Non mi ricordo francamente come ci sono finito a casa di Elena nella sera del capodanno cinese. Non so perché Marco non c’era e nemmeno Massimiliano. Comunque mi arriva quest’invito a sorpresa da Elena, e siccome non conosco nessuno a Pechino a parte lei e Marco, e Massimiliano che forse non era nemmeno arrivato, sono molto felice di andarci.
Nel febbraio 2003, Elena abita in un compund di cui ho da tempo dimenticato l’ubicazione, e fondamentalmente ci arrivo solo perché lei parla al cellulare al tassista. Si tratta di un complesso di edifici di colore marrone, molto alti, squadrati e spartani. Si trovano più o meno nella zona di Chaoyangmen, con l’entrata in una strada che la sera di capodanno mette paura: vuota, male illuminata, fiancheggiata da palazzoni stalinisti silenziosi e con poche luci accese, oppure da cantieri con i loro muri in plexiglass e il rumore lontano delle ruspe. Dai tombini, talvolta chiusi non da una coperchio di pietra o metallo, ma da una lastra di legno temporanea che lascia ampie possibilità di caduta nel baratro, salgono colonne di fumo bianco, i gas umidi e caldi che al contatto con l’aria secca e gelida di febbraio si condensano velocemente in liquidi mefitici. All’entrata sta una guardia più giovane di me, visibilmente provata dal freddo. Nel cortile incrocio una famiglia cinese e un paio di russi, che abbondano in questa zona di Pechino e in particolare in questo condominio. Nessuno, né le guardie, né la famiglia cinese, né i russi, sembra notarmi, o forse il gelo li rende disinteressati. Cammino per i corridoi sporchi e scuri del palazzo dove abita Elena, e prendo un ascensore di metallo pieno di rigature lasciate forse da mobilia trasportata male, con una luce al neon decisamente inquietante. Nel silenzio, si sente solo il rumore delle corde di metallo che si muovono.
Casa di Elena è enorme, eppure spoglia, mal illuminata e con le camere disposte in maniera irrazionale. Lei, per fortuna, l’ha arredata con gusto cercando di renderla accogliente. Mi accoglie con il suo sorriso luminoso e mi presenta agli altri ospiti: c’è Ana, una ragazza spagnola che fa la giornalista e sta con un pittore cinese dello Shandong; Nina, una svedese che segue un corso di management dell’Unione Europea; ci sono una coppia di francesi e altri due ragazzi spagnoli. Ciascuno parla sua lingua, tanto è romanza e si capisce, più o meno. Nina parla spagnolo, visto che nessuno qui capisce lo svedese.
Il pranzo è servito in una specie di grossa pentola elettrica con brodo bollente. Elena mi spiega che l’Hotpot (火锅) è un piatto originariamente mongolo, che ormai è famoso in tutta la Cina. Consiste nel prendere carne, verdure, funghi, tofu e altre cose edibili, tutte crude, e gettarle con le bacchette nell’unico pentolone a centro tavola, per poi ripescarle minuti dopo bollite. Quindi si intingono in una salsa marrone chiaro che sa di carne, e il gioco è fatto. A parte le difficoltà con le bacchette, devo dire che è buono.
Il beveraggio è più familiare: i ragazzi spagnoli hanno portato delle bottiglie di Sangre de Toro della Torres, un vinello iberico da supermercato con tanto di torello in plastica attaccato alla canna. Il toro, simbolo piuttosto controverso della Spagna. Il ragazzo spagnolo mi spiega che quando hanno provato a togliere il toro, le vendite sono crollate, e quindi la Torres ce lo ha rimesso. Dopo tutto, anche i cinesi lo capiscono il toro come simbolo della Spagna. E comunque non si pongono certo interrogativi morali al pensiero della corrida.
E’ una situazione surreale. La sera del capodanno cinese, nel quartiere russo di Pechino, con 10 gradi sottozero fuori dalla finestra che dà su un cantiere buio, otto europei festeggiano con un piatto mongolo e vino spagnolo, ognuno parlando la sua lingua natale. E quello che è più surreale, non leggo sorpresa nelle facce dei convitati, che sono a Pechino da più tempo di me. Forse, penso, col tempo ci si abitua.
Col tempo ho in effetti scoperto che questo è vero, ma solo in parte. La Cina e le situazioni in cui si trova lo straniero che ci abita non smettono mai di stupire. E il ricordo del mio primo capodanno cinese rimane ancora vivo, una serata inaspettata, difficilmente immaginabile, e dolce, perché comincio a non sentirmi solo ad esser straniero, in questo posto.
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