fretta, l’altro rimane a chiacchierare: è svedese, fa il corrispondente per una testata del suo paese e si diletta di fotografia. Al collo porta una Canon professionale, con cui scatta quando l’ispirazione lo prende. Il nostro argomento principale è lo sfascio causato a Sanlitun dai progetti di ricostruzione che vanno avanti da anni. La nostra conclusione, che la cultura del “backstreet bar” sopravvivrà spostandosi continuamente in là.

Il mio Kiosk Burger è come sempre eccezionale, e ci aggiungo delle patate fritte tagliate spesse. Peccato non possa bere birra, gli antibiotici che prendo per il raffreddore da aria condizionata preso a Shanghai me lo impediscono.

Dopo un po’ lo svedese se ne va. I cinesi sul dondolo sono spariti, le cameriere salutano e vanno verso casa sulle loro biciclette. Le luci si spengono, tutti i tavoli sono già accatastati in un angolo, e rimaniamo io seduto all’unico tavolo rimasto sulla strada, e Sasha nel suo chiosco che mette in ordine le ricevute della giornata. Il silenzio della sera mi coccola: non c’è un rumore. Sono nel centro del quartiere dei divertimenti di Pechino, è domenica sera, e pare d’essere in campagna, luce bassa e silenzio di pace. Me lo godo per dieci splendidi minuti, fino all’arrivo di Irene, con una lattina di birra in mano comprata al 24 hours, che costa meno. Saluto Sasha, chiedendogli se gli serve una mano a spostare l’ultimo tavolo. Rifiuta con un sorriso e saluta con la mano.

Camminiamo per Sanlitun, io e Irene, e ci si racconta quel che è successo durante la settimana. La nostra tappa successiva è un parrucchiere nella strada tra Sanlitun e Xindong Lu, una strada buia e piena di buche lasciate dalle ruspe ora dormienti, dove le uniche luci sono quelle di un rivenditore di sigarette e tre negozi di parrucchieri pieni di cinesi con strane acconciature. Irene dispone, i cinesi mi fanno accomodare, mi lavano i capelli, me li rasano, me li ripassano a rasoio, poi con un pettine e una forbice li ricontrollano una terza volta per assicurarsi che siano tutti lunghi 6 millimetri. Poi mi rilavano i capelli.

Nel frattempo, altri due inservienti hanno intortato Irene sui prodotti innovativi importati dall’Europa a prezzi spropositati, che renderanno i suoi capelli meravigliosi. Irene cerca di non ridere troppo, pensando che solo due settimane prima una tinta bionda le ha lasciato tutta la testa rosso rame. Adesso ne ride, ma dal parrucchiere la reazione era stata ben diversa.

Soddisfatto del mio taglio 6mm e della foresta di riccioli che giace sul pavimento, allungo 10 kuai a uno di loro, che ringrazia.

Io e Irene ci incamminiamo nel silenzio verso casa. Non sarà nemmeno mezzanotte, e il più della gente che si trova per strada va in giro in pigiama e ciabatte. La domenica sera di giugno a Sanlitun è come stare in campagna. E io sono proprio contento di non essere a Shanghai.

2007-01-20

Io e Dandan

La mia prima impressione di Dandan è di stranezza. Il suo viso, la sua struttura fisica, il suo atteggiamento mi lasciano dubbioso, non riesco a catalogarla. Non assomiglia a niente di quello che ho già incontrato prima. Ci si presenta cordialmente, ma con un po’ di diffidenza reciproca, e lei mi chiede dove voglio andare.

“Speravo me lo dicessi tu” scherzo “sei tu la locale”.

“Non so che posti ti piacciono… vuoi un bar, una discoteca… dimmelo tu”

E’ un passarsi la palla al rimbalzo, come se ciascuno non aspetti che le scelte dell’altra per poterla studiare, capire.

“Andiamo in un bar, e vediamo com’è”

All’inizio l’atmosfera è fredda. Lei è una ragazza che sta sulle sue, io non ho ancora capito abbastanza di lei per scegliere un atteggiamento, e quindi non faccio che attendere una sua mossa rivelatrice. Andiamo in un bar cinese con musica caotica, proviamo a parlare ma non ci si sente. Finito un Bacardi Breezer, le propongo di portarmi altrove, ovunque la musica non sia così forte. Finiamo allo Shamrock, un bar frequentato dagli occidentali di Chengdu. Il posto è decisamente migliore. Accenna a sedersi, ma la fermo: “Andiamo fuori, si parla meglio”. Fuori non c’è nessuno, e rimaniamo soli a chiacchierare. Lei mi guarda stranita e si chiede perché io abbia deciso di sedere qui, e rimane sulla difensiva. Io decido di attaccare, e senza più distrazioni la metto a suo agio, le offro da bere, la faccio parlare di sé. Il discorso finalmente fila liscio, complici alcol e stanchezza.

E poi c’è un momento, in cui lei parla e io le guardo gli occhi, due occhi piccoli e a mandorla, nerissimi e seminascosti sotto una frangia di capelli castani, in cui capisco che mi piace. Lo capisco perché non la sto ascoltando, le sto semplicemente guardando gli occhi, come li muove, come sbatte le palpebre e lascia vagare lo sguardo attorno.

Quando si fa tardi ci salutiamo, dandoci appuntamento al giorno successivo, per andare a visitare le attrazioni turistiche di Chengdu. Mi addormento pensieroso, incapace di capire questa strana ragazza, e sono così stupito che non ricordo che ho già incontrato una persona che mi ha fatto lo stesso effetto. Succedeva 11 anni prima, e la persona in questione era colei che in questo blog ho chiamato Laksmi.


Il giorno seguente è come se avessimo metabolizzato entrambi lo shock dell’incontro. E’ una splendida giornata di sole, e Dandan mi porta a visitare il tempio di Wenshu, un monastero buddhista antichissimo, circondato da un parco enorme con tutte le varietà di bambù presenti in Sichuan. Due cose mi stupiscono, nella nostra lunghissima conversazione. La prima è che, contrariamente all’abitudine cinese di vantare in modo spudorato le attrazioni nazionali, mi dice che il Panda è un animale sporco, ispido e abbastanza inutile. Il Panda è il simbolo di Chengdu, dove è situato il centro internazionale per la riproduzione della suddetta bestiaccia. Tutti i chengdunesi ci sono stati a osservare il Panda da vicino, lo hanno anche accarezzato e osservato nella sue abitudini, che poi si riducono a nulla più mangiare bambù di giorno e dormire di notte. La seconda cosa che mi stupisce è che conosce la Storia dei posti in cui mi porta, e anzi mi racconta un paio di aneddoti sugli imperatori che non conoscevo. Ora, sebbene qualunque cinese incontrerete si vanterà che la sua civiltà ha 5000 anni di Storia, sarà molto difficile conoscere qualcuno che abbia una minima idea di cosa è successo in questo lasso di tempo. Dandan invece lo sa, ed è particolarmente ferrata su tutto ciò che riguarda la meravigliosa Storia del Sichuan, che poi è la provincia con la Storia più ricca, i personaggi più gloriosi ecc ecc. E’ così che mi rendo conto di avere di fronte una ragazza di un certo spessore: sarà che è sichuanese, sarà che ha studiato in Inghilterra, di fatto in molte cose sfugge all’omologazione culturale del suo Paese.

Ci fermiamo davanti a un baracchino per turisti, una specie di tiro al bersaglio con balestre di legno. Sulla parete è raffigurato sull’attenti un occidentale vestito da ussaro che, con un fumetto in cinese e rudimentale inglese, asserisce di aver inventato le armi automatiche. Alle sue spalle Zhuge Liang (诸葛亮), per i profani un cinese vestito da mandarino che agita in posa plastica un ventaglio di piume, si beffa di lui nelle stesse lingue, vantandosi di aver inventato le armi automatiche con duemila anni di anticipo sullo sciocco laowai. Esageratamente cinese.

Le armi automatiche in questione sono per l’appunto delle rozze balestre dotate di un meccanismo che permette di ricaricare i quadrelli contenuti al loro interno. Diversi cinesi provano a centrare bersagli di paglia da tre metri di distanza, riempiendo di buchi la parete che sta dietro. Il gestore mi indica con aria di sfida, invitandomi a provare. Impugno l’arma automatica e pianto tutti e sette i quadrelli nel bersaglio, uno dietro l’altro. Il gestore pare offeso, e con riluttanza mi consegna il premio, una medaglietta in finto oro raffigurante la dea buddhista Guanyin. Cina-Italia, 0-1.

Dandan mi fa i complimenti, entusiasta, e mi racconta di come suo padre, quando militava nell’esercito, sia stato campione regionale di tiro al bersaglio. La regione, per inteso, è il Sichuan, ai tempi più o meno 60 milioni di abitanti. Cina-Italia 2-1. Chiudiamo al competizione qui, che mi sa che è meglio. D’un tratto, essendo al corrente dell’abilità del padre, mi trovo molto più cauto nel trattare con la mia guida turistica.

Il pomeriggio vola, e con la scusa di provare le prelibatezze locali la invito a cena. Anche qui Dandan dimostra un’ottima conoscenza della propria cultura. Il cibo è ottimo e i sapori incredibilmente complessi. Ci congediamo sul tardi e io torno in hotel, dove incontrerò i miei colleghi cinesi arrivati da Chongqing in corriera. Mentre sto in taxi, penso alla giornata che è passata, e spero di vedere ancora Dandan prima di partire. In effetti, ho già intenzione di invitarla a cena in un ristorante italiano il giorno successivo. In hotel, i miei colleghi sono già andati a letto, e io li imito ben presto, sfiancato dalla giornata.


E’ la mattina successiva che li incontro nella hall, con la valigia in mano.

“Fate già check out?” chiedo stupito.

“Naturalmente!” è la tipicissima risposta che ricevo “Domani mattina visitiamo clienti a Xi’an. Non fai check out anche tu? Dovresti partire stasera! Ho già avvertito che lasci la camera e stavo per prenotarti quella nuova”

Panico. Pensieri veloci e turbolenti. Risoluzione stranamente rapida e decisa.

“Prenderò il primo volo domani mattina, tanto voi in treno prima delle 10 non arrivate.”

Chiedo alla receptionist di estendere la mia camera per una notte, e con una punta di strafottenza, che con i cinesi funziona sempre se si vogliono evitare discussioni sfinenti, chiudo l’argomento,

Lo stesso giorno, alle sei di pomeriggio, i miei colleghi salgono in treno e, finalmente solo, invio un SMS.

“Mi fermo una notte in più. Ti va di venire a cena con me, stasera?”

La risposta è inaspettatamente rapida: “Certo, molto volentieri”

La cena è piacevole e romantica. Facciamo una lunga passeggiata fino al mio albergo, che non è molto distante da casa di lei, e la invito un attimo in camera, perché mi sono rimasti dei prodotti che non porterei a Xi’an, e voglio lasciarli a lei. Accetta la busta e, sulla porta, ci congediamo.

La bacio sulle guance con dolcezza calcolata, poi per un secondo ci troviamo a fissarci negli occhi, sull’orlo di un precipizio. Non sappiamo se ci vedremo ancora, e se ci vedremo non sarà certo prima di molti lunghi mesi. So che Dandan non è il tipo di ragazza da one-night stand. Se la baciassi probabilmente non si tirerebbe indietro, ma a che servirebbe, se non far la figura del playboy o al limite farla soffrire dopo la mia partenza? Gli stessi pensieri ci passano nella mente per la lunghezza di un sospiro trattenuto. Poi lei fa un passo indietro, visibilmente imbarazzata.

“Allora, arrivederci”

“Arrivederci” sorrido.

La vedo andarsene, e chiudo la porta. Forse è meglio che sia andata così. Anzi, è sicuramente meglio. Eppure, qualcosa dentro me mi dice che dovrei inseguirla e baciarla prima di perderla per sempre. Mi lascio cadere sul letto, in preda a emozioni che non provavo da molto tempo, e non so che in quel momento lei, salendo sull’ascensore e schiacciando il tasto del piano terra, prova le stesse cose.

2007-01-14

I sichuanesi

Urge una parentesi socio-culturale per capire con chi ho a che fare. Essere sichuanesi non è semplicemente come essere cinesi. Così come essere napoletani non è lo stesso che essere generici italiani, o essere texani non è lo stesso che essere americani.

I sichuanesi sono diversi, anche fisicamente. In Cina del Nord la gente è alta e con i tratti forti. In Cina dell’Est sono esili come fuscelli. In Cina del Sud sono bassi, tarchiati e scuri. I sichuanesi sono bassi, con i tratti dolci e la pelle chiara. La pelle dei sichuanesi, soprattutto quella delle sichuanesi, è famosa, e in proposito ognuno ha una teoria: c’è chi dice che l’umidità e la nebbia la proteggano dal sole rendendola soffice e bianca; cìè chi dice che sia il loro cibo piccantissimo che fa sudare e purifica i pori; c’è chi dice che siano una razza a parte. Tutti concordano sul fatto che le ragazze del Sichuan siano le più belle della Cina.

Quello che i cinesi non dicono, ma che salta immediatamente agli occhi, è che in Sichuan le donne hanno le tette. Non sottovalutate la cosa: in Asia è una fortuna oltremodo rara. I cinesi dicono feijichang (飞机场), “aeroporto”; noi diciamo “tavola da stiro”; entrambi sono efficaci nel descrivere la media delle donne asiatiche. Il Sichuan sfugge a questa legge, e di tanto in tanto anche alla legge di graività. Ma passiamo alle differenze culturali, che sono ancora più profonde.

I sichuanesi sono orgogliosi. Non arroganti come gli shanghainesi, e nemmeno sciovinisti come i pechinesi. Non è un’orgoglio da cittadini verso i contadini, è un’orgoglio regionale che nasce da una tradizione storica antica quanto la Cina, e che si trasmette con un genuino e spudorato entusiasmo verso tutto quello che viene dal Sichuan.

Parlate di Deng Xiaoping, vi diranno con orgoglio che era sichuanese. Parlate di un qualunque argomento storico: vi citeranno la lista di tutte le persone importanti che venivano dal Sichuan. Parlate di cibo: vi diranno che il migliore è quello sichuanese, così meravigliosamente piccante. Di turismo: le più famose bellezze della Cina sono tutte in Sichuan, mai sentito parlare del Panda, del Monte Emei, del Tibet (un terzo dell’altopiano tibetano è parte del Sichuan, mentre il resto è diviso tra le province di Qinghai e Xizang)?

Non solo: parlando con i sichuanesi, sarete sorpresi nello scoprire solo ora che il Sichuan è la provincia con la storia più antica e gloriosa della Cina, che i sichuanesi sono la gente più ospitale e simpatica, oltre che in media più furba e di bell’aspetto. Praticamente tutti i grandi poeti, i maestri di kung fu, gli uomini politici importanti, gli eroi e gli immortali delle leggende sono tutti venuti dal Sichuan. La lingua sichuanese è la più dolce ed elegante della Cina, e forse anche del Mondo intero.

Il guaio è che mentre ve lo dicono, ci credono davvero, e qualunque cosa diciate non varrà a far cambiare loro idea.

“E’ la prima volta che sento una simile affermazione, anzi tutte le persone con cui ho parlato prima mi hanno detto il contrario” – “Impossibile, avrai capito male tu, oppure i tuoi interlocutori erano in mala fede”

“Questo libro di storia non dice così” – “Ci sarà un’errore di stampa”

“La mia guida turistica dice un’altra cosa” – “Sarà stata scritta da uno che non è mai stato in Sichuan, guarda, non è nemmeno cinese!”

Discuterci è una battaglia persa in partenza.

E’ tuttavia un fatto che una parte delle qualità decantate dai sichuanesi sulla loro patria sia vera. Il Sichuan ha una storia antica e gloriosa, è stata patria di importantissimi letterati e personaggi storici, ha una cucina famosa e apprezzata in tutta la Cina e vanta a ragione numerose attrazioni che lo rendono meta di molti viaggiatori. La stessa lingua sichuanese, che è dotata di un tono in più del cinese mandarino e risulta incomprensibile a chiunque non sia nato qui, è una lingua famosa nella produzione letteraria nazionale.

Quel che i sichuanesi tacciono, o negano anche di fronte alla morte, sono i difetti della loro patria, ovvero che il Sichuan è una delle città più mafiose della Cina, un luogo dove le guanxi decidono tutto e il soldi è ancora un mezzo per farsi belli e non un fine a sé stesso. Che verso chi è straniero, e anche con chi non è sichuanese, i locali sanno essere incredibilmente falsi e infidi, persino paragonati agli altri cinesi. Infine, che uno dei motivi per cui Chengdu è una delle prime città cinesi come qualità della vita è che i suoi abitanti sono i più pigri della Cina: a qualunque ora li vedrete seduti in riva al fiume a prendere il tè, in eleganti sale in stile tradizionale come su tavolini da campeggio. La pausa del tè è una tradizione cui viene tributato un rispetto quasi religioso, e può essere invocata in qualunque momento (eccetto che a pranzo e a cena) e per un numero infinito di volte al giorno.

Un mio cliente, che viene dallo Henan e ammette che, pur essendo cinese, ha grossi problemi a fare affari con i sichuanesi dato che tutto funziona a guanxi, descrive in modo efficace la regione in cui ci troviamo:

“I went to Shanghai, and I saw skyscrapers and world-leading companies, and lots of people with lots of money,. I went to Beijing, and I saw the history of a capital and the palaces of the Government and the Party, and there too lots of people with lots of money. Now I am in Chengdu, and I only see temples, trees and tea-houses… and still lots of people with lots of money. But I really don’t understand where the money comes from”

Questo è lo stile di vita sichuanese. Stare seduti a un tavolo a bere tè, coltivare buone amicizie, avere pasti abbondanti e regolari, fare attività fisica, dedicarsi alle arti magari. Lavorare sì, quel tanto che basta a mantenersi: il Sichuan è una regione fertile e ricca, da secoli i suoi abitanti hanno semplicemente colto i frutti della terra. In tutta la sua Storia, il Sichuan non è mai stato capitale, e non mi chiedo neanche il perché. Troppa fatica la responsabilità del potere.

Arrivando in questa terra mi rendo conto di essere arrivato nel cuore della cultura cinese, in un luogo dove l’influenza straniera non è arrivata mai. Pechino è stata conquistata da Mongoli e Manciù, il Nordest sente la vicinanza di Russia, Corea e Giappone, il Nordovest è musulmano e la Via della Seta l’ha riempito di tradizione centro-asiatiche, Shanghai e la costa sono stati terra di colonizzazione occidentale. Qui no, nel centro della Cina non ci sono state influenze esterne.

Tutte le persone che ho attorno sono genuinamente cinesi come non li ho mai incontrati, e anche la ragazza che ho davanti, nonostante abbia studiato in Inghilterra, è cresciuta in questa cultura.

2007-01-13

Viaggio in Occidente

E’ la metà di maggio quando mi preparo a compiere uno dei grandi viaggi di perlustrazione del mercato per la mia azienda, e questa volta la meta è la Cina Occidentale, quell’enorme estensione di Asia che è stato oggetto della mia tesi di laurea. Francamente non avevo mai pensato che ci sarei andato, e invece ora eccomi qui, in partenza con un trolley strapieno di completi eleganti per un periodo di due settimane che mi porterà a Wuhan, quindi a Chongqing, Chengdu e Xi’an. C’è un misto di paura e curiosità che mi attanaglia, o forse è semplicemente preveggenza dell’incontro che sto per fare, che cambierà la mia vita.

E’ un venerdì pomeriggio, e sono nel ristorante dell’Harbour Plaza di Chongqing, davanti a me lo chef francese, un tizio che a tempo perso si occupa di fare la spia per l’autorità europea dei marchi denunciando i falsari. Sì, perché qui in Sichuan falsificano tutto, se possono. Tipo che a confronto i Pechinesi sono i difensori mondiali del copyright. Lo chef è eccezionalmente arrogante, sarà che è francese, sarà che è chef, sarà che di cognome fa Dieu che non spinge ad essere umili. Mi chiede che penso di fare per il fine settimana, gli rispondo che pensavo di stare qui a Chongqing, magari provare la vita notturna, vista la quantità impossibile di bellezze che si incrociano per strada. La sua risposta è categorica, un po’ come tutte le sue sentenze:

“Ho vissuto tanti anni a Chengdu: mia moglie è di Chengdu. Vai lì: la città è bella, il clima è migliore, il cibo è più saporito e le ragazze sono più dolci e belle”.

Accetto con umiltà il consiglio di un veterano, e il giorno dopo salgo la scaletta di un piccolo velivolo che, di lì a un’ora, mi porterà nella capitale del Sichuan. Dal taxi la città sembra senz’altro carina: verde, relativamente pulita e senza grossi grattacieli; qua e là spunta qualche tempio o pagoda. E’ quasi il tramonto quando arrivo in albergo, e solo allora mi ricordo di una cosa fondamentale. Tingting.

Tingting, la mia amica di Shanghai che viene da Chengdu. Le telefono: “Ciao Tingting, sono a Chengdu! Non è che conosci qualcuno che mi possa portare in giro a vedere qualcosa? Che so: ristoranti, bar, templi… va bene qualunque cosa, ho la domenica libera”.

Tingting si prende una mezz’oretta per organizzarsi e poi mi richiama, passandomi un numero di telefono, quello di una sua cara amica, compagna di liceo, e un nome. Chiamo il numero, voce di donna che parla un buon inglese:

“I am sorry, I hadn’t time to prepare, I have a dinner with some colleagues tonight. But we may meet later, so I can show you a around a little bit”.

“Non sono fortunato” penso. Ceno solo al ristorante dell’Holiday Inn, e poi mi siedo in attesa su una delle poltrone della hall. Davanti a me passa una serie di strani personaggi in abiti di dubbio gusto, invitati a un’esclusivissima festa organizzata da Vogue China. “Non sono fortunato” penso ancora, quando quindici minuti dopo l’appuntamento il mio contatto non si è ancora presentato, e io comincio a sbadigliare.

E poi, entra una ragazza. Arriva al centro della hall, si guarda attorno, estrae un cellulare. E il mio squilla.

E’ così che faccio la conoscenza di Dandan.

2007-01-06

Fiaba Moderna Pechinese

Irene viene da Perugia, come tradisce la sua inconfondibile calata. Da quando è venuta a Pechino, un anno prima, ha cambiato quattro appartamenti, ai quattro angoli di Pechino. L’ultimo si trova nei pressi di Dongzhimen, vicino alla stazione dei pullman che vanno verso Shunyi, perché è lì che finalmente ha trovato lavoro, un lavoro da manager di un’enoteca, il Palette Vino.

Il locale sta al Pinnacle Plaza, il centro della Zona di Sviluppo di Tianzhu dove negli ultimi anni stanno crescendo compounds su compounds di ville all’americana, con due piani, terrazzo, taverna, giardino per il barbecue e chi più ne ha più ne metta. Entro i muri del compound sembra di stare in America – prati tagliati perfettamente, gente sorridente, guardie ovunque. Fuori, la campagna Pechinese buia e polverosa.

A Tianzhu ci sono famiglie con i soldi, ed ecco spuntare supermercati, ristoranti, bar. Irene ne gestisce uno, uno dei più carini a dir la verità. E’ veramente rilassante passarci un pomeriggio a godersi il sole nel patio, o una sera con un bel calice di vino rosso italiano in mano.

Irene è una delle persone che mi sono rimaste più vicine a Pechino, e nonostante sia superimpegnata, lavorando la sera, la sento tutte le volte che sono in città. Una di queste volte, per l’appunto, mi invita al locale per un wine tasting. Ci vado direttamente dal lavoro, ancora in giacca a cravatta.

Mi accoglie Irene tutta elegante e mi presenta i suoi colleghi – il titolare, John, e il giovane Stephan. John è un tipo peculiare – testa completamente rasata, vestiti eleganti, modi sofisticati, ottimo inglese, e occhi sottili sottili da satiro; con il suo naso quasi a punta e il sorriso largo fa venire in mente i dipinti delle orge di Bacco, e il fatto che abbia un’azienda di distribuzione di vini non fa che rafforzare l’immagine. Non pare nemmeno cinese, né dai modi né dai tratti, ma quest’ultima cosa si spiega col fatto che suo nonno era tibetano. Stephan è rosso, tarchiato e con gli occhialini tondi, marcatissimo accento tedesco: la sua famiglia ha una cantina da qualche secolo, lui promuove il suo vino in Cina e collabora con John. Con tono puntuale e preciso illustra le proprietà di una serie di Merlot a una piccola folla di curiosi, che include me, Irene e altri due suoi amici, una ragazza tedesca dai capelli rossissimi e Jason. Jason è un altro personaggio, un cinese del Tenessee. Il che vuol dire pelle gialla, occhi a mandorla e fisico da quarterback. Cosa può fare uno come lui? Semplice: il manager del Top Bar in Sanlitun e l’organizzatore delle feste più malate in città. Si vanta di stare lavorando a uno schiuma party nel suo locale, e a una festa di Sanlitun, che coinvolga TUTTI i bar e si svolga in strada. “Sarebbe fantastico” dice, scuotendo la testa “ma il governo non ci darà mai l’autorizzazione”. Me la immagino Sanlitun all’alba, un campo di battaglia coperto da bicchieri rotti, cicche di sigarette, inglesi ubriachi e papponi che ancora cercano clienti.

Al termine del wine tasting, perlatro molto interessante, noi quattro ci si sposta nel patio, sui comodi divani attorno al tavolino di legno, per ammazzare ciò che rimane delle bottiglie non finite. Quando salta fuori l’argomento taxi, allora Jason tira fuori il meglio di sé, perché la sua vera vocazione è quella del cantastorie:

“Una sera ero ad un party” racconta “ed avevo bevuto un sacco. Così vado al cesso, e mi accorgo nel corridoio cè una porta aperta che dà sul cortile sul retro. Nel cortile c’è un taxi. Luci accese, motore acceso, nessuno a bordo. Incuriosito, mi avvicino, e mi accorgo che le chiavi sono ancora dentro. Così, dopo essermi guardato attorno, mi siedo al posto di guida, chiudo la portiera, ingrano la prima e parto”

E’ qui che si riconosce la stoffa dell’eroe, nel coraggio di esaudire il sogno di ognuno di noi, ovvero stare dall’altra parte dello sgabbiozzo della Xiali, mangiarsi le parole, ringhiare, sputare, grattar la marcia, insultare gli altri autisti, lamentarsi un po’ di tutto e chiamare tutto ciò lavoro. Chi non pagherebbe un mese di stipendio di un tassista per poterlo fare almeno un’ora?

“Dove vado adesso? Non lo so, imbocco il Secondo Anello Nord, e lo percorro. Le luci di Pechino mi passano a destra e sinistra. Ascolto il rombo del motore. Ci sono poche macchine attorno a me, la strada è mia.

“Dopo un po’ però mi stufo di guidare lungo il Secondo Anello. Cosa posso fare? Ho un taxi… e laggiù vedo una ragazza a bordo strada che agita la mano. Accosto, la faccio salire.

“‘Qu naaar?’”

Ed è anche da questo che l’eroe viene fuori. Non gli basta essere alla guida di un taxi, vuole andare oltre e caricar passeggeri. E siccome ha la faccia cinese, riesce credibile, il bastardo.

“Per fortuna avevo una vaga idea del posto in cui lei voleva andare. Tiro giù il fanalino del tassametro e parto. Raggiungo il luogo dopo qualche minuto. La ragazza scende, mi allunga i soldi della corsa. Tiro su il fanale del tassametro e metto i soldi in tasca, con soddisfazione. Li ho conservati, quei soldi, ce li ho ancora.

“Comincia ad essere tardi, e ho voglia di tornare alla festa. Così inverto a U, torno al locale, e sulla strada vedo un tizio terrorizzato che tenta di fermare tutte le macchine che passano. Dev’essere il tassista. Facendo finta di nulla, mi immetto nel viale del palazzo ed arrivo al cortile sul retro. Scendo dalla macchina, lascio le chiavi dentro e il motore acceso. E torno alla festa”

Non lo so se questa storia è vera, ma anche se non lo è, è troppo bella per non essere raccontata. E’ una fiaba moderna, un sogno che diventa realtà.

Con diversi bicchieri di Merlot in corpo e la cravatta slacciata, saluto tutti e mi dirigo verso il mio hotel. Il taxi corre lungo la Jingshun Lu, le luci dei lampioni che corrono veloci su di noi. Chiudo gli occhi, e cullato dal vino sogno anch’io di essere al volante di una Xiali, e correre lungo il Secondo Anello Nord.

2006-12-22

Addio al Mito della Strada

Oltre che per la notizia del mio trasferimento, il 1° maggio 2006 è importante per un altro evento a Pechino, ovvero la riforma dei taxi. Questa riforma lanciata dal governo copre tutto il Paese, in generale rivoltando il sistema dei taxi e aumentando le tariffe secondo l’inflazione delle grandi città. Pechino è la città colpita dalla riforma più profonda.

Il sistema dei taxi a Pechino prima di questa data era quantomeno peculiare: tre livelli di tariffe dipendenti dalla qualità della macchina e, in generale, dalla professionalità del tassista. 2 RMB al km per le macchine nere, grandi audi o BMW con vetri oscurati e autista con guanti, le auto dei veri dakuan (大款), i nababbi. Poi i taxi standard, le vecchie Santana e Citroën rosse o le nuove Sonata ed Elantra a strisce, da 1,60 RMB. E infine il Mito della Strada, l’intramontabile e indistruttibile Xiali, da 1,20 RMB. Tariffa fissa 10 kuai per i primi cinque km. La macchina dei tassisti sordidi e ringhiosi. La macchina dei passeggeri squattrinati, degli studenti, dei free-lance, quella che si cercava sempre sulla strada e quando si fermava un taxi costoso lo si mandava via. “Mica ho soldi da buttare, io”.

Le Xiali TJ7100 entrò in produzione a Tianjin, nella fabbrica della Tianjin Xiali (天津夏利), nel 1990, modello copiato spudoratamente dalla Daihatsu Charade (pare su licenza regolare della Daihatsu). L’anno seguente venne presentata la berlina TJ7100U. Immediatamente di grande successo, la nuova automobile divenne ben presto una delle macchine più vendute nella storia cinese, la macchina del Popolo, accessibile alla nuova classe media (al momento se ne possono trovare a 4000€ nuove di pacca), acquistata da numerose città – tra cui Pechino – come taxi standard, ed negli ultimi anni esportata persino in Siria e nelle Filippine.

La stragrande maggioranza delle Xiali di Pechino erano taxi rossi, in armonia con i colori della città. Qualcuna si permetteva un arrogante rosso metallizzato. Qualche raro gagà poi si sbizzarriva, ed ecco le rarissime Xiali azzurre metallizzate. Ma il top dei top, la Xiali della Malasorte, era la Xiali viola metallizzata, la macchina più kitsch del mondo. Ero sempre alla ricerca di quella, per fare l’alternativo. Quando rimediavo l’agognato passaggio, metà delle volte il tassista era ubriaco e puzzava di baijiu, in alternativa puzzava d’aglio e sbagliava strada. Mai una volta che mi sia riuscito di sfatare l’aura di sfiga che circondava la Xiali viola.

Ebbene, dal 1° maggio 2006 le macchine nere da 2RMB/km diventano i taxi standard. Ciò significa che tutte la Santana, le Sonata e le Elantra alzeranno le loro tariffe del 25% in una botta sola, trasformando Pechino da una delle città più economiche a una delle più care in quanto a taxi. Ma soprattutto, la riforma condanna a morte le Xiali da 1,20 RMB, che non potranno più circolare.

E’ un giorno di lutto per Pechino, un giorno di lutto per chi ha pochi soldi in tasca, e deve pagare una fortuna i taxi, e per chi semplicemente amava il Mito della Strada, la Macchina del Popolo, l’indistruttibile, strettissima, odorosissima, polverosissima e scassatissima Xiali.

Ci mancherai, piccolo mostro della strada. Ci consola il fatto che con la tua dipartita l’aria di Pechino sarà un po’ più pulita grazie ai nuovi modelli catalitici, e la sicurezza che il tuo spirito ancora vive nei taxi di Tianjin, e nelle strade di Damasco, Manila, e chissà quali altri Paesi nel Mondo.

Un ganbei per te, e per la tua memoria!

2006-12-14

1° maggio 2006

E’ il primo di maggio del 2006, e sono a Nanchino per un meeting con il mio capo. In Italia si fa vacanza. Anche in Cina si fa vacanza, la Festa del Lavoratore è internazionale, e in Cina c’è un’intera settimana di vacanza. Ma per noi no, si lavora anche oggi, peraltro senza alcuno straordinario pagato, e ci tocca pure ringraziare. Questa la logica dei brianzoli…

Ma non sono arrabbiato, anzi. Perché oggi gioco la mia carta. Alla fine del meeting, quando il mio capo sembra di buonumore, getto la mia mano a lungo preparata. “Siamo in due a Shanghai, vado una volta al mese a Pechino, ma il tempo per seguire il mercato non basta, e inoltre è una spesa ingente per l’azienda… credo sarebbe proficuo il mio trasferimento”

La risposta è veramente insperata: “Va bene, se pensi sia così, organizzati e parti quando vuoi”

Mi prendo qualche mese, per concludere qualche cosa a Shanghai ed esaurire il contratto con la casa. Non mi sembra vero, è talmente bello che non ho nemmeno fretta di partire, quasi voglio gustarmi lungamente l'attesa. Decido la data: il 5 agosto lascio casa a Shanghai, e la sera stessa entro in casa nuova a Pechino. Ormai è fatta: poker d’assi, il banco sbanca.

E io mi preparo alla partenza.

2006-12-08

Le Birre Cinesi

La Cina, come ormai quasi ogni Paese al mondo, offre una selezione di birre locali più che interessante. La birra non è una bevanda tradizionale, ma venne portata dagli europei nel XIX sec.. Quando gli europei strapparono le concessioni all’impero e impiantarono le loro colonie, spesso si assicurarono la produzione di beni necessari alla sopravvivenza, ed è così che nacquero le prime birrerie della Cina. Fatto poco conosciuto, la più antica birra cinese è la Hapi (哈啤), impiantata ad Harbin dai russi nel 1900; segue la Tsingtao (青岛), probabilmente una delle birre più vendute al mondo, impiantata nel 1903 dai tedeschi. Questa la si trova dappertutto, dalla bettola di Shanghai al cantonese di San Francisco al wenzhounese di Milano. Più recenti sono la Snow Beer (雪花啤酒), una delle più economiche, e la Reeb Beer (力波啤酒), quella col nome più idiota; più decine di altri marchi minori. Anche Pechino ovviamente ha le sue birrerie: la storica Yanjing (燕京), la birra tradizionale di chi mangia yangrouchuan’r per strada, birra sponsor delle Olimpiadi del 2008, e la Beijing (北京啤酒).

Birra in cinese si dice pijiu (啤酒), jiu è alcolico, pi semplicemente suonava simile a beer, anche se qualcuno sostiene che in tempi antichi significasse "umile" o persino "di poco valore". La traduzione non casca malissimo, visto che la birra è oggi la bevanda di massa che uniforma tutti - non è tradizionale come la baijiu, non è elegante come il vino, e nemmeno costosa come il whiskey o la vodka; costa poco, è disponibile ovunque, è giovane e moderna o almeno così la fa sembrare il marketing. Il secondo mercato al mondo per la birra, che presto diventerà il primo considerato il ritmo con cui i cinesi aumentano le loro abitudini alcoliche, abbassando il prezzo unitario e aumentando la spesa complessiva (in altre parole, meno qualità, più quantità), attrae anche i grandi giocatori internazionali: c’è l’americana Budweiser, l’olandese Heineken, la danese Carlsberg, le giapponesi Asahi e Suntory, tutte con un marketing ancora più aggressivo e spudorato dei concorrenti locali, un marketing che tappezza ristoranti e metropolitane di gente felice che beve birra a tutte le ore. Ma non li criticheremo, quest'oggi, visto che succede ben di peggio con i superalcolici.

Il gusto asiatico è diverso da quello europeo, tuttavia, e nonostante l’ampia offerta di marchi praticamente tutte le birre sono lager, bionde dalla gradazione alcolica che varia dal 3% al 4,5%. Qualcuna è più dolce, un'altra più amara, ma la sostanza è quella. Ecco allora che sono nate le birre della nuova generazione, le scure: i primi sono stati quelli della Xinjiang Beer (新疆啤酒): il Xinjiang, regione musulmana della Cina, è apparentemente il produttore di massima qualità di alcolici del Paese. A fianco alla classica lager, peraltro una delle migliori, la Xinjiang Beer ci mise la heipi (黑啤), la birra nera. Gli stranieri ci si buttarono sopra, al punto che adesso anche la Tsingtao ha fatto uscire una versione scura, in bottiglia singola, e ancora difficile da trovare data la diffidenza del mercato. E sapete cosa? Sarà la noia della lager, ma le scure cinesi sono proprio buone: a quando le prime rosse?

Certo va detto: se siete abituati all’Europa la birra cinese non vi piacerà; in molti la definiscono “piscio freddo”. Questo offre il mercato, se non vi va c’è sempre la Hoegaarden importata al triplo del prezzo. Ma se volete un consiglio, andate a cercare una catena di ristoranti chiamata Goubuli (狗不理): hanno diversi locali a Tianjin e uno a Pechino. Hanno una birra fatta apposta da loro, a loro nome, e costa il doppio di una birra normale. Be’, che ci crediate o no, quella è fatta in Cina, eppure è buona, la birra cinese più buona che ci sia.

2006-12-01

Eravamo quattro amici al bar

Un lato meno conosciuto di Sanlitun sono i suoi baristi. Nelle strade laterali della jiuba jie sono sorti numerosi ristoranti e bar aperti da stranieri, e i proprietari/gestori costituiscono una piccola comunità fissa della zona.

Quelli che più spesso vedo sono tre, tre amici che spesse volte, abbandonando il proprio bar prima o dopo l’ora di chiusura, vanno a cercare gli altri per sedersi al banco o a un tavolino e chiacchierare e bere insieme. Tre amici inseparabili. Sasha è stato già nominato, serbo di Belgrado che certe volte pare uscito da un film di Kosturica. Nelle competizioni dalla sua ha il tempo atmosferico, nel senso che il suo bar è all’aperto e a stare tutto il giorno sotto il sole o al freddo si smaltisce di gran lunga meglio.
Poi c’è Luigi, veneto di Verona, che ha aperto una gelateria nella parte nord della jiuba jie. Dalla sua ha la stazza fisica, che è ragguardevole.
E infine Stefano dell’Aperitivo. Se sei un italiano a Pechino e non conosci Stefano, vuol dire che non hai idea di dove sei. Tutti lo conoscono, perché è nel suo locale che tutti gli italiani vanno. Stefano è quello che ha importato lo spritz in Cina, e per questo è anche finito sul Corriere della Sera. Dalla sua ha l’origine: anche lui veneto, sì, ma delle parti di Bassano del Grappa, e ho detto tutto.
Li incontro spesso nelle sere infrasettimanali, specialmente d’estate, dopo la chiusura del Kiosk che avviene attorno alle nove e mezza, li si trova a un tavolino con una heineken davanti, a parlare del più e del meno, con Stefano che si accalora sui mali del mondo e Sasha che sorride senza parlare, come uno che sa qualcosa che gli altri non sanno.

Poi c’è Vivi, brasiliana con un sorriso che è un mattino di sole sull’Oceano. E’ lo chef dell’Alameda, uno dei ristoranti fusion più di successo della città. E lei è una delle uniche chef donne di Pechino. La si vede passare per la strada del Nali Mall di tanto in tanto, e non c’è una volta che non sembri felice, e mette allegria a tutti quelli che la vedono.

Poi c’è Carlos, un basco venuto a Pechino per aprire un bar di tapas; quando ha fatto successo ha anche aperto una paninoteca più in su. Scurissimo di pelle, con gli occhi nerissimi, porta un po’ di Spagna in Sanlitun con il suo accento marcatissimo. Con lui lavora Raul, un ragazzo giovane venuto dalle Canarie a Pechino per seguir la fidanzata cinese. Alto, scuro di carnagione, lineamenti scolpiti e fisico asciutto, e abito impeccabile in ogni momento, mai una volta che si sfili la giacca o la cravatta. Precisissimo e sempre gentile, il manager ideale di ogni ristorante. Sotto il Tapas c’è un banchetto tipo pescheria, coperto di ghiaccio e con una melanzana, un cespo d’insalata, un pesce e un pezzo di carne, o altre cose a variare ma mai più di quattro o cinque. Dietro il banco uno straniero sui quarant’anni in maglietta bianca e bandana in tesa, nazionalità indefinibile, sorriso. Sta tutto il giorno dietro il banco, mai visto un cliente da che vado in Sanlitun. E lui sorride.

Nella parte sud di Sanlitun c’è il nuovo Bookworm (il primo, dietro al Poachers, si è trasferito di fianco al mercato di Yashow per un anno, prima di spostarsi di nuovo più a sud a causa della distruzione in corso di Sanlitun), con il suo ex barista italiano che poi è finito a fare il manager del ristorante più pettinato della città, Santo. Santo mi chiama nel 2005 per chiedermi di vendergli pasta a Pechino. Io vendo formaggio a Shanghai, ma siccome è italiano gli faccio un favore, e alla fine per vie traverse la DeCecco gli arriva al ristorante. E’ arrivato dalla Puglia, Santo, passando per il Sudamerica e qualche altro posto non di strada, capello lungo raccolto in una coda, barba incolta e occhialino tondo. Vien da chiedersi che ci fa a Pechino uno così, ma d’altra parte ci si dovrebbe fare la stessa domanda un po’ per chiunque da queste parti. Santo è manager, ma la proprietaria è Alexandra, per gli amici Alex: attempata signora britannica, biondissima e con occhi azzurrissimi. Arrivata a Pechino nel 1991, ci s’è fermata e ha aperto un bar, poi una biblioteca in lingua inglese (il Bookworm appunto), poi s’è fatta prendere la mano e adesso ha quote societarie in tutti i ristoranti più fighi e di successo di Pechino. E quindi può lasciarli in mano a vari manager mentre lei si dedica alla sua passione, la letteratura appunto.

E’ una fauna strana che s’incontra in Sanlitun. Gente che per qualche motivo ha deciso di aprire un piccolo angolo dall’altra parte del mondo per trasformarlo nel proprio sogno, il locale ideale. Molti ci sono riusciti, e questo basta a giustificare il tutto e frenar domande superflue. Just because.

2006-11-27

Puttane

Come in tutti i Paesi in rapido sviluppo, caratterizzati dalla presenza di gente ricchissima e gente poverissima, la Cina ha un’industria della prostituzione a dir poco fiorente. Avendo a che fare con i miei compatrioti, tradizionalmente clienti assidui dell’industria in tutto il mondo, riesco a farmi una buona cultura in merito. Secondo le voci, il principale centro della prostituzione in Cina è Shenzhen, appena oltre il confine cinese e davanti a Hongkong – gli hongkongini ci fanno il weekend a Shenzhen, che costa poco – e poi ci sono Xi’an e Shenyang. Ciò non toglie che tutte le città cinesi, grandi e piccole, siano strapiene di luoghi che offrono servizi di compagnia femminile di ogni prezzo e livello.

Va detto che, in una cultura dove la moglie è l’angelo del focolare e dedita in tutto e per tutto all’uomo, in cui le relazione extramatrimoniali quando scoperte finiscono in omicidio, in cui il sesso pre-matrimoniale è mal visto, in cui una gran parte della popolazione delle grandi città è composta da emigrati che tornano dalla famiglia una o due volte l’anno, e in cui l’etichetta impone che al cliente si paghi non solo la cena, non solo l’alcool, ma anche la compagnia, la prostituzione è una necessità più che un piacere.

Poiché a puttane in Cina ci vanno praticamente tutti i maschi, i servizi di prostituzione variano in modo significativo secondo il reddito della clientela. I migranti vanno in piccole botteghe di periferia, mascherate da parrucchieri o saloni di bellezza, illuminati da luci al neon rosa o violette, quelli che gli italiani chiamano familiarmente “prontopompa” o “prontosega”. Nel retro ci sono alcove con poltrona in cui i vari servizi vengono offerti per prezzi che variano dai 50 ai 200 kuai. Poi ci sono i veri e propri bordelli, con tanto di camere – buie e sudice per i meno abbienti, enormi, con frigobar e televisione al plasma per chi può permetterselo. Ci sono poi le saune, con i loro servizi di massaggio e cura della pelle. E i karaoke, ideali per gli incontri d’affari, dove una volta prenotata una saletta privata, una decina di ragazze si presentano in fila e i clienti le scelgono, con possibilità di mandarle tutte fuori e farne rientrare un’altra decina. E qui i prezzi vanno su, dai 300 fino ai 1000 kuai o più, soprattutto se la ragazza è mongola, russa o comunque esotica.

Quello che stupisce gli occidentali non è tanto la diffusione del fenomeno e l’assoluta normalità con cui gli uomini cinesi ne parlano – per loro andare a puttane è normale quanto andare al ristorante o in piscina – ma è l’attitudine che c’è. Le ragazze sono di compagnia, chiacchierano, scherzano, bevono col cliente, cantano al karaoke, giocano a dadi, massaggiano. Il rapporto sessuale non è scontato, si paga a parte e tante volte non viene nemmeno richiesto dal cliente. Quel che i cinesi cercano è la compagnia di una bella ragazza che li faccia sentire uomini. E per questo pagano dei prezzi che, confrontati al loro stipendio, sono folli.

Le ragazze che esercitano sono tipicamente bellezze venute dalla campagna. Abbandonato il loro misero impiego di operaia, maestra elementare, cameriera, prendono il treno per la città e cercano direttamente lavoro in uno dei tanti locali dell’industria – karaoke, sauna, prontopompa. Guadagnano bene, molto bene, per quel che fanno. Non sono schiave, ma impiegate di alto livello. Pulite, coscienti, controllate, spesso svolgono la loro attività per qualche anno, poi tornano a casa nella campagne e con i risparmi che hanno accumulato aprono un negozio, un ristorante, una piccola azienda. Belle e ricche, non hanno difficoltà a trovar marito, un marito buono e fedele che esegua i loro ordini come si conviene. Viaggiando nelle campagne cinesi, non è raro incontrare questi personaggi, che si riconoscono molto facilmente dall’atteggiamento aggressivo e dominante, diametralmente opposto a quello delle ragazze tradizionali.

La prostituzione ha così un ruolo importantissimo non solo nell’economia urbana, per i volumi di soldi che fa girare, ma anche nell’economia rurale, grazie alla creazione di attività da parte delle “giovani pensionate” e nuove imprenditrici. Ciononostante la prostituzione è ancora illegale in Cina, e pesantissime pene sono previste per chiunque sia coinvolto in una simile attività. Come tante cose in Cina, è vietata ma si può fare, con discrezione.

Pechino da questo punto di vista è piuttosto tranquilla. Nel 2001, un enorme scandalo fece tremare gli alti livelli del Partito: il proprietario di un famoso karaoke, ospite di importantissime figure istituzionali, aveva pensato bene di installare telecamere ovunque come assicurazione per il futuro. Dalla sua posizione, poteva ricattare chiunque. La cosa finì male, e alla fine di quell’anno i filmati dei papaveri di Zhongnanhai in compagnia di giovani ragazze finirono negli uffici dei più importanti media. La prostituzione, beninteso, è considerata normale ma se ne può parlare solo in ambienti molto intimi e tra uomini – un atteggiamento tipicamente asiatico. Lo scandalo fu immediato, la reazione politica violenta, tante teste saltarono e da allora a Pechino la prostituzione è molto più attenta in quello che fa. Ce n’è quanto prima, senza dubbio, ma non viene più spiattellata in faccia ai passanti, come ancora avviene a Shenzhen, a Xi’an, a Shenyang.

A questa regola esiste un’eccezione – Sanlitun. Perché tanto lì sono laowai, come si fa a correggere quei viziosi? E’ una battaglia persa in precedenza. Come? Anche i cinesi ci vanno a Sanlitun? E i cinesi sono i clienti principali delle xiaojie? Non è possibile, vi sarete sbagliati. Le signorine sono lì per i laowai, poi non è che la polizia può controllare tutto…

“Halooo ssi! Sekesi sekesi leidi ba… aah, masaji fu yuo, pulisa hewa luka!!!”

2006-11-24

Pechino dieci anni dopo

Francesca ha studiato con me a Milano al Business in China. Nata in Costa d’Avorio, ha vissuto nel Gansu, a svariate ore da Lanzhou, per qualche anno, poi si è spostata a Pechino, quindi a Singapore, infine a Trieste. Ora vive a Shanghai, ma rimane comunque una friulana D.O.C.. Ogni tanto io e lei parliamo di Pechino, dei nostri ricordi, dei posti che entrambi conosciamo e che ci mancano – l’Hard Rock Café, il Lufthansa Centre, la zona delle ambasciate… e lei mi chiede un favore, la prossima volta che passo per Pechino. Andare al Lido e fare delle foto, per vedere com’è cambiato il compound dove viveva. Ci rimane male quando le dico che, per me, il Lido è il quartiere che sta attorno all’Holiday Inn Lido, un quartiere che ospita qualche milione di persone.

E poi capita che venga per lavoro a Pechino anche lei, in un momento in cui ci sono anche io. Guarda con stupore e malinconia a tutto quello che è cambiato, eppure riconosce alcuni luoghi come quelli della sua adolescenza, e mi racconta di quando non c’erano bar dove andare, e lei e i suoi amici rubavano la macchina di un ambasciatore, il padre di uno dei ragazzi, e a 16 anni se ne andavano per la Chang’an Jie senza che nessun poliziotto osasse fermare una targa diplomatica. O quando facevano battaglie con fucili ad acqua in Tian’anmen inzuppando tra le altre cose anche le guardie militari.

Per cena la porto a Houhai, di cui ha un ricordo vago. Ci sediamo al Buddha Bar, e ci portano un menu da una ventina di pagine scritte fitte fitte in caratteri cinesi.
“Non avete un menù in inglese?”
Il proprietario annuisce con tipico stupore cinese, come uno che ha imparato una cosa interessante, e ce ne porta uno, di due pagine. Lei sceglie prosciutto di Parma e melone, solo per curiosità di sapere se è vero o falso. Il prosciutto è vero, solo che tutto il piatto è abbondantemente condito con olio d’oliva. Un musicista cinese suona la chitarra in un angolo, una canzone rock in cinese. Tutte le rive del lago, un tempo vuote, sono ricoperte di locali, la cui età è indirettamente proporzionale alle dimensioni e alla rumorosità. Pechino è cambiata tanto, tanto sì.

2006-11-22

Droghe

Una spiacevole scoperta che faccio nel marzo del 2006 è che a Pechino gira una quantità incredibile di droghe. Che ci fossero lo sapevo, ma fino a questo momento il mio contatto era stato solo con l’hashish. Ora comincio a conoscere gente che si fa d’altro. Finché si tratta di espatriati che si fanno una canna, non mi turbo particolarmente, ma quando incontro manager cocainomani, giovani sinologi che si fanno di crack, contadini piegati dall’eroina, impiegati cinesi rampanti che prendono stimolanti forniti dal loro capiufficio, nonché ravers che s’impasticcano, la cosa mi infastidisce non poco. Il mercato cambia, i soldi girano, la popolazione cade nella dipendenza da sostanze stupefacenti. E’ un segno dello sviluppo.

Tra la popolazione straniera non esiste praticamente alcun freno alla circolazione di sostanze stupefacenti: “volete drogarvi, cari laowai? Bravi, fate pure che tanto non si corregge mica la vostra attitudine razziale al vizio”.

Tra la popolazione cinese i controlli sono più duri. Ma anche se la legge prescrive pena di morte in abbondanza per qualsiasi crimine legato alle droghe, l’applicazione delle norme come sempre è una storia diversa. E mentre i laowai viziosi quantomeno hanno idea degli effetti di quello che prendono, i cinesi non ne hanno. La droga è tabù, non se ne parla, e per il cinese medio hashish ed eroina sono la stessa cosa. Provata la prima e scoperto che dopotutto non trasforma immediatamente in zombie malati come si dice, le altre seguono a ruota. E’ così che tanta gente si rovina, per mancanza d’informazione.

Sarò moralista, forse ingenuo nello sperare che in Cina queste cose non accadano. Invece, anche in uno stato autoritario dove la polizia non ha le mani legate, la droga gira, e anzi la corruzione nelle forze dell’ordine è uguale come da noi in democrazia, se non maggiore. La cosa peggiore è la generale accettazione che la gente che ho attorno ha per il fenomeno: normale, sono cose che succedono dappertutto, non è che la Cina sia il Paese dei Balocchi. Forse il modello di sviluppo capitalista non funziona senza droghe: per portare avanti questo sistema, abbiamo bisogno di sostanze che facciano lavorare di più chi comanda e tengano buono chi esegue. Stimolanti e narcotici, la soluzione della chimica ai limiti della genetica.

Lode al Paese di Mezzo che prende il posto che gli spetta tra i grandi signori dell’economia mondiale. Poi mi vengono a parlare di “Via Cinese al Capitalismo”.

Sarò superficiale, ma a me fa schifo uguale.

2006-11-21

Red House Hotel

Ritornando a Pechino nel 2006, dopo sei mesi di assenza, sono contento di trovare le stesse persone conosciute l’anno prima. Marco lavora sempre per la solita azienda, Luca, un altro compagno di corso, è entrato anche lui in Birindelli insieme al buon Stefano, Linda è in Camera di Commercio. Le due ragazze italiane conosciute per strada a maggio dell’anno prima, stagiste in Camera, ora si sono spostate: Luisa sta in un’azienda meccanica, e Irene è diventata manager di un’enoteca nel distretto di Shunyi.

Ogni volta che torno a Pechino sto al solito hotel, la Red House, aperta dagli stessi proprietari del Poachers. C’è la stessa atmosfera, oltre che lo stesso arredamento, sebbene le camere qui siano dotate di servizi privati. Anche la pulizia è sempre la stessa, ma la cosa più sorprendente è che anche la colazione, servita nel vicino Club Football, locale gestito sempre dalle stesse persone, è la stessa: vassoio con fette di pane tostato, porzione monodose di burro, porzione monodose di marmellata alla fragola, uovo, fetta quadrata di spalla cotta, bicchiere di succo di mela. Non è cambiato nulla. Discutendo con quelli delle cucine riesco a farmi servire un caffè: è un caffè all’americana, fatto con la polverina mescolata all’acqua calda del thermos, ma è una bevanda alternativa, e dunque ben accetta.

Ogni volta che torno a Pechino è una serie di uscite con amici, una cena di qui, una bevuta di là, Sanlitun, Houhai, la vita è sempre quella, e la mia città non manca mai di darmi il benvenuto con qualche festa. Tutto ciò mi prepara al mio prossimo trasferimento, davvero non vedo l’ora di diventare cittadino di Pechino.

2006-11-19

Nuova possibilità

Arriva ottobre, e il mio contratto scade. Cerco lavoro, ma non lo trovo – soliti complimenti per il curriculum, promesse su promesse e mai nulla di fatto. Un paio di sere prima della mia partenza saluto Laura, una ragazza tedesca conosciuta la settimana prima, e che non vedrò probabilmente mai più. E’ questo il triste destino di chi è sempre in viaggio, come me e lei. Nel suo minuscolo appartamento da studente nella zona periferica di Hongkou, condiviso con un ragazzo coreano, mi consegna una cartolina, ricevuta da suo zio anni prima: è una foto del Palazzo d’Estate di Pechino, scattata negli anni ’70, con il grande parco quasi vuoto e i colori brillanti e artificiali delle pellicole vecchie.
“Ti auguro di arrivarci un giorno, presto” mi dice.

Con questo augurio torno in Italia, l’affitto della casa esaurito, nessun lavoro, nessun soldo i tasca, esiliato di nuovo e sempre lontano dalla mia meta. Ma a gennaio del 2006, finalmente, qualcosa si muove grazie alle mie guanxi e un po’ di fortuna, e un’altra azienda alimentare mi spedisce in Cina. Insieme a me è stato assunto un mio ex compagno di corso, Gianluca, e ci occuperemo di vendite in quel di Shanghai.

Ma i miei piani sono diversi: che bisogno c’è di due persone nella stessa città? Nella spartizione delle competenze ho cura di lasciare a lui le aree migliori e più ricche, ovvero Shanghai e il Sud, e io mi prendo il Nord e l’Ovest, decisione coraggiosa e importante per il mio futuro. E poi, dopo aver creato una buona base di clienti in loco, chiederò il trasferimento nella mia Pechino, ben più comoda e razionale per le vendite nell’area di mia competenza. Mentre lavoro al mio piano, visito ancora Pechino con frequenza mensile. E guardo sempre la cartolina datami da Laura, che ora si è trasferita all’università di Xiamen, sperando che mi porti davvero fortuna.