Di fianco al Poachers c’è un grande ristorante cinese, di quelli con gli acquari all’entrata. Appena dopo la porta a vetrata, superate le ragazze in qipao colorato che aprono i battenti, a entrambi i lati ci sono grossi acquari pieni di pesci, granchi, gamberetti, rane, anguille e tartarughe. Una sala enorme piena di tavoli tondi, e alcune salette private per gli ospiti col portafoglio più grasso. Io e Massimiliano decidiamo di provarlo, dato che è sotto casa e ha il menù in inglese, e per l’occasione tiriamo in mezzo Christian e Stefano.
La prima sera rimaniamo estasiati a guardare l’acquario. La prassi è la seguente: il cliente sceglie la sua portata, un cameriere la pesca con il retino, la mostra ancora viva per avere approvazione, quindi a) la porta in cucina per essere cucinata viva, prova di freschezza in un paese dove la conservazione dei cibi è materia sconosciuta, oppure b) infila la portata ancora viva in un sacchetto e la scaglia violentemente sul pavimento più volte, finché non smette di muoversi, quindi la porta in cucina per essere cucinata. Quella sera mangio anguilla, un grande piatto brodoso pieno di fette piene di ossa e lische, grasso ma fondamentalmente buono. La prossima volta mi riprometto di assaggiare la tartaruga.
Decidiamo di tornare al ristorante tre giorni dopo: ci passiamo davanti alla mattina, e guardiamo l’interno con anticipazione. Quando la sera torniamo dall’ufficio, davanti all’entrata ci attende uno spettacolo incredibile. Il carattere 拆 è marcato e cerchiato in rosso su tutto il perimetro dell’edificio; le vetrine sono frantumate; la mobilia sparita, e invece dei camerieri un esercito di operai sta demolendo i muri dell’esercizio in una nube di polvere e macerie. Il locale dove abbiamo mangiato tre giorni fa non esiste più.
Al posto del ristorante, poche settimane dopo sorgerà una fila di piccoli club privati e gallerie d’arte. Anche questa è Pechino, nella sua imprevedibile e continua mutabilità.
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