2006-07-21

Chai e gli hutong

Chai

Pechino è un grande cantiere. Una città millenaria che, senza alcun apparente rispetto per le proprie radici, si autodistrugge quotidianamente per ricostruirsi più grande e più stalinista, in vista delle Olimpiadi del 2008. I cantieri sono ovunque e lavorano senza sosta, giorno e notte, sotto sole, luna, nubi, nebbia, neve, pioggia e vento. Qualche volta, si ferma per le tempeste di sabbia, ma solo per quelle grosse.

Interi quartieri di case tradizionali, i siheyuan (四合院), vanno distrutti continuamente. I siheyuan, letteralmente “corti a quattro lati”, sono case a un solo piano e a pianta quadrata, sviluppate attorno a un cortile interno, e raccolte in isolati separati da hutong (胡同), i vicoli stretti della vecchia Pechino. Sono case vecchie, abbandonate a sé stesse, prive di acqua corrente e spesso anche di luce. Sono un tesoro dell’umanità, e la matrice del tessuto sociale dell’antica Pechino, dove la vita pubblica si svolgeva nell’hutong, e quella privata nel siheyuan. Invece di restaurare, la municipalità spiana, rimborsa gli abitanti con grandi appartamenti in palazzi di periferia a venti piani, e dove c’era una parte storica di Pechino costruisce un megamall o un grattacielo commerciale.


Avevo letto di questo stupro nei libri di Terzani, ma vederlo con i propri occhi è diverso. Passeggio per strade senza tempo, dove la gente stende i panni, gioca a scacchi, chiacchiera con il vicino di casa, e vedo ovunque lo stesso carattere, chai (拆), “distruzione”. Come si segnano gli alberi da abbattere in una foresta da legname, così a Pechino si marchiano gli edifici condannati. E sono ovunque, tracce di storia che non rimarranno, se non nella foto di qualche laowai. La memoria della gente locale, anche quella sparirà dopo la diaspora in periferia. E quando gli chiedi che faranno dopo che il loro quartiere avito non esisterà più, quelli rispondono “staremo nella nostra bella casa nuova!”. Sono contenti. Li prenderei a schiaffi quando sorridono e indicano il carattere chai. Non capiscono quello che perdono. D’accordo, avranno acqua corrente, luce, telefono, forniture di gas via tubo e non via bombola. Ma perderanno la loro identità, sperduti in appartamenti senza nome, riconoscibili solo da serie di quattro cifre, senza conoscere la faccia dei loro vicini di casa, spaventati nell’uscire di casa in un quartiere di sconosciuti, in parte immigrati da altre zone che non parlano la loro lingua e se non trovano lavoro si danno alla criminalità. Per andare a fare la spesa o una qualsiasi commissione prenderanno l’autobus. Non usciranno più. Si chiuderanno nei loro appartamenti con le pareti di cartone, e guarderanno la TV. Scompariranno nel mare incosciente della popolazione suburbana.


Guardo a questa Pechino morente con compassione e malinconia. Non potrei fare niente per fermare quello che accade, nemmeno se questi sempliciotti intortati dalla propaganda progressista volessero farsi aiutare. E allora mi rassegno, e mi godo la pace degli hutong in lunghe camminate solitarie o con un amico, cosciente che, tra non molto tempo, le strade che i miei piedi calcano non esisteranno più.

 
Rubble in Xinfucun

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