2006-10-30

What's up, man?

Chiunque viva in Cina conosce a memoria le varie cantilene che assalgono i laowai per le strade.

I venditori di roba falsa:
Halo ssir!?! Watcha, begas’, looka looka, special price for you! Halo friend?!? OK?!?!?

I venditori di DVD:
Halo ssir?!? CD, VCD, DVD! SSex DVD! OK?!?

I papponi e le ruffiane:
Halo ssir?!? Lady bah? Lady club? Masaji? Ssex! Have a looka! OK?!?

I tassisti irregolari:
Halo ssir?!? Tekasi? Let’sa go, OK?!?

I venditori di fapiao (fatture) false:
Fapiao, fapiao, fapiao!!! Yao fapiao maaa?!?

I mendicanti:
Halo-xiexie-mani-mani-xiexie-halooo…

Chi vive a Pechino ne conosce una di più. L’inglese non è così maccheronico, la voce è profonda come una caverna, affascinante e suadente, e fa più o meno così:
What’s up, maaan? Hey, how are you? Where are are you going? Hey, come here a minute, just wanna say hi to you… hey… do you want some shit?

Non si tratta di cinesi, ma di africani. Nigeriani, Liberiani, Sudafricani, Ghanesi, Senegalesi… tutti con un’andatura ciondolante e lo sguardo sornione, con la mano aperta per dare il cinque e aggrapparsi al potenziale cliente. Spacciano: principalmente hashish e pasticche, altri articoli speciali disponibili su richiesta. Nel 2003, quando stavo al Poachers, li conoscevo tutti: erano cinque o sei, e gravitavano attorno alla discoteca che era il loro centro di business. Quando torno nel 2005 ne trovo trenta, quaranta, tutti uguali, tutti con la loro cantilena identica, e la loro zona di lavoro ora comprende le strade laterali della Jiuba Jie e un bel pezzo della Gongti Bei Lu. Ne deduco che il giro d’affari è cresciuto.

Come fanno trenta heiren, trenta neri, a spacciare nel centro di Pechino senza avere problemi da chicchessia è un interrogativo interessante, e cerco di informarmi. La prima cosa che noto è che non escono mai dalla loro zona di lavoro: trovarli sulla Jiuba Jie, per esempio, è impossibile, non ci mettono piede. Il Poachers rimane un centro nevralgico della loro attività, ma sulla stressa stradina sono sorti molti piccoli bar gestiti da cinesi, con prezzi ridicolmente bassi, dove gli spacciatori passano gran parte del loro tempo a bere alcolici falsi e ad abbracciare ragazze d’ogni razza e colore ben contente di girar con loro; e il più emblematico di questi baretti, dotato di una tavola calda, porta il nome di “Brother Pizza”. Dentro, a parte il gestore, sua moglie e un paio di ragazze cinesi vestite con tute colorate di tre taglie troppo grandi, tutti neri. Un altro covo preferito è il Bus Bar, due autobus attaccati e ricoperti da loghi della Heineken, parcheggiati nella stazione di fronte allo Yugong Yishan. La seconda cosa che noto è che non propongono mai le loro merci ai cinesi, ma lavorano esclusivamente con gli stranieri. E sono tipicamente gentili, invadenti all’inizio, ma non insistono troppo. Le loro attività sono controllate, evidentemente. Sento però diverse storie sul fatto che la sera tardi capita che si ubriachino e se qualcuno li provoca finisca in rissa; e pare che qualcuno non paghi nemmeno i tassisti che, per paura, li scarrozzano di qua e di là ma evitano ogni discussione con questi giganti dalla pelle nera. Pochi li apprezzano, la maggior parte dei cinesi ne è terrorizzata, molti li vedrebbero volentieri buttati fuori dalla Cina, tanto per esser sicuri che non si facciano vivi ancora.

E allora come fanno a rimanere lì, in bella mostra davanti alle macchine della polizia? La risposta che ricostruisco tramite varie conversazioni è la seguente: la Cina da diversi anni ha avviato una politica estera mirata a farsi amici tanti Paesi, e gli unici disposti ad essere amici della Cina sono tanti staterelli tirannici e poveri dell’Africa centrale, che ricevono da Pechino finanziamenti e armi in cambio dell’utilizzo di risorse naturali da parte di aziende statali cinesi. Andate per esempio nella zona della ambasciate in Sanlitun e vedrete che l’ambasciata del Sudan è grossa tre volte quella italiana, che le sta di fronte. Ora, queste ambasciate mantengono gran numero di persone, e tra queste mandano certi figli di papà che sanno l’inglese e il francese e stanno male in Africa; non sapendo o non avendo voglia di lavorare, costoro si riversano nelle strade e grazie ai loro canali preferenziali nell’ambasciata importano e vendono sostanze stupefacenti senza che la polizia abbia la possibilità di mettere le mani sul loro passaporto diplomatico. Quei poliziotti che ci provano si trovano in tasca grosse somme di denaro, abbastanza da raddoppiare il loro misero stipendio, e quindi, pur di malavoglia, accettano la situazione e fanno finta di non vedere gli ospiti africani, che sono liberi di prosperare a patto di non esagerare nelle loro attività: lontano dagli onesti cittadini cinesi e lontano dai turisti stranieri, che la loro vergogna rimanga isolata nella comunità espatriata e i cinesi che le gravitano attorno.

Questa situazione non può durare. Questi figli di ricconi africani che si atteggiano a ghetto boys, che ricalcano perfettamente gli stereotipi dei neri d'America, facendo una pessima figura davanti a cinesi e stranieri; e che spacciano indisturbati, con l'aria dei re del quartiere che non tollerano impedimenti.
Prima o poi, mi dico, qualcuno sgarrerà, la farà grossa e allora le autorità reagiranno: do loro tempo fino alle Olimpiadi del 2008, quando la Pechino “perfetta” sarà presentata al Mondo. E allora insieme ai mendicanti e ai papponi anche gli spacciatori neri scompariranno. La loro presenza non si addice proprio alla Pechino “perfetta” da presentare al mondo. Grazie al cielo non viviamo in un regime di democrazia.

La storia mi darà ragione. Nell’autunno del 2006, improvvisamente una buona metà degli spacciatori scompare nel nulla. Quelli rimasti pare si nascondano, sono cento volte più cauti, più attenti alle loro mosse, meno arroganti nei loro “What’s up maan”. I tempi sono maturi. Brother Pizza, bye bye…

2006-10-28

La Nan Sanlitun

Sanlitun è per antonomasia il centro della vita notturna di Pechino. La via si divideva tradizionalmente in due parti: la jiuba jie propria, la “via dei bar”, roccaforte dei locali per cinesi con musica pop a palla, luci al neon esagerate, buttadentro, papponi; e la nan jiuba jie, la “via dei bar del sud”, che stava a sud della Gongti Bei Lu. Relativamente nascosta alla vista, la nan jiuba jie era il regno della comunità internazionale che viveva a Pechino, piena di bar meravigliosi di ogni genere: l’Hidden Tree, famoso per l’incredibile selezione di birre europee e la pizza migliore della città; il Durty Nellie’s, il pub irlandese di Pechino; il The River (河), tutto in legno con un palco dove suonavano rock band di ogni parte della Cina, e dopo che questi erano scesi dal palco cominciava l’open jamming: chi con la chitarra, chi con l’armonica, chi battendo la bottiglia di Yanjing sul tavolo, tutti i presenti partecipavano spontaneamente alla melodia proposta. Il posto migliore della città per passare la serata.

Quando torno a visitarla, più di due anni dopo, nulla poteva prepararmi allo spettacolo che mi trovo davanti. Una distesa di macerie a perdita d’occhio. Non esiste quasi pietra su pietra, se non i resti di un muretto, quello che nascondeva l’albero dell’Hidden Tree, un albero ormai morto e coperto di polvere.

Con la scusa di “sviluppare” l’area di Sanlitun, la municipalità ha espropriato e spianato l’area, demolendo i bar un tempo pieni di gente, nel 2004. Nel 2006, quando scrivo, i lavori per lo “sviluppo” dell’area non sono ancora cominciati. Le macerie giacciono mute, coperte di polvere e occasionali ciuffi d’erba. Gli unici suoni sono quelli del vento e, lontano, il rumore di qualche ruspa al lavoro, ma non per costruire, solo per distruggere. Operai cinesi vagano qua e là con gli elmetti in testa, mentre il sole cala; non sembra abbiano un gran daffare.

Mi volto, e in un angolo nascosto noto un ultimo bar rimasto in piedi, una costruizione di mattoni degli anni ’50 con un’insegna rotta e una lista dei drink scritta a mano di fianco alla porta. Di fronte ad essa, seduti su sedie di plastica, bottiglie di Qingdao in mano, una buona ventina di africani che mi guardano, chi sorridendo con apparente scherno, chi torvo. Uno si avvicina, alzando la mano pronto a darmi un cinque. So già dove vuole puntare.

“Grazie, non fumo” dico. E me ne vado, con lo stomaco sottosopra per quello che ho trovato.

2006-10-27

I tassisti di Pechino

Una delle prime categorie di gente con cui si viene in contatto in Cina sono i tassisti. Li trovi fuori dall’aeroporto che ti aspettano, e da quel giorno li vedrai quasi quotidianamente. I tassisti in Cina sono coloro che scarrozzano gli stranieri che non sono in grado o hanno troppa fretta per prendere l’autobus, e gli sparring partner per la pratica del cinese di tutti coloro che lo studiano.

I tassisti di Pechino sono famosi, tra i loro compatrioti, per esser gentili e chiacchieroni. Onesti no, anzi, se possono fregare un laowai sul tragitto, sulla fattura o sulla mancia lo fanno subito. Se però il laowai parla cinese l’atteggiamento cambia: a quel punto il tassista comincia una serie interminabile di domande, solitamente in quest’ordine: da dove vieni? Dove vivi? Studi o lavori? Che fai? Ma hai fratelli e sorelle? E i tuoi genitori dove sono? Sei sposato? Quando ti sposi? Quanto guadagni al mese? Ti piace bere la baijiu (grappa cinese di riso)? Quanta riesci a berne senza svenire?

A seconda delle risposte al sopraccitato questionario il tassista dispensa commenti e consigli, senza peraltro che nessuno l’abbia mai invitato a farsi i fatti del passeggero. A questo punto, terminate le domande, se siete ancora sul taxi – il che è probabile visto il traffico di Pechino – il tassista sceglie l’argomento che più lo stuzzica dalla precedente conversazione e ne pontifica esponendo tutte le sue opinioni, solitamente prive di cognizione di causa, e sempre accompagnate da richieste di assenso: “对吗?对吧?是不是?(giusto? ho ragione? è così o no?)” al termine di ogni frase.

Uno degli argomenti che i tassisti preferiscono sono le nazionalità. Italiano? Ah, adoro il calcio italiano! Lo guardo sempre, è il migliore! E alzano il pollice incurvando il labbro inferiore: “O-kei!”. Quindi cominciano a recitare le formazioni della nazionale, che vengono intuite solo per assonanza: “Matalaqi, Gulousuo, Pierlo, Bufeng, Madini”. E poi l’idolo, quello che tutti conoscono non perché è pallone d’oro ma perché è buddista. “Baqiao!!! Baqiao zui hao de, Baqiao OK! (Baggio!!! Baggio è il migliore, Baggio OK!”). I tassisti passano la giornata ad ascoltar la radio e li conoscono tutti. Se non si parla di calcio, i luoghi comuni sull’Italia sono le scarpe, le borse, l’abbigliamento, il fatto che è un Paese con una storia molto lunga. Qualche volta le gaffe internazionali di Berlusconi (sì, anche in Cina ne ridono). Comunque il calcio viene sempre prima di tutto.

Dai tassisti si può imparare molto, perché sono tutti pechinesi: conoscono la città come le loro tasche, e la lingua locale, il beijing hua, che pur essendo la base del cinese mandarino se ne discosta per l’uso di certe parole e principalmente per l’erhua, il ringhio che taglia la prima o l’ultima parola in ogni frase. Sono sempre disposti a condividere informazioni con chiunque. Se ci entrate in confidenza, vi possono anche raccontare varie leggende metropolitane e le storie di Pechino che non finiscono sul giornale. Tra loro e i loro gemen’r (letteralmente fratelli, in pratica colleghi, compari) non c’è nulla che non sappiano sulle strade della loro città.

Seduto come sempre accanto al tassista, su un taxi rosso fiammante, percorro il Terzo Anello diretto a Sanlitun, sotto un cielo azzurro e terso. Quando il tassista, che ringhia particolarmente forte, scopre che vivo a Shanghai mi chiede:
“你喜欢上海吗?” (Ti piace Shanghai?)
“不喜欢,太快:快快,钱钱!” (Non mi piace, è troppo frettolosa, ogni giorno si corre e si pensa solo ai soldi)
“哈哈,上海人真小气” (Haha, gli shanghainesi sono dei gran taccagni)
“他们说上海话的时候,我听不懂” (E quando parlano il loro dialetto non capisco nulla)
“我是中国人,我也听不懂” (Anche io che sono cinese non capisco nulla)
“北京话最好听!” (Il pechinese è la lingua che suona meglio!)
Il tassista ride e alza il pollice “O-kei!”.

Appoggio la testa al sedile, mi rilasso, e sorrido anch’io. Eh, sì, sono proprio a casa.

2006-10-23

Ritorno alla casa del mio spirito

E’ il 25 maggio 2005, quando il mio aereo atterra all’aeroporto di Pechino; mi ci porta un viaggio di lavoro insieme a un collega australiano. Mentre l’aereo scende, mi sento una strana sensazione di formicolio allo stomaco che mi eccita e mi fa sorridere. Il mio collega non capisce cosa significhi per me questo ritorno. E’ una bella giornata di sole e, appena possibile, mi libero di lui, tolgo giacca e cravatta a favore di jeans e t-shirt, e me ne vado a spasso da solo. Quella sera scrivevo:

“Lascio una Shanghai fredda e umida, e la guardo scomparire lontana, la testa del dragone avvolta nella nebbia, il corpo serpeggiante dello Huangpu e le corna dei grattacieli, che spuntano dal suo alito brumoso.
Quando atterro, mi accolgono un sole dolce e una brezza fresca e forte. Gli alberi ai lati della grande strada sono rinverditi dalla primavera, e i bianchi palazzi scintillano, mentre ai loro piedi bandiere rosse garriscono felici al vento.

C’è un luogo, dove due anni, un mese e quattro giorni fa ho lasciato un pezzo della mia anima. Lo raggiungo camminando all’ombra dei pini odorosi di Sanlitun, e in riva al fiume mi inginocchio, cercando nella terra là dove le mie lacrime disperate sono cadute. Le ripongo di nuovo sulla mia fronte, sulle mie labbra e sul mio cuore.
Oggi sono tornato, ed il mio spirito è in festa. E’ difficile descrivere l’emozione di camminare di nuovo per questi luoghi familiari, e trovarli talvolta identici a come li ricordavo, talvolta ingoiati dallo sviluppo economico che spietato distrugge ogni bellezza imperfetta sostituendola alla perfezione dell’efficienza e della grandezza.

Ma oggi sono a casa, e i miei piedi calcano le pietre grigie e irregolari della strada. Sono a casa, le ragazze sono più belle, i vecchi più nobili, le sigarette più buone e leggere, il cibo più economico e saporito, i passanti più quieti e gentili, e gli stranieri tutti amici miei, miei alleati. Incontro ragazze italiane bionde, e scopro che lavorano ora dove io e Massimiliano lavoravano in quei tempi lontani e ora di nuovo così vicini. Cammino nel passato, ma è come se ne tenessi la trama tra le mani per poterla ritessere in nuovi orditi, sorprendenti e sempre migliori.
Sono a casa, quando il suono dei miei passi risuona per l’atrio di Poachers. Sono a casa, quando mangio yangrouchuan’r alla Red Rose. Sono a casa, quando la gente mi offre CD, VCD, DVD. Sono a casa, quando siedo con il nuovo segretario generale della Camera nella sala riunioni al 36° piano del Jingguang, e so che quel luogo è stato prima mio che suo.
Sono a casa, e sento chiaramente, senza ombra di dubbio nel mio cuore, che questa sarà la mia casa nel futuro. La mia Medina, il luogo del mio Graal, la mio Utopia, il luogo dove la mia anima trova la pace, ed entra in armonia col mondo.

Beijing.”

2006-10-22

Shanghai


Chiunque mi conosca sa già come la penso di Shanghai. Faccio due premesse; la prima è che il mio giudizio iniziale è stato condizionato negativamente da vari altri problemi sorti nel lavoro, nella convivenza in appartamento, nelle relazioni sociali ed sentimentali, nelle abitudini consolidate, nella reazione al clima e al cibo. La seconda è che Pechino e Shanghai sono città rivali, rappresentanti due modi diversi di vedere il mondo, e chi ama l’una non può amare l’altra. Come Roma e Milano. Come Pisa e Livorno.

Una terza premessa è che la maggior parte degli stranieri che vivono in Cina adora Shanghai: moderna, veloce, ottima per lavorare, fornita di tutto, dalla rete wireless alla Nutella importata dall’Italia, dai negozi di Armani e Luois Vuitton ai bar stilosi in cima ai grattacieli più scintillanti.

E allora, eccomi a Shanghai. Non è la Cina che mi aspettavo. Non è quella che conoscevo. Non sembra nemmeno di stare nello stesso Paese di Pechino, a cominciare dal fatto che non si parla la stessa lingua. Tutti parlano shanghainese, lo shanghai hua (上海话), un incomprensibile quanto sguaiato dialetto che sta al cinese mandarino come il sardo sta all’italiano. La gente è più bassa, più sottile; si veste in modo diverso, le donne dai 10 agli 80 anni hanno tutte i tacchi, moltissime il trucco e i capelli tinti di colori chiari; gli uomini hanno tutti la scarpa di pelle o vernice nera col calzino corto. Non esiste la solenne rozzità di Pechino, gente grossa, sporca e vestita per stare comoda; gli shanghainesi sono i più ricchi della Cina e vogliono fare gli eleganti. Pur essendo generalmente più puliti della media dei cinesi, ad essere eleganti non ci riescono e risultano al meglio kitch, al peggio brutti. La noto in tutta la città questa voglia d’esser belli senza riuscirci. Pechino può essere squallida, lo si è detto, ma non fa nulla per nasconderlo; accetta la sua condizione di metropoli stuprata dallo sviluppo industriale. Shanghai no, vuol sembrar bella: e così davanti all’immondizia mette i fiori, alle case decrepite dà una mano di rosa pastello, a una finestra che dà su una discarica mette una tendina con gli orsacchiotti. E’ una città superficiale e ipocrita.

Gli shanghainesi sono straodiati un po’ ovunque in Cina, con l’accusa d’esser taccagni e spocchiosi. Lo sono certamente. A loro difesa posso solo dire che quanto meno sono onesti, il che non si può dire di molti loro compatrioti. A loro ulteriore detrazione dico invece che sono anche ignoranti: i pechinesi vanno fieri della loro storia e la sanno citare relazionandola ai vari luoghi della città. Gli shanghainesi, la cui città di storia non manca, sembrano aver dimenticato e guardano solo al futuro. Tutto pare nuovo a Shanghai, quello che non è nuovo è brutto, se si può si spiana per metterci qualcosa di nuovo. C’è quasi un tabù del passato, e qualche volta anche a parlar di presente si vien guardati strano.

Alla mia antipatia per la gente si aggiunge la debolezza al clima. A vederla sulle cartoline Shanghai è bella: bella nei grattacieli di Lujiazui come nei palazzi coloniali del Bund e nelle ville della Concessione Francese, le strade alberate e le file di shikumen, le case tradizionali che stanno a Shanghai come i siheyuan stanno a Pechino. Fare parte di quella scena è diverso: aprile, maggio e ottobre sono i mesi in cui Shanghai è vivibile, c’è spesso il sole e fa un bel caldo, ci si siede all’aperto e ci si gode la bella stagione. Da novembre a marzo il clima è freddo e umido, con pioggia e nebbia quotidiane, il tutto in una città che non è dotata di riscaldamento diverso dall’aria condizionata. Da giugno a settembre,il clima è caldo tropicale, con nebbia e pioggia quotidiane: di giorno quaranta gradi, di notte trentacinque, e comunque sempre umido. L’umidità potrebbe anche contribuire a una splendida fauna e flora, ma gli unici animali di Shanghai sono ratti e scarafaggi che gozzovigliano nell’immondizia gettata in strada, e i passeri che fanno il nido sui buchi dei tetti; le uniche piante fuori dai giardini sembrano essere platani, forse le uniche piante che sopravvivono alla mancanza di luce e di aria. La Nanjing Lu è costeggiata da platani; la Beijing Lu anche; la Huaihai Lu pure; La Fuxing Lu, la Xinzha Lu, la Jianguo Lu. Tutte a platani, che pare d’esser in via Lorenteggio o Giambellino a Milano, solo senza i palazzi d’epoca, i marciapiedi larghi e la spazzatura dentro i cestini. A guardar la scena, sembra che anche la natura abbia fallito nel sopravvivere in questo luogo, lasciando solo le specie più resistenti. Non è incoraggiante.

A completare il quadro delle mie nemesi, insieme alla gente e al clima c’è il cibo. Io amo il cibo cinese. Adoro la cucina di Pechino, grassa e saporita; adoro quella musulmana, con il suo montone speziato di cumino e le lunghe tagliatelle; adoro quella cantonese, così ricca e complessa; e adoro anche quella sichuanese, piccante ma deliziosa. Quella shanghainese no, è immangiabile. Non è tanto il fatto che tutto sia fritto e intriso d’olio, peraltro di quarta categoria, che il glutammato venga usato a blocchi, o che la carne sia spesso stopposa e dura. E’ che lo zucchero è dappertutto: nella verdura, nella carne, nella pasta, tutto è dolce e stucchevole, ogni pasto nauseante. Nessuno straniero che conosca riesce a mangiare shanghainese; nessun cinese che conosca sostiene che al cucina shanghainese sia buona (a meno che non venga da Shanghai). Ciò significa che il piacere di buttarsi nella bettola sotto casa e pasteggiare con pochi centesimi di euro non c’è più. Non solo: anche i ristoranti stranieri, se gestiti da locali, si adattano al gusto locale: mi trovo a mangiare spaghetti dolci, cibo alla pechinese dolce, pizza dolce, hamburger dolce. E il pane dolce è la cosa più avvilente: pane intriso di burro e zucchero, con la generica etichetta “pane”, quasi fosse normale; così non si distingue nemmeno dal pane normale.

In questo inferno di città ci passerò sei mesi filati, ma il mio lavoro mi permetterà di tornare a Pechino relativamente spesso.

2006-10-21

Business in China

Appena vedo la gente che c’è con me in aula, il primo giorno di lezione di questo corso tenuto in un palazzo seicentesco del centro di Milano, mi rendo conto che la gente qui non è tanto normale. Nessuno ha capito con che criterio abbiano aggiudicato le borse di studio: la voce è che le candidature siano state 440, le borse 40. Le quaranta persone in questa classe sono tutte strane, tutte dannatamente alternative, fuori da qualsiasi schema, con le esperienze più incredibili alle spalle.
Quelli che come me sono stati in Cina a lavorare un periodo sono parecchi; qualcuna ci è stata a studiare e poi si è laureata sinologa; c’è un ingegnere di Parma di trent’anni, che quando stava all’università ha passato un periodo all'università Xi’an, in mezzo al nulla; un architetto che a Shanghai ha studiato la struttura urbanistica e ci ha fatto una tesi di dottorato; una ragazza che a Pechino ci ha vissuto da piccola perché il padre lavorava in Cina; pochissimi quelli che non ci sono mai stati. Di questi, uno ha sostituito con l’Iraq, dove ha partecipato a un progetto umanitario; un altro si è fatto New York in Morgan & Stanley.
Si tratta di solitari, gente talmente fuori dagli schemi che non la si può catalogare in nessun gruppo. Gente tipicamente accomunata solo dalla passione per le sigarette – la Cina segna le abitudini di un fumatore – e quella per l’alcool – durante quei mesi di corso, saremo tutti ubriachi diverse volte a settimana, complice la Milano da bere.
E’ strano sentirsi una mosca bianca e poi all’improvviso trovarsi in un nido di mosche bianche. E’ un po’ quello che sentono tutti, nel corso. Niente formalismi, è amicizia da subito tra quasi tutti. Nasce un gruppo niente male, i cui legami, le cui guanxi, dureranno nel tempo.

Al termine del corso si svolgono dei colloqui per l’assegnazione di stage, ce ne sono solo tredici. Ne ottengo una, da parte di una grande azienda alimentare italiana. E così, dopo una festa alcolica, un training di tre settimane tra Milano e Lugano dove ha sede l’ufficio export, e tanti saluti, mi ritrovo con sei compagni di corso di quel di Shanghai.
“Non è Pechino ma ci si accontenta” mi dico.

Niente di più sbagliato.

Guanxi

Guanxi (关系) viene generalmente tradotto come “relazione”, ma ha anche l’accezione di qualcosa che si incrocia, che lega. Guanxi può essere l’incrocio di due strade, o il nesso tra due argomenti. Una di queste tante accezioni è la più comune, e quella che ci interessa dal punto di vista socio-culturale: guanxi è la relazione che si instaura tra due persone. Quando io conosco qualcuno, stabilisco una guanxi. La qualità di questa guanxi migliora tanto più sono profondi la fiducia e il rispetto reciproci.
La Cina è un Paese antico, come l’Italia, il centro di una civiltà che si è diffusa in tutto il pianeta; ne va da sé che anche i rapporti sociali tra le persone siano stati strutturati in modo particolarmente complesso. Ma mentre in Occidente il nostro pensiero ha portato alla generalizzazione dell’essere umano, “il prossimo”, “l’umanità”, in Cina le relazioni sono rimaste sempre molto specifiche, differenziate da persona a persona.
Tradotto in parole semplici, mentre in Occidente noi tendiamo a trattare tutte le persone allo stesso modo, almeno in linea di principio, i cinesi discriminano. Verso chi non si conosce è possibile mentire, è possibile truffare, è possibile tutto perché ci sono ben pochi doveri morali verso uno sconosciuto. Le cose cambiano quando due persone si conoscono: costruiscono un rapporto di fiducia. I cinesi dicono “dare la faccia”, ovvero permettere a una persona di entrare nella propria sfera personale, instaurare un rapporto umano e mostrare i reciproci limiti e punti deboli, al fine di costituire un rapporto di fiducia. Quando c’è fiducia, c’è una buona guanxi.
Quando i cinesi hanno bisogno di qualcosa, si affidano alle persone con cui hanno una buona guanxi: anzitutto la famiglia, quelli dello stesso sangue; quindi le persone che conoscono da molto tempo, tipicamente amici di famiglia, vicini di casa, compagni di scuola, colleghi. Evitano il più possibile di doversi affidare e fidare di chi non conoscono. Ciascun cinese coltiva le proprie guanxi con telefonate, inviti a cena o a prendere il tè, auguri, regali piccoli e grandi. Le persone con cui si condivide una buona guanxi sono un’assicurazione per il futuro.
Questo modo di pensare porta, nel mondo degli affari, a vari atteggiamenti che noi occidentali potremmo definire “favoritismi”, “nepotismo”, “lobbismo”, “mafia”. Mettiamo che io debba assumere una persona: come faccio a sapere che questa persona lavorerà sodo e non tradirà l’azienda quando più gli conviene? Tramite le guanxi: la figlia del mio compagno di scuola, il fratello di un mio amico, il fidanzato di mia cugina. Devo trovare un fornitore: cercherò qualche azienda tramite le mie guanxi. Devo concedere un prestito: darò la preferenza a chi può garantirmi fiducia, tramite le guanxi.
Questo sistema di ragionamento è antico quanto il Confucianesimo, estremamente razionale, molto efficiente in una situazione di incertezza. Equo non tanto, perché rafforza le gerarchie. Ma applicato con onestà, dando fiducia a chi se la merita con le azioni, è perfetto. E poi i cinesi non hanno il tabù della gerarchia che abbiamo noi in Occidente: noi mettiamo la legge meccanica al di sopra di tutto e nel lavoro calcoliamo il valore delle persone in denaro fatturato o in anni di servizio. I cinesi sono più discrezionali, non generalizzano e non semplificano come facciamo noi. Se ci pensiamo, poi, la mentalità italiana non è tanto diversa oggi, e se guardiamo indietro nel tempo di qualche decennio è quasi uguale.

Anche io imparo a coltivare le mie guanxi. E’ un piacere sottile, perché mescola rapporti umani ed economici, senza slegarli astrattamente. Per molti versi il sistema delle guanxi umanizza il sistema economico, lo rende meno arido e spietato. Una delle mie guanxi mi verrà estremamente utile nella ricerca del lavoro, perché mentre molte decine di miei CV mandati via posta elettronica vengono cestinati dalle aziende italiane presenti in Cina, un CV passato a mano da un’amica – che lasceremo innominata – all’ufficio personale della Camera di Commercio in cui lavora, mi frutterà due colloqui e infine il mio primo contratto di lavoro.

Purtroppo, mi rendo conto, le mie guanxi sono forti ma non abbastanza in alto. A 24 anni le guanxi in alto non si creano da soli, si ereditano. E siccome io non ne ho ereditate, devo lavorarci: dimostrando alle persone che ho attorno la mia buona volontà, la mia intelligenza, il mio rispetto, la mia sincerità, la mia credibilità. Il mio primo lavoro mi fa lavorare con la Cina ma non mi ci manda. Tre mesi dopo l’assunzione il contratto non viene rinnovato, ma vengo assunto in un’associazione di categoria, dopo che la segretaria del direttore, con cui avevo collaborato in Camera, passa il mio CV al suo capo lodando la mia professionalità. Questa volta lavoro ottimo, ambiente sereno, stipendio da sogno, ma niente Cina. Sono quasi sul punto di rinunciare al mio ritorno in Oriente quando, a due anni dalla mia partenza per Pechino, ricevo un’e-mail dalla mia università, un invito a un concorso per borse di studio che finanziano un corso di tre mesi a Milano sull’economia cinese, e uno stage semestrale direttamente in Cina. La coordinatrice del progetto è la mia relatrice di tesi, quella che mi ha spedito la prima volta in Cina, a forza. Non so se si ricordi di me tra i tanti suoi ex-studenti, se si ricordi della mia tesi per cui aveva proposto sette punti, della nostra guanxi gelidamente professionale, fatta di incontri su appuntamento e dialoghi formali e misurati. Forse se ne ricorda, ed è per questo che mi è arrivato l’invito via e-mail. Forse se ne ricorderà, se la scelta dei candidati spetterà a lei. La parola guanxi, dopotutto, me l’ha insegnata lei durante i suoi corsi all’università. Mando il materiale necessario all’iscrizione e prego. Poi, un’e-mail dall’università per richiedere un colloquio motivazionale. E poi, una telefonata dall’ufficio relazioni internazionali: “Complimenti, Lei è stato scelto tra i beneficiari della borsa di studio per il programma Business in China”.

2006-10-19

Laurea

L’autunno che segue è segnato da nuove compagnie. Abbandono tutte le vecchie abitudini e le vecchie amicizie, conosco tanta gente quanta non ne ho mai conosciuta nel resto della mia vita a Milano. Sono sempre in giro, la sera. Cambio, sperimento, cresco; è come una febbre che mi spinge lontano da ogni staticità. La mia vecchia vita mi va stretta. Quella nuova pure, ma un po’ meno. Continuo a sognare la Cina, in fondo.

E poi, finalmente, poco più di un anno dopo la mia partenza per Pechino, sono all’università davanti a una schiera di professori, a presentare la mia tesi di laurea. E’ una bella tesi. La mia relatrice chiederà 7 punti, me ne daranno 5 perché è palese che sui numeri ho un po’ bluffato. D’altra parte, chiunque abbia consultato l’annuario statistico cinese si rende conto che nulla torna, le cifre che contiene sono bluff completi e nemmeno coerenti con sé stessi. Pazienza. 101 su 110 è più di quanto chiedessi. E ora sono laureato.

Pronto a entrare nel mondo del lavoro, mi manca solo un’azienda che mi rispedisca in Oriente. Elena è presente alla mia discussione. Ora lavora a Milano: ha lasciato la sua azienda, stufa della Cina, per lavorare ad Agrate Brianza. Poi non ha retto nemmeno lei all’Italia, e ha accettato una proposta per tornare in Cina, a Shanghai. In quei giorni è ancora a Milano per un periodo di training. Ci siamo visti, di tanto in tanto, a commemorare i bei vecchi tempi di Pechino. Questa volta mi porta un regalo, da parte sua e del capo alla Camera di Commercio. Un libro fotografico di Yann Layma, un fotografo che ha girato tutta la Cina e ne ha fotografato ogni angolo. Un regalo significativo, perché è un augurio.

Purtroppo il neolaureato, anche se con una buona laurea, un buono stage e una conoscenza discreta del cinese, si trova davanti un mondo del lavoro che non lo capisce. Mi offrono posizioni nel settore delle assicurazioni, della finanza, delle risorse umane, tutti basati a Milano.
“Veramente vorrei andare in Cina”
“Ah, bene, complimenti per il coraggio. Ce ne vorrebbe di più di gente come lei. Purtroppo per la Cina non abbiamo nulla da offrirle. Buona fortuna”.

Quattro mesi di attesa, colloquio dopo colloquio, ciascuno più fuori luogo dell’altro. Poi, finalmente, a giugno qualcosa si muove.

Lakshmi

L’ho amata quando avevo quattordici anni, ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Poi si è messa con un mio amico, e ci è rimasta cinque anni. Quando si sono lasciati, mi sono innamorato ancora di lei, ma ancora non ho avuto il coraggio di dirglielo. E lei si è messa assieme a un altro.

Anche io le piacevo, lo so. Ma la verità è che non ho mai avuto le palle per dirle in faccia che l’amavo e invitarla fuori. Non riuscivo a parlarle. Mi tremavano le gambe e il cuore mi batteva se solo la vedevo. Dopo la seconda volta, ho deciso di sparire, tagliare i ponti. Finita la scuola superiore non l’ho più vista, non ho nemmeno più voluto sapere dove fosse finita. Ma la sognavo ancora, la notte, di tanto in tanto, a distanza di mesi una volta dall’altra. Ritornava sempre a tormentarmi con la mia sconfitta morale, il mio fallimento e il mio desiderio. Per lei avevo scritto la mia prima poesia; è anche per causa sua che ho cominciato a interessarmi di India; l’esperienza dell’amore fallito mi ha reso ciò che sono, dannatamente romantico e insicuro.

Ma la Cina è arrivata come uno shock. E’ stato come dimostrare a me stesso che potevo fare qualcosa di molto più significativo delle persone che avevo attorno. Sono cambiato, niente più timidezza, niente più insicurezza. Sognavo Laksmi pochi giorni dopo essere arrivato a Pechino, all’hotel Dabei. La sogno ancora a maggio, un paio di settimane dopo essere tornato in Italia. E’ tempo di affrontare il mio demone, una volta per tutte.

La scusa del mio ritorno è ottima per incontrare vecchie conoscenze comuni. In qualche giorno riesco a scoprire che abita sempre nello stesso posto e che lavora in centro a Milano, vicino a via Torino. E’ il 10 giugno quando – con lei sosterrò sempre che passassi di lì per caso – la incontro, sola, che torna dalla pausa pranzo.

Lingua asciutta. Gambe che tremano. Cuore che batte. Non la vedevo da cinque anni è l’effetto è sempre lo stesso. Qualche parola scambiata così, e un appuntamento per un aperitivo. Molto più di quanto mi aspettassi. All’aperitivo scopro che, come me, non ha programmi per le vacanze.
“Perché non andiamo insieme, io e te, in vacanza?” mi chiede.

Non è possibile. E invece è vero. La vacanza che segue è di gran lunga la più surreale della mia vita. Due settimane, zaino in spalla, nessuna prenotazione; Milano-St-Maries de la Mer-Barcellona-Madrid-Burgos-Santander-Saragozza-Barcellona-Milano. Tutta in pullman o in treno, senza nemmeno una guida Lonely Planet.
E’ la prima volta, mi rendo conto, che spendo tempo con Laksmi. Mi rendo conto solo ora che la ragazza che amavo esisteva solo nella mia mente. Lei è diversa – bellissima, dolce, folle, piena di energia – ma pericolosa. Innocente, ingenua, irresponsabile. Tutti i suoi ex sono ancora innamorati di lei. Quasi tutti sono in analisi dopo che la storia è finita improvvisamente. Lei ne ride: “Me li cerco col lanternino”. Non capisce, non ha mai letto nel cuore di un’altra persona. Afferra la vita e la morde, ma non guarda alle conseguenze. E’ così bella e così pericolosa da far impazzire gli uomini. Si è messa con un tizio un paio di settimane prima, e usa questa scusa per darmi picche. Per due settimane viaggiamo, mangiamo, dormiamo assieme. Nemmeno un bacio. Probabilmente l’idea che potesse piacermi non le è passata per la testa all’inizio. Ora che capisce comunque le interessa poco. La donna con cui ho sempre sognato un futuro non esiste. La donna che ho davanti non promette un futuro a nessuno. Lascerà il suo ragazzo alcuni mesi dopo, per mettersi con un australiano vegetariano conosciuto in India tre settimane prima.

Ho sconfitto il mio demone? Sono cambiato abbastanza?
Non esiste più una battaglia da combattere. La Laksmi che ho tanto amato non è mai esistita nella realtà, e ora nemmeno nei miei sogni. Non c’è nulla che possa fare per cambiare la realtà in ciò che non è mai stata.

Ma ho trovato qualcosa di importante: la pace. Ora siamo amici, e io non la sogno più. Rido, pensando alle mie illusioni di una volta. Non per l’ingenuità di un tempo, ma per la libertà di oggi.

Grazie, Cina.

2006-10-09

Fumare al tramonto

Nei mesi successivi, nei pigri pomeriggi milanesi, quando il sole comincia a scendere dietro i palazzi e gli alberi colorando di rosso il cielo azzurro, spesso metto su una delle canzoni di Pechino. La porta del balcone spalancata, mi siedo a guardare fuori, e mi accendo una Zhongnanhai 8, estratta dai pochi pacchetti che ho portato con me in Italia.
Non fumo più come prima, a Milano. Si sente che l’aria è pulita e la puzza del tabacco rimane addosso. Fumo meno, e con più gusto. La sigaretta mi porta indietro ai ricordi di poche settimane prima, e penso alla mia avventura e a quanto è cambiato dentro di me. Guardando la strada sotto casa mia, sembra tutto un sogno: sono davvero stato in Cina?

Sì, ci sono stato. E ci tornerò ancora.

2006-10-08

There and back again

Tornare in Italia è strano. La gente parla la mia lingua, mi capisce e la capisco. E’ come se fossi stato parzialmente sordo e muto per mesi, e all’improvviso avessi riacquistato tutte le capacità. Ma dopo l’euforia comincio a chiedermi: a che serve? A che serve comunicare nel dettaglio con la maggior parte delle persone? A che serve capire la televisione? A che serve leggere i giornali? Non è meglio essere sordi e muti, ma concentrati e lucidi?
L’Italia è sedante, come se tutto fosse sfuocato, tutto attutito. Sono bombardato da informazioni e stimoli che non voglio, e nello sforzo di filtrarli perdo gran parte della mia percettività, non vedo e non trovo più le piccole e le grandi cose che mi interessano.
Nulla è cambiato da quando sono partito: tre mesi, mi dicono, non sono molti. Ma la mia vita è cambiata, perché qui non è cambiato nulla? Stesso lavoro, stessa università, stesse coppie, stessi posti preferiti, stesse opinioni. E’ come guardare a un dipinto ad olio. Le persone che conosco mi trattano come se fossi lo stesso di prima, ma non lo sono. Non lo sarò mai più: niente più timidezza, niente più compromessi con l’ottusità milanese, niente più giornate passate a vivere in mondi immaginari. Ho bisogno di nuova aria.

Pechino mi manca da subito, e cerco conforto nel contattare i miei compagni di laggiù.
Massimiliano torna due settimane dopo di me. Ironia della sorte, il giorno di Pasqua, 20 aprile 2003, il giorno successivo alla mia partenza, coincide con l’ammissione ufficiale del governo cinese circa la malattia. A Pechino, mi racconta Massi, scoppia il panico. Intere aree in quarantena, assalti ai supermercati e poi il deserto. Il terzo anello vuoto, i bar di Sanlitun vuoti. Pochi ormai vanno al lavoro, praticamente nessuno esce la sera e va in luoghi pubblici. Massi, che ha perso anche il suo supporto linguistico, si impigrisce ancora di più, immerso nella solitudine, consapevole della prossima partenza. Come me, tuttavia, si ostina a far scadere il visto prima di ripartire. Quando torna in Italia si sente esattamente come me, sedato né più né meno.


Christian torna nei miei stessi giorni, ma non a Milano, bensì in Bulgaria, a trovar la fidanzata storica. Questa, disfandogli la valigia, gli becca i capelli lunghi e nerissimi di Betty tra i vestiti e, nonostante l’italiano sostenga trattarsi dei capelli dell’aiyi, la storia finisce. Era destino. Betty, di lì a poco, di sposerà con un cinese. Ma a Christian non potrebbe importare di meno, la vita è cambiata anche a lui. Partirà presto per l’università di Dalian, per studiare cinese un semestre.


Stefano rimane solo, a Pechino, a presidiare l’ufficio, dopo che tutti i suoi colleghi sono partiti. Eroico, si fa tutto il periodo della SARS nel Kerry Centre, accettando con orgoglio la sua condizione di sacrificio umano alla malattia e alla professionalità. Se la caverà benissimo, grazie al cielo.


Jingyi come al solito esibisce coraggio e tranquillità di spirito. Per tutto il periodo della SARS frequenta l’unico bar rimasto aperto a Pechino, il the Tree. Cocktail economici, musica funky, luci stroboscopiche e una sala che sarà forse trenta metri quadri. Il DJ, un inglese con i capelli neri e riccissimi stile afro, è anche il proprietario. Ci sentiamo per mail ancora qualche volta, io e Jingyi, ma le sue risposte tardano sempre a venire. Alla fine capisco che preferisce tagliare completamente i ponti, e smetto di scriverle.


L’ambasciata per una volta viene utile: tramite una mailing list di istruzioni in caso di SARS, trovo l’indirizzo e-mail di Benedetta, la migliora amica di Jingyi, in Cc. La prima volta non mi risponde. La seconda è gentilissima e pare sia diventato il suo miglior amico. Poi basta, non si sente più, nemmeno per rispondere agli auguri di Natale, mesi dopo. Stronza.


Il mio capo si sposa con il suo fidanzato a casa sua, in Nepal, con rito induista. Il loro viaggio di nozze percorre il Nepal insieme a tutti gli invitati per un paio di settimane, come una carovana principesca. Vaira si sposa con Vikash quell’estate, ma con rito civile italiano all’ambasciata, alla presenza dei soli genitori: il matrimonio induista è fissato per l’anno seguente a Mauritius.


Marco scompare. Ci sentiamo una volta dandoci appuntamento in un McDonald e non si presenta. Tipico di lui. E’ l’ultima volta che lo sento.

L’unica amica che rimane fissa in Cina è Elena. Non so perché, ma pur essendo la persona che ho meno frequentato in quel periodo a Pechino, è anche quella con cui a volte mi intendo meglio. Paradossalmente, sarà quella che nei mesi a venire incontrerò più spesso.

La mia colonna sonora

In Cina i CD costano poco, tipicamente 10 kuai, di più se sono originali (raro e difficile trovarli, e comunque la differenza di qualità tra copia e originale non si trova), anche meno in certe zone periferiche e per i CD con custodia di carta plastificata. Nei tre mesi che passo a Pechino ascolto musica continuamente, al computer in ufficio, sul DVD di camera, con il lettore portatile preso in prestito da Massimiliano o, più tardi, quello comprato per me al mercatino dell’elettronica. L’acquisto è compulsivo, perché tutto quello che uno ha sempre voluto avere nella sua collezione è lì a portata di mano. Di tutti i CD che compro, ce ne sono alcuni che entrano nella mia testa e nel mio cuore e mi ricorderanno per sempre di quel periodo a Pechino. Gli Oasis sono i primi, con Heathen Chemistry: “Better Man” è il mio desiderio di rinascita quando ancora il mio pensiero va alla terra che ho lasciato. Santana mi accompagna nei primi giorni al Poachers – “America” canta dei fianchi generosi e della pelle scura di Mina, e “Game of Love” celebra il gioco dell’amore fine a sé stesso, senza colpa o attaccamento.

Nelle mattine di sole, nelle strade laterali tra Sanlitun e l’ufficio, ascolto a palla i Red Hot Chili Peppers con By the Way. “Tear” è il mio saluto al sole, e “Venice Queen” è la sinfonia ipnotica che la sera mi culla, dopo ogni giornata più sorprendente e incomprensibile della precedente.


I Blue Öyster Cult cantano Curse of the Hidden Mirror, e il verso “you elevate me” di “Dance on Stilts” è l’esultanza dei weekend passati con Jingyi. “I left my soul there, down by the sea”, dei Morcheeba, parla del primo bacio davanti alle acque del pigro Liangma, e “Part of the Process” della vita squattrinata da stagista che nulla sa del suo futuro.


E’ poi la scoperta dei Coldplay, con Parachutes e a Rush of Blood to the Head: mi tengono compagnia la mattina e la sera, nelle giornate grigie, o da solo nella sala fumatori del Jingguang, quando penso a Jingyi e al fatto che tutte le difficoltà della vita non sono altro che una cornice ai momenti belli e dolci. “God put a smile upon your face” è un inno al sorriso, e “Yellow” è il costante pensiero alla mia ragazza gialla.


Massimiliano cita spesso il “Per le strade di Pechino erano giorni di maggio / tra noi si scherzava a raccogliere ortiche” di Battiato. E’ la nostra amicizia e il costante scherzare sul nonsense di essere qui. Su suo impulso compro il mio primo CD dei Led Zeppelin: “Stairway to Heaven” è la scoperta di un mondo incantato che non si conosceva e comunque sfugge alla comprensione, e “Babe I’m gonna leave you” è il lamento del prossimo distacco da un amore, una donna ma soprattutto, lo capirò dopo, da una vita, da una città. I Verve in Urban Hymns cantano in “Catching the butterfly” dell’inseguimento dei sogni, e in “Lucky Man” della soddisfazione e della completezza della libertà.


I R.E.M. in Out of Time ricordano la leggerezza spirituale di chi vive la primavera di Pechino con “Radio Song”, e la malinconia di qualcosa che finisce in “Endgame”. Chiude il giro una singola canzone immortale, ascoltata al Goose & Duck una delle ultime sere, con davanti un black russian: la band filippina, coverizzando Bob Dylan, canta “How does it feels / to be on your own / like a complete unknown / like a rolling stone”. Aver vissuto tre mesi a Pechino dall’altra parte del mondo, da soli, abbandonati, liberi, cresciuti.

2006-10-07

Babe, I'm Gonna Leave You

Babe, baby, baby, I'm Gonna Leave You.
I said baby, you know I'm gonna leave you.
I'll leave you when the summertime,
Leave you when the summer comes a-rollin'
Leave you when the summer comes along.
Baby, baby, I don't wanna leave you,
I ain't jokin' woman, I got to ramble.
Oh, yeah, baby, baby, I believin',
We really got to ramble.
I can hear it callin' me the way it used to do,
I can hear it callin' me back home!

Babe...I'm gonna leave you
Oh, baby, you know, I've really got to leave you
Oh I can hear it callin 'me
I said don't you hear it callin' me the way it used to do?

I know I never never never gonna leave your babe
But I got to go away from this place,
I've got to quit you, yeah
Baby, ooh don't you hear it callin' me?
Woman, woman, I know, I know
It feels good to have you back again
And I know that one day baby, it's gonna really grow, yes it is.
We gonna go walkin' through the park every day.
Come what may, every day

Sweet baby, it was really, really good.
You made me happy every single day.
But now... I've got to go away

Baby, baby, baby,
That's when it's callin' me
I said that's when it's callin' me
back home...

Addio

E’ tempo di partire. La penultima sera dormo a casa di Jingyi. Al mattino usciamo presto. Michiko, la coinquilina giapponese, è ancora in camera, io Jingyi e l'altro coinquilino Joey scendiamo nelle strade nella luce grigia del mattino. Loro prendono il bus verso l’ufficio, io un taxi verso Poachers. Nonostante tutto la differenza tra me e loro si nota ancora nello stile di vita, o forse non è una questione culturale, ma una puramente economica.
 



L’ultima sera, il 18 aprile 2003, la passo a casa di Alberto e Yao; ci sono Sasha e Patricia, c’è Loredana. C’è Jingyi e ci sono io. Le nostre mani si stringono come sempre, al mio anulare un anello tibetano come una catena, appartenuto a lei; al suo pollice un anello tibetano, con il mantra “Om mani padme hung”, il mantra della completezza, appartenuto a me. Ce li siamo scambiati un giorno, dopo aver fatto l’amore. Sono anelli aperti, con una breccia nel cerchio; non sono fatti per legare. Sono il simbolo del nostro rapporto.


Verso mezzanotte sono tutti stanchissimi, molti dormono sulle poltrone dopo una giornata intensa di lavoro. Non li sveglio nemmeno per salutarli. Yao mi accompagna alla porta, ci abbracciamo. Poi io e Jingyi scendiamo in strada, ai piedi delle grandi torri che segnano l’entrata allo Spazio 798. La notte è grigia e silenziosa, e a parte qualche occasionale veicolo che passa per la via, siamo soli. Lei è allegra e cerca di ridere mentre attraversiamo il ponte stradale, ma è una finta. Quando legge nei miei occhi la consapevolezza dell’addio, le lacrime sgorgano spontanee. L’abbraccio forte, ed è il nostro ultimo abbraccio. Vorrei baciarla, e lei lo capisce. Ricaccia le lacrime.
“Let us say good bye as friends, good friends”


E’ allora che capisco che non ci sarà un ultimo bacio tra noi, mai più. E’ come una pugnalata, ma l’accetto. Anche i miei occhi si inumidiscono, ma il mio orgoglio come sempre vince. Non voglio piangere come un bambino, di fronte a lei. I nostri sguardi come al solito comunicano meglio delle parole. Lei lascia scivolare la sua mano dalla stretta della mia, e mi rivolge una preghiera:
“Please, don’t be special to me”.
 



Il taxi si ferma, la luce dei lampioni riflessa sulla carrozzeria rossa. Lei sale, chiude la portiera. Poi abbassa il finestrino; non vuole o non riesce a sorridere: “Good bye and take care. Come back soon”.
Sorrido io, strizzandole l’occhio. La vedo sparire su quel taxi nella notte di Pechino, e non so se la rivedrò ancora.
 



Mi siedo sul retro del mio taxi e non scambio parole con il tassista. “Sanlitun’r” è l’indicazione che gli do. Lui annuisce grugnendo. Poi cambio idea, e quando è all’altezza delle ambasciate lo faccio fermare. Scendo, sarà l’una. E’ come se mi sentissi una febbre improvvisa addosso. Invece di proseguire verso l’ostello torno indietro, verso nord. Cammino veloce, poi comincio a correre, finché non arrivo sulle rive del canale Liangma, dove quella sera ci siamo baciati.


Il respiro è pesante, ma non per la corsa. Improvvisamente comincio a singhiozzare, come se le corde che trattenevano le mie emozioni si fossero strappate tutte insieme. Prostrato a terra, tocco il suolo con la fronte, e le lacrime rigano il mio volto e cadono sulla terra. Mi copro il viso con le mani ma non riesco a fermare il pianto lacerante. Inginocchiato sotto i salici, a fianco della acque serene del Liangma, do sfogo completo al mio dolore.

Non avrei mai immaginato sarebbe stato così duro andarsene.