In Cina i CD costano poco, tipicamente 10 kuai, di più se sono originali (raro e difficile trovarli, e comunque la differenza di qualità tra copia e originale non si trova), anche meno in certe zone periferiche e per i CD con custodia di carta plastificata. Nei tre mesi che passo a Pechino ascolto musica continuamente, al computer in ufficio, sul DVD di camera, con il lettore portatile preso in prestito da Massimiliano o, più tardi, quello comprato per me al mercatino dell’elettronica. L’acquisto è compulsivo, perché tutto quello che uno ha sempre voluto avere nella sua collezione è lì a portata di mano. Di tutti i CD che compro, ce ne sono alcuni che entrano nella mia testa e nel mio cuore e mi ricorderanno per sempre di quel periodo a Pechino. Gli Oasis sono i primi, con Heathen Chemistry: “Better Man” è il mio desiderio di rinascita quando ancora il mio pensiero va alla terra che ho lasciato. Santana mi accompagna nei primi giorni al Poachers – “America” canta dei fianchi generosi e della pelle scura di Mina, e “Game of Love” celebra il gioco dell’amore fine a sé stesso, senza colpa o attaccamento.
Nelle mattine di sole, nelle strade laterali tra Sanlitun e l’ufficio, ascolto a palla i Red Hot Chili Peppers con By the Way. “Tear” è il mio saluto al sole, e “Venice Queen” è la sinfonia ipnotica che la sera mi culla, dopo ogni giornata più sorprendente e incomprensibile della precedente.
I Blue Öyster Cult cantano Curse of the Hidden Mirror, e il verso “you elevate me” di “Dance on Stilts” è l’esultanza dei weekend passati con Jingyi. “I left my soul there, down by the sea”, dei Morcheeba, parla del primo bacio davanti alle acque del pigro Liangma, e “Part of the Process” della vita squattrinata da stagista che nulla sa del suo futuro.
E’ poi la scoperta dei Coldplay, con Parachutes e a Rush of Blood to the Head: mi tengono compagnia la mattina e la sera, nelle giornate grigie, o da solo nella sala fumatori del Jingguang, quando penso a Jingyi e al fatto che tutte le difficoltà della vita non sono altro che una cornice ai momenti belli e dolci. “God put a smile upon your face” è un inno al sorriso, e “Yellow” è il costante pensiero alla mia ragazza gialla.
Massimiliano cita spesso il “Per le strade di Pechino erano giorni di maggio / tra noi si scherzava a raccogliere ortiche” di Battiato. E’ la nostra amicizia e il costante scherzare sul nonsense di essere qui. Su suo impulso compro il mio primo CD dei Led Zeppelin: “Stairway to Heaven” è la scoperta di un mondo incantato che non si conosceva e comunque sfugge alla comprensione, e “Babe I’m gonna leave you” è il lamento del prossimo distacco da un amore, una donna ma soprattutto, lo capirò dopo, da una vita, da una città. I Verve in Urban Hymns cantano in “Catching the butterfly” dell’inseguimento dei sogni, e in “Lucky Man” della soddisfazione e della completezza della libertà.
I R.E.M. in Out of Time ricordano la leggerezza spirituale di chi vive la primavera di Pechino con “Radio Song”, e la malinconia di qualcosa che finisce in “Endgame”. Chiude il giro una singola canzone immortale, ascoltata al Goose & Duck una delle ultime sere, con davanti un black russian: la band filippina, coverizzando Bob Dylan, canta “How does it feels / to be on your own / like a complete unknown / like a rolling stone”. Aver vissuto tre mesi a Pechino dall’altra parte del mondo, da soli, abbandonati, liberi, cresciuti.
Nelle mattine di sole, nelle strade laterali tra Sanlitun e l’ufficio, ascolto a palla i Red Hot Chili Peppers con By the Way. “Tear” è il mio saluto al sole, e “Venice Queen” è la sinfonia ipnotica che la sera mi culla, dopo ogni giornata più sorprendente e incomprensibile della precedente.
I Blue Öyster Cult cantano Curse of the Hidden Mirror, e il verso “you elevate me” di “Dance on Stilts” è l’esultanza dei weekend passati con Jingyi. “I left my soul there, down by the sea”, dei Morcheeba, parla del primo bacio davanti alle acque del pigro Liangma, e “Part of the Process” della vita squattrinata da stagista che nulla sa del suo futuro.
E’ poi la scoperta dei Coldplay, con Parachutes e a Rush of Blood to the Head: mi tengono compagnia la mattina e la sera, nelle giornate grigie, o da solo nella sala fumatori del Jingguang, quando penso a Jingyi e al fatto che tutte le difficoltà della vita non sono altro che una cornice ai momenti belli e dolci. “God put a smile upon your face” è un inno al sorriso, e “Yellow” è il costante pensiero alla mia ragazza gialla.
Massimiliano cita spesso il “Per le strade di Pechino erano giorni di maggio / tra noi si scherzava a raccogliere ortiche” di Battiato. E’ la nostra amicizia e il costante scherzare sul nonsense di essere qui. Su suo impulso compro il mio primo CD dei Led Zeppelin: “Stairway to Heaven” è la scoperta di un mondo incantato che non si conosceva e comunque sfugge alla comprensione, e “Babe I’m gonna leave you” è il lamento del prossimo distacco da un amore, una donna ma soprattutto, lo capirò dopo, da una vita, da una città. I Verve in Urban Hymns cantano in “Catching the butterfly” dell’inseguimento dei sogni, e in “Lucky Man” della soddisfazione e della completezza della libertà.
I R.E.M. in Out of Time ricordano la leggerezza spirituale di chi vive la primavera di Pechino con “Radio Song”, e la malinconia di qualcosa che finisce in “Endgame”. Chiude il giro una singola canzone immortale, ascoltata al Goose & Duck una delle ultime sere, con davanti un black russian: la band filippina, coverizzando Bob Dylan, canta “How does it feels / to be on your own / like a complete unknown / like a rolling stone”. Aver vissuto tre mesi a Pechino dall’altra parte del mondo, da soli, abbandonati, liberi, cresciuti.
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