Pechino ha tre colori: l’azzurro del cielo, il rosso dei muri e dei tetti dei palazzi antichi e delle bandiere, e il grigio. C’è un grigio che si vede sempre: è quello delle strade enormi, dei muri dei palazzi antichi e della case tradizionali. E poi ce n’è un altro, che arriva soprattutto d’inverno. Il grigio della polvere.
La sabbia del Gobi a Pechino c’è sempre stata, ma la polvere è arrivata con l’industrializzazione E se la sabbia ti entra negli occhi e nella bocca, la polvere ti entra nei polmoni. D’inverno, 13 milioni di Pechinesi sopravvivono ai freddi della loro città con il riscaldamento. E Pechino è riscaldata interamente a carbone. Lo vedi uscire dalle ciminiere, dai camini e dai tubi di scappamento delle auto assolutamente non catalizzate. Copre tutto, quel grigio, anche gli altri colori.
La prima impressione di Pechino per chi la vede, soprattutto nella stagione sbagliata, è l’assoluto squallore. Le strade sembrano enormi e alienanti, i titanici palazzi in stile stalinista incombono su tutto e tutti. Il cielo è grigio, l’aria è grigia. E rende grigi non solo palazzi e strade, ma le finestre, le macchine, gli alberi, le persone. Sul davanzale della finestra c’è un dito di questa polvere sottile e grigia che nessuno, se non il vento, ha mai spostato. E’ la versione iperuranica della capitale comunista: enorme, alienante, e grigia. L’immagine di squallore più forte che si possa concepire.
Ma col tempo, o forse anche da subito, lo trovo dolce questo squallore. Talmente estremo da risultare eroico. E’ come essere finiti nel culo del mondo. Ed essere tutto sommato vivi, e in una situazione migliore di tante altre persone. Combinato alla solitudine, questo grigio squallore mi fa sentire fuori dal mondo, ancora più immerso in un avventura che non può essere raccontata, ma solo vissuta.
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