2006-10-07

Addio

E’ tempo di partire. La penultima sera dormo a casa di Jingyi. Al mattino usciamo presto. Michiko, la coinquilina giapponese, è ancora in camera, io Jingyi e l'altro coinquilino Joey scendiamo nelle strade nella luce grigia del mattino. Loro prendono il bus verso l’ufficio, io un taxi verso Poachers. Nonostante tutto la differenza tra me e loro si nota ancora nello stile di vita, o forse non è una questione culturale, ma una puramente economica.
 



L’ultima sera, il 18 aprile 2003, la passo a casa di Alberto e Yao; ci sono Sasha e Patricia, c’è Loredana. C’è Jingyi e ci sono io. Le nostre mani si stringono come sempre, al mio anulare un anello tibetano come una catena, appartenuto a lei; al suo pollice un anello tibetano, con il mantra “Om mani padme hung”, il mantra della completezza, appartenuto a me. Ce li siamo scambiati un giorno, dopo aver fatto l’amore. Sono anelli aperti, con una breccia nel cerchio; non sono fatti per legare. Sono il simbolo del nostro rapporto.


Verso mezzanotte sono tutti stanchissimi, molti dormono sulle poltrone dopo una giornata intensa di lavoro. Non li sveglio nemmeno per salutarli. Yao mi accompagna alla porta, ci abbracciamo. Poi io e Jingyi scendiamo in strada, ai piedi delle grandi torri che segnano l’entrata allo Spazio 798. La notte è grigia e silenziosa, e a parte qualche occasionale veicolo che passa per la via, siamo soli. Lei è allegra e cerca di ridere mentre attraversiamo il ponte stradale, ma è una finta. Quando legge nei miei occhi la consapevolezza dell’addio, le lacrime sgorgano spontanee. L’abbraccio forte, ed è il nostro ultimo abbraccio. Vorrei baciarla, e lei lo capisce. Ricaccia le lacrime.
“Let us say good bye as friends, good friends”


E’ allora che capisco che non ci sarà un ultimo bacio tra noi, mai più. E’ come una pugnalata, ma l’accetto. Anche i miei occhi si inumidiscono, ma il mio orgoglio come sempre vince. Non voglio piangere come un bambino, di fronte a lei. I nostri sguardi come al solito comunicano meglio delle parole. Lei lascia scivolare la sua mano dalla stretta della mia, e mi rivolge una preghiera:
“Please, don’t be special to me”.
 



Il taxi si ferma, la luce dei lampioni riflessa sulla carrozzeria rossa. Lei sale, chiude la portiera. Poi abbassa il finestrino; non vuole o non riesce a sorridere: “Good bye and take care. Come back soon”.
Sorrido io, strizzandole l’occhio. La vedo sparire su quel taxi nella notte di Pechino, e non so se la rivedrò ancora.
 



Mi siedo sul retro del mio taxi e non scambio parole con il tassista. “Sanlitun’r” è l’indicazione che gli do. Lui annuisce grugnendo. Poi cambio idea, e quando è all’altezza delle ambasciate lo faccio fermare. Scendo, sarà l’una. E’ come se mi sentissi una febbre improvvisa addosso. Invece di proseguire verso l’ostello torno indietro, verso nord. Cammino veloce, poi comincio a correre, finché non arrivo sulle rive del canale Liangma, dove quella sera ci siamo baciati.


Il respiro è pesante, ma non per la corsa. Improvvisamente comincio a singhiozzare, come se le corde che trattenevano le mie emozioni si fossero strappate tutte insieme. Prostrato a terra, tocco il suolo con la fronte, e le lacrime rigano il mio volto e cadono sulla terra. Mi copro il viso con le mani ma non riesco a fermare il pianto lacerante. Inginocchiato sotto i salici, a fianco della acque serene del Liangma, do sfogo completo al mio dolore.

Non avrei mai immaginato sarebbe stato così duro andarsene.

Nessun commento: