La voce riportata dalla madre di Massimiliano si rivela per fortuna infondata. Le strade sono quelle di sempre. Leggiamo i quotidiani su internet, e al di là di notizie vaghe, non c’è nulla di cui preoccuparsi. L’Italia titola “Epidemia killer in Cina, migliaia i malati”. Migliaia di malati su un miliardo e quattrocento milioni di persone. A Pechino i malati sono meno di mille, i morti meno di un centinaio, su tredici milioni di abitanti (registrati). In Italia qualcuno non nota che l’influenza normale nella stessa stagione colpisce alcune centinaia di milioni di cinesi e ne stronca alcune decine di migliaia. A Milano qualcuno si dimentica che la meningite, quella stessa primavera, miete qualche decina di vittime in un’area urbana che è forse un terzo di Pechino, ma quelli sono problemi di casa scomodi. Per la stampa della nostra libera democrazia è meglio focalizzare l’attenzione sul grande male che è la Cina, la Cina cattiva che sfrutta i bambini e ruba il lavoro ai grandi in Italia. La Cina sporca che infetta il mondo con la peste, la Cina untrice.
Il punto di rottura però è raggiunto: da un lato chiudo immediatamente ogni mio rapporto con gli italiani, e anzi mi prendo gli ultimi giorni a Pechino per visitare i monumenti non ancora visitati. Dall’altro, comincio a mettermi la mascherina e ad evitare la metropolitana, perché lo spettro l’ho sentito anch’io, accarezzarmi la spina dorsale con la sua mano gelida. Sono i giorni della Peste, ed esser razionali comincia ad esser difficile.
Percorro Pechino a piedi, com’è giusto che sia percorsa. Potevo prendere la bicicletta di Massimiliano, la bicicletta che ha comprato nel negozietto accanto al Poachers per la bellezza di sedici euro. Purtroppo l’unica volta che l’ho provata sono cascato: impossibile da manovrare, sbilanciatissima. E comunque dopo due settimane ha perso il pedale destro; la settimana dopo quello sinistro si è staccato. Alla fine del mese il sellino cascava. Non ricordo neanche che fine abbia fatto. Meglio a piedi, decisamente, dei miei piedi mi fido.
Vedo la Città Proibita nel suo lusso sconfinato, nei suoi cortili ordinati secondo la gerarchia di chi li abitava. Visito il Tempio del Cielo, con il suo parco ora fiorito a lavanda, con i vecchi che fanno taijiquan e i giovani che si tengono per mano sulle panchine. Passeggio per gli hutong senza tempo, con i loro panni stesi, con la gente che gioca a scacchi su tavolini minuscoli, con i cortili pieni di rottami di mobili, tappeti e biciclette di proprietà di dieci famiglie che vivono dove un tempo ne viveva una, spartendosi le stanze del siheyuan. Mangio i zhajiangmian (炸酱面), le tagliatelle tipiche di Pechino, nel ristorante più antico e famoso, il Lao Beijing Zhajiangmian Dawang (老北京炸酱面大王), il “Re delle Tagliatelle della Vecchia Pechino”.
Dopo tre giorni così ho le scarpe consumate, i piedi piagati ma il cuore leggero. Sono quasi pronto a partire.
Il punto di rottura però è raggiunto: da un lato chiudo immediatamente ogni mio rapporto con gli italiani, e anzi mi prendo gli ultimi giorni a Pechino per visitare i monumenti non ancora visitati. Dall’altro, comincio a mettermi la mascherina e ad evitare la metropolitana, perché lo spettro l’ho sentito anch’io, accarezzarmi la spina dorsale con la sua mano gelida. Sono i giorni della Peste, ed esser razionali comincia ad esser difficile.
Percorro Pechino a piedi, com’è giusto che sia percorsa. Potevo prendere la bicicletta di Massimiliano, la bicicletta che ha comprato nel negozietto accanto al Poachers per la bellezza di sedici euro. Purtroppo l’unica volta che l’ho provata sono cascato: impossibile da manovrare, sbilanciatissima. E comunque dopo due settimane ha perso il pedale destro; la settimana dopo quello sinistro si è staccato. Alla fine del mese il sellino cascava. Non ricordo neanche che fine abbia fatto. Meglio a piedi, decisamente, dei miei piedi mi fido.
Vedo la Città Proibita nel suo lusso sconfinato, nei suoi cortili ordinati secondo la gerarchia di chi li abitava. Visito il Tempio del Cielo, con il suo parco ora fiorito a lavanda, con i vecchi che fanno taijiquan e i giovani che si tengono per mano sulle panchine. Passeggio per gli hutong senza tempo, con i loro panni stesi, con la gente che gioca a scacchi su tavolini minuscoli, con i cortili pieni di rottami di mobili, tappeti e biciclette di proprietà di dieci famiglie che vivono dove un tempo ne viveva una, spartendosi le stanze del siheyuan. Mangio i zhajiangmian (炸酱面), le tagliatelle tipiche di Pechino, nel ristorante più antico e famoso, il Lao Beijing Zhajiangmian Dawang (老北京炸酱面大王), il “Re delle Tagliatelle della Vecchia Pechino”.
Dopo tre giorni così ho le scarpe consumate, i piedi piagati ma il cuore leggero. Sono quasi pronto a partire.
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