2006-07-17

Amici che vengono, amici che vanno

Una della costanti di vivere in Cina è che la gente arriva, si ferma pochi mesi, e poi riparte. Se da un lato questo rende i rapporti con le persone più semplici ed immediati, dall’altro rende la loro stabilità cosa rara.

Il primo vero giorno di lavoro di Massimiliano, ovvero il primo giorno in cui il nostro capo torna in ufficio, è simile al mio. Arriva a fine giornata con i nervi a fior di pelle. Ucciderebbe tutti i cinesi che gli capitano a tiro. Marco invece è fuori ufficio, perché si è preso l’ultima settimana libera. Viene di tanto in tanto per usare internet.
Marco ha la paranoia di essere discriminato. Avendo vissuto negli Stati Uniti, classifica esseri umani in tre grandi categorie: bianchi, gialli e neri. E secondo lui, i gialli in Cina lo discriminano. Non ha capito molto Marco. Non è che ai cinesi interessi molto il colore della pelle. Per loro, ci sono i cinesi e gli stranieri. Al massimo si possono classificare gli stranieri tra laowai (老外), occidentali, heiren (黑人), neri, ribenren (日本人), giapponesi, e altre categorie minori. Ma gli stranieri per lo più sono tutti uguali, mettono ansia, sono lenti di comprendonio e facili all’ira.
Le ultime volte che vedo Marco sono in uno Starbucks e al Buddha Bar. Entrambe le volte riesce a litigare con i gestori che, mortificati, subiscono senza replicare ai suoi improperi in inglese. Nello Starbucks, ci presentiamo all’ora di chiusura, quando i gestori stanno per chiudere, rimanendo per un po’ insieme a un gruppo di amici. Marco crede di essere discriminato e ci litiga violentemente, senza peraltro ottenere nulla. Al buddha bar, dopo aver ingiuriato la cameriera che non capisce mai nulla, attacca bottone con un gruppo di ragazzi cinesi che fanno un gioco di società. Uno di loro parla inglese, e Marco chiede di poter partecipare. Quando scopre, però, che il gioco si svolgerà in cinese, dà in escandescenza.
“It’s not fair, we can not speak Chinese and you know it!”
Il ragazzo è calmo e spiega che i suoi amici non parlano l’inglese, e non sarebbero in grado di giocare. Marco non ci crede.
Un altro dei ragazzi, scocciato dalla discussione proclama:
“We are in China, we speak China”
“No, semmai we speak Chinese!” lo correge Marco, rosso in faccia, metà in italiano e metà in inglese.
Nulla di fatto, a parte una brutta figura, anche qui.
Massimiliano, sarà il fuso orario che pesa, non partecipa molto. Si limita a guardare Marco a metà tra il divertito e il preoccupato. Marco fa il gesto e il suono della frusta.
Parte pochi giorni dopo, felicissimo, ma anche un po’ triste, e questo lo ammette, di lasciare la Cina. Raccomanda a sua madre di non dire a nessuno in Italia che torna, perché vuole stare da solo, tranquillo, per un po’. In ufficio le impiegate cinesi gli regalano una giacca tradizionale cinese blu, con dei dragoni sopra, che non metterà mai. Ma il regalo gli fa piacere. Dopo la sua partenza, sparirà dalla circolazione, a parte una telefonata mesi dopo e una promessa mai mantenuta di rivedersi in Italia. Persona strana.
Massimiliano, quando Marco viene nominato, cita sempre una sua frase celebre: “A viaggiare e conoscere il mondo, si diventa razzisti”. Lo descrive con poche parole: “Una persona pacifica e moderata”. Io ci aggiungo un “rilassato e sereno in ogni occasione, un cittadino del mondo”.
Ce lo ricorderemo così Marco, il mio primo Cicerone in Cina.

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