2006-07-31

Poachers - Il Bar


Dal momento che l’ostello comunica con un bar/discoteca, decidiamo di provarlo. Quando fuori è sottozero e dentro ci sono trenta gradi di temperatura bisogna vestirsi a strati e buttare tutto in un angolo sperando che nessuno decida di rovistarci; ma se puoi passare dalla camera al locale direttamente, ci arrivi in maglietta e non ti preoccupi.
La prima sera al Poachers vede me, Massimiliano e Christian sperimentare la vita notturna di Pechino. Il locale è piuttosto grande e la clientela è giovane grazie ai prezzi popolarissimi praticati – 5 RMB birra locale alla spina, 15 una Carlsberg. Il risultato è una folla di studenti di tutte le nazionalità che ballano ubriachi al ritmo di musica commerciale di almeno cinque anni prima. La sala è relativamente buia, con grandi tavoli e sedie in legno. Ci sono due soppalchi per chi vuol stare più tranquillo, e infine un palco illuminato dove balla lo zoccolo duro dei clubbers. Non so perché – ho sempre odiato ballare e sono sempre stato timido – però mi fiondo diretto sul palco.
Christian rimane titubante, e palesemente non si trova a suo agio. La discoteca non fa per lui. Massimiliano è in pace con sé stesso: ordina una birra, si accende una sigaretta, e si gode lo spettacolo con il sorriso sulle labbra. Io mi infilo nella folla e ballo. Ci sono europei, americani, africani, cinesi, tutti alticci o ubriachi, tutti sorridenti, tutti gentili. Nessuno tirato nel vestire o che storti il naso come in Italia, sono qui per divertirsi senza troppe paranoie. E’ un paradiso, per la prima volta mi sento a mio agio in una discoteca. E la cosa più strana è che la gente balla avvinghiata: ragazzi e ragazze appiccicati che scuotono il bacino senza apparente imbarazzo. Davanti a me c’è una ragazza cinese bellissima, con canottiera bianca e gonna a quadrettoni da collegiale.
“Vai!” mi grida Christian “ci sta, avvinghiati!”
Massimiliano annuisce, con un sorriso che non è chiaro se sia una benedizione o una presa per il culo. Guardo la ragazza, che mi dà le spalle e mi si avvicina. La sua amica, che le sta di fronte, mi sorride con aria saputa. E sia, mi avvinghio.
Cazzo, ci sta. Non ci credo.
Ballo con lei per un po’, appiccicato, corpo contro corpo in una tempesta di ormoni. Poi lei si stacca e va da un altro, io acchiappo un’altra ragazza cinese. Poi una straniera. Poi un’altra cinese. Ma che posto è questo? In Italia se fai una cosa così con sconosciuti o ti becchi un schiaffo, o ti accoltellano. Invece qui tutto è rilassato, gioioso, razze e colori mescolano in un equilibrio perfetto, senza pregiudizi o distacco inutile, e nessuno abusa di questa libertà.
Alla seconda birra mi muovo poco sicuro ma felice verso il bagno, e davanti ci trovo parcheggiati tre ragazzi africani.
“Hey man… “mi dice uno, con la voce affascinante e profonda che solo i neri hanno “do you want some shit?”
“Sorry?” chiedo, confuso.
“Hash” specifica, ammiccando “marijuana, ganja… ”
Mi guardo attorno, e incontro sguardi sornioni dei suoi compari. In questo posto, tutti i neri spacciano, e tutti gli spacciatori sono neri. Altro che negazione dei pregiudizi. Sospiro. Non tutto può sempre essere perfetto.
“No, thank you” dico.
“Ok, man, see you!” dice il pusher, stringendomi la mano come si fa coi bro.
“Ok” dico, dubitando per una volta della mia ingenua positività “see ya…

2006-07-30

Tutto scorre

Fresh fish

Di fianco al Poachers c’è un grande ristorante cinese, di quelli con gli acquari all’entrata. Appena dopo la porta a vetrata, superate le ragazze in qipao colorato che aprono i battenti, a entrambi i lati ci sono grossi acquari pieni di pesci, granchi, gamberetti, rane, anguille e tartarughe. Una sala enorme piena di tavoli tondi, e alcune salette private per gli ospiti col portafoglio più grasso. Io e Massimiliano decidiamo di provarlo, dato che è sotto casa e ha il menù in inglese, e per l’occasione tiriamo in mezzo Christian e Stefano.
La prima sera rimaniamo estasiati a guardare l’acquario. La prassi è la seguente: il cliente sceglie la sua portata, un cameriere la pesca con il retino, la mostra ancora viva per avere approvazione, quindi a) la porta in cucina per essere cucinata viva, prova di freschezza in un paese dove la conservazione dei cibi è materia sconosciuta, oppure b) infila la portata ancora viva in un sacchetto e la scaglia violentemente sul pavimento più volte, finché non smette di muoversi, quindi la porta in cucina per essere cucinata. Quella sera mangio anguilla, un grande piatto brodoso pieno di fette piene di ossa e lische, grasso ma fondamentalmente buono. La prossima volta mi riprometto di assaggiare la tartaruga.
Decidiamo di tornare al ristorante tre giorni dopo: ci passiamo davanti alla mattina, e guardiamo l’interno con anticipazione. Quando la sera torniamo dall’ufficio, davanti all’entrata ci attende uno spettacolo incredibile. Il carattere 拆 è marcato e cerchiato in rosso su tutto il perimetro dell’edificio; le vetrine sono frantumate; la mobilia sparita, e invece dei camerieri un esercito di operai sta demolendo i muri dell’esercizio in una nube di polvere e macerie. Il locale dove abbiamo mangiato tre giorni fa non esiste più.
Al posto del ristorante, poche settimane dopo sorgerà una fila di piccoli club privati e gallerie d’arte. Anche questa è Pechino, nella sua imprevedibile e continua mutabilità.

2006-07-29

Ancora in cerca di sistemazione


Il secondo giorno di ricerca, una domenica pomeriggio, si concentra sugli ostelli, e in particolare sull’Ostello Internazionale della Gioventù che sta sul Terzo Anello, proprio alle spalle dell’Hotel a 5 stelle Great Dragon. E’ una costruzione bassa e di colore giallo ocra: pieno di stranieri giovani che vanno e vengono, e che lasciano me e Massimiliano a goderci lo spettacolo per qualche minuto. Sfortunatamente, il servizio è tutto tranne che buono: gente distratta, demotivata, che ci mostra le camere senza dimostrare grande interesse. E le camere… orribili, quattro posti letto incastellati a due a due, e costose. E il bagno al piano… lercio e umido a livelli indescrivibili. No, io non ce la faccio a stare qui, e anche Massimiliano non è tanto convinto. Sicché butto lì un’idea stramba: andiamo a vedere il Poachers.
Ho sentito parlare del Poachers da un vecchio stagista dell’ambasciata che ci era stato. Anche il Poachers è un ostello, e anche se non è proprio comodo per andare in Camera di Commercio, dove lavoriamo, sta nel cuore di Sanlitun. Sanlitun, ma ci pensi?!? Massimiliano è scettico, ma mi concede una possibilità.
Poachers sta in una minuscola traversa di Sanlitun che non ha nome, e se ce l’ha a distanza di quattro anni non l’ho ancora scoperto (cartelli non ce ne sono). Da una parte c’è l’entrata del Poachers Bar, alle spalle e sopra il bar c’è l’ostello, cui si accede dal retro, in un vicolo che certamente non ha mai avuto un nome. La zona è verde e tranquilla, e i prezzi sono bassi. Andiamo al banco ma, contrariamente a quanto proclama il sito internet, il ragazzo della reception non parla inglese, e anzi ci dà l’impressione di essere mentalmente ritardato; ma dopo svariati tentativi riusciamo a fargli chiamare Zhu Li, ovvero Julie, una donna grassa con piccoli occhiali tondi che stava probabilmente dormendo ma tutto sommato si dimostra gentile. Chiediamo di vedere una camera che non stia sopra il bar, onde evitare il casino del weekend, e ce ne danno una dall’altra parte, che guarda al cortile interno e al vicolo senza nome. Per i corridoi silenziosi si incrocia di tanto in tanto qualche straniero, evidentemente un viaggiatore, che saluta e sorride. Un paradiso, e dopo una contrattazione breve spuntiamo anche un ottimo prezzo, 60RMB al giorno colazione compresa. Direi che è deciso, da settimana prossima ci trasferiamo qui.

 

2006-07-23

In cerca di nuova sistemazione


La vita al Dabei con Massimiliano procede bene: ci troviamo a nostro agio assieme, e abbiamo ingranato con la nostra routine. Al mattino si fa la strada assieme commentando sui cinesi che si incrociano. La sera si cena in qualche ristorante della zona, poi in camera. Ci si chiacchiera bene con Massimiliano, è una persona intelligente, aperta mentalmente, e spiritosa.
E’ lui che, più esperto di me in residenze fuori casa, mi spinge a cercare un altro posto dove vivere. Io sarei anche rimasto al Dabei, vuoi per inerzia mentale, vuoi per mancanza di immaginazione. Lui suggerisce di cercare un posto dove ci sia più vita, più stranieri, più compagnia.
Marco ci ha scoraggiati, dicendo che trovare un appartamento per tre mesi non è possibile ad un prezzo onesto. Falsissimo, ma al tempo ci crediamo, e seguiamo il suo suggerimento di provare in un residence. Marco ci ha dato tutte le dritte: chiedere nel tale hotel, parlare con il manager, fingere di essere in attesa di un lungo contratto, quindi chiedere un minimo di tre mesi ma suggerire una permanenza più lunga, senza prendere alcun tipo di impegno. Ci proviamo un sabato pomeriggio, grigio e pigro come gli altri.

L’hotel Melody sta in piena zona russa, nei pressi di Chaoyangmen. E’ un edificio d’angolo a pochi piani, ricoperto di piastrelle bianche e luminarie di ogni colore. Anche se da fuori sembra bruttino, l’interno è decisamente lussuoso, con pareti ricoperte in legno scuro e poltrone di pelle. Impieghiamo una ventina di minuti a far capire alla receptionist, che avrà 16 anni, che vogliamo affittare una camera a lungo termine e dobbiamo contrattare un prezzo con il manager. Finalmente, dopo averci presentato quattro o cinque volte la tariffa giornaliera, la ragazza ingrana e telefona a qualcuno.
Poco dopo, viene ad accoglierci una bellissima ragazza, con capelli lunghi e lucenti, jeans molto stretti e scarpe a suola alta. Ormai l’abbigliamento dei cinesi non ci stupisce più di molto, quindi non facciamo caso più di tanto alla cosa. La ragazza si presenta in un inglese semplice ma comprensibile, e ci fa accomodare su delle poltrone, in attesa del manager dell’hotel. Chiacchieriamo con lei e scopriamo che è mongola, e molto simpatica e gentile.
Poco dopo, riceve una telefonata al cellulare e comunica che il manager è pronto a riceverci nel suo ufficio, al piano superiore. Un bellissimo ufficio in legno scuro e poltrone di pelle nera. Il manager è vecchio e grasso, con la pelle scura e incartapecorita, e non parla una parola di inglese. Ci sediamo al tavolo con lui, con la ragazza e con un ragazzo cinese estremamente grasso, che funge da interprete in un inglese piuttosto buono rispetto alla media dei suoi connazionali. Le trattative sono serrate, diciamo tutto quello che Marco ci ha detto dire e spuntiamo uno sconto non male, anche se il costo della camera al mese rimane più alto del Dabei. D’altra parte la location è comoda, ci diciamo, e gli interni sono lussuosi. Chiediamo di vedere la camera.
La camera è enorme, elegantissima e luminosa, con pareti in legno scuro e moquette bianco panna. Fanno bella mostra di sé una pianta vicina alla finestra, un televisore di dimensioni enormi, e un letto a tre piazze, certamente il più grosso che io e Massimiliano abbiamo mai visto.
“Non ci sarebbe una camera a due letti?”
La domanda stupisce i cinesi.
“No, abbiamo letti singoli… king size!” sottolineano.
“ …grazie… ci penseremo e vi faremo sapere” rispondiamo, ragazzini ingenui.

Quando lascia la tua casa in Italia e vieni a Pechino, a 23 o 24 anni, non hai ancora la malizia per capire che il quartiere russo è uno dei principali centri della prostituzione in ogni città del mondo. E che il Melody non è un residence, ma un KTV dove gli uomini d’affari vanno ad ubriacarsi, cantare al karaoke e godersi la compagnia delle ragazze mongole. Che le camere hanno tutte letti king size perché i clienti ci vanno con le puttane. E che Marco, con il suo atteggiamento da esperto di Cina, non ha capito un c***o di tutto questo anche se di anni ne ha 27.

“Carina la ragazza mongola… ma che funzione avrà all’interno dell’hotel?”
“Sarà la PR, hai visto com’era vestita?”

Christian e Stefano

中国北京大北窑=CBD

La Bocconi è talmente disorganizzata che all’inizio del 2003 spedisce due studenti, uno di 23 anni e l’altro di 22, in Cina, e si dimentica di informarli l’uno dell’altro. Per vie traverse, vengo a sapere di Christian un paio di giorni prima della partenza. Lui fa lo stagista da nello studio legale italiano più famoso in Cina, che ha la sede a 5 minuti a piedi dal Jingguang. Ma ormai è tardi, abbiamo già entrambi prenotato il volo e la camera, e non ce la si fa a trovare un posto comune per stare. Mentre io sto nel mezzo del nulla all’hotel Dabei, Christian sta in un ostello per giapponesi nei pressi del Lufthansa Centre, molto più a nord.
I contatti sono difficili i primi giorni, e ci si sente per lo più via mail. Quando si passa al cellulare – Vaira gentilmente mi presta una tessera cinese extra che inserisco nel mio telefono italiano – siamo comunque troppo impegnati e stanchi per vederci spesso. Di tanto in tanto, però, si riesce a pranzare o cenare assieme.
Christian, nella memoria, è rimasto un po’ il ragazzo sfigato di Pechino. Non perché sia sfigato di suo, anzi è molto sveglio e in gamba. Ma gliene capitano di ogni. I suoi racconti dei compagni di camera sono fantastici, e il migliore rimane il giapponese che non parla inglese, arriva in camera e dorme. Poi si alza e se ne va. I due semplicemente non comunicano, né il giapponese sembra interessato a farlo, e l’unica sua apparente attività è quella di spargere forfora in ogni angolo della minuscola stanza.
Alla sfortuna della location, della compagnia, e del prezzo (decisamente alto), si aggiunge la sede di lavoro. Lo studio legale dove lavora Christian è famoso per essere totalmente privo di scrupoli, e sfruttare gli stagisti in modo turpe. Da noi in Camera di Commercio si lavora sodo, ma Christian tira le nove tutti i giorni, e spesso gli tocca anche andare in ufficio nei weekend a rivedere bilanci. Lo obbligano a portare la cravatta mentre i suoi capi vanno in giro con la camicia sbottonata. Spesso rimane solo, la sera, in ufficio, e una volta gli capita pure di ricever la visita di un ladro, un povero adolescente che una volta nello studio si rende conto che non ha idea di cosa rubare: i documenti non li capisce, e per lui non valgono nulla. Christian riesce a chiuderlo dentro un ufficio e a chiamare la sicurezza, che preleva il poverino e lo porta via, per non essere mai più visto.
In ogni ufficio credo circoli una leggenda sullo stagista più sfigato della storia. Quella della Camera di Commercio racconta di un bocconiano indisponente e inetto che per errore ha cancellato dei dati dal server ed è stato rispedito indietro che non era nemmeno a metà periodo, perdendo tutti i benefici della borsa di studio. La leggenda dello studio legale è peggiore: il loro bocconiano inetto era stato incaricato di “censire” le macchie sui muri e riportarle al management del Kerry Centre, in modo che venissero cancellate.
Dai racconti di Christian sembra che anche i suoi colleghi siano personaggi mica male, dal capo romano grasso e arrogante che non fa nulla da mattina a sera, alla contabile cinese isterica che insulta gli stagisti in inglese da un capo all’altro dell’ufficio. Ma la leggenda vivente è Stefano, il collega di Christian che gli fa da tutor e spesso lo segue quando i due escono dall’ufficio e raggiungono me e Massimiliano al ristorante o al mercato.
Quando lo conosco, Stefano mi pare un trentenne. Occhiali tondi, piazza che avanza, abiti da yuppie rampante e slogan da arrampicatore sociale. Più tardi scopro che ha la mia stessa età, solo che ha fatto lo stage l’anno prima di me, si è già laureato col massimo dei voti, ed è stato assunto dallo studio legale, dove lavora quasi tutto il suo tempo. Quando non lavora, studia per prendere la seconda laurea in giurisprudenza, imposta dallo studio a tutti gli assunti, e di tanto in tanto prende ferie per andare in Italia a dare esami. Genera frasi fatte a rotazione, tutte sulla falsariga di “No pain, no gain” e simili proclami da superuomo sopravvissuto. Massimiliano lo adora e non perde mai occasione di dargli corda, ridendo come un matto. Alla fine Stefano è un buono, adorabile in fondo nella sua innocenza, come quella volta che pontifica sulle donne e su come possono rovinare la carriera di un uomo, sulla sciocca dipendenza dai lombi e sull’indipendenza che dovrebbe avere l’uomo in carriera; e che, alzandosi da tavola, lascia cascare dalla tasca una manciata di preservativi e diventa rosso come un semaforo. Gli vogliamo tutti bene, e anche lui, come Christian, entra nel novero dei personaggi indimenticabili di Pechino.

2006-07-21

Chai e gli hutong

Chai

Pechino è un grande cantiere. Una città millenaria che, senza alcun apparente rispetto per le proprie radici, si autodistrugge quotidianamente per ricostruirsi più grande e più stalinista, in vista delle Olimpiadi del 2008. I cantieri sono ovunque e lavorano senza sosta, giorno e notte, sotto sole, luna, nubi, nebbia, neve, pioggia e vento. Qualche volta, si ferma per le tempeste di sabbia, ma solo per quelle grosse.

Interi quartieri di case tradizionali, i siheyuan (四合院), vanno distrutti continuamente. I siheyuan, letteralmente “corti a quattro lati”, sono case a un solo piano e a pianta quadrata, sviluppate attorno a un cortile interno, e raccolte in isolati separati da hutong (胡同), i vicoli stretti della vecchia Pechino. Sono case vecchie, abbandonate a sé stesse, prive di acqua corrente e spesso anche di luce. Sono un tesoro dell’umanità, e la matrice del tessuto sociale dell’antica Pechino, dove la vita pubblica si svolgeva nell’hutong, e quella privata nel siheyuan. Invece di restaurare, la municipalità spiana, rimborsa gli abitanti con grandi appartamenti in palazzi di periferia a venti piani, e dove c’era una parte storica di Pechino costruisce un megamall o un grattacielo commerciale.


Avevo letto di questo stupro nei libri di Terzani, ma vederlo con i propri occhi è diverso. Passeggio per strade senza tempo, dove la gente stende i panni, gioca a scacchi, chiacchiera con il vicino di casa, e vedo ovunque lo stesso carattere, chai (拆), “distruzione”. Come si segnano gli alberi da abbattere in una foresta da legname, così a Pechino si marchiano gli edifici condannati. E sono ovunque, tracce di storia che non rimarranno, se non nella foto di qualche laowai. La memoria della gente locale, anche quella sparirà dopo la diaspora in periferia. E quando gli chiedi che faranno dopo che il loro quartiere avito non esisterà più, quelli rispondono “staremo nella nostra bella casa nuova!”. Sono contenti. Li prenderei a schiaffi quando sorridono e indicano il carattere chai. Non capiscono quello che perdono. D’accordo, avranno acqua corrente, luce, telefono, forniture di gas via tubo e non via bombola. Ma perderanno la loro identità, sperduti in appartamenti senza nome, riconoscibili solo da serie di quattro cifre, senza conoscere la faccia dei loro vicini di casa, spaventati nell’uscire di casa in un quartiere di sconosciuti, in parte immigrati da altre zone che non parlano la loro lingua e se non trovano lavoro si danno alla criminalità. Per andare a fare la spesa o una qualsiasi commissione prenderanno l’autobus. Non usciranno più. Si chiuderanno nei loro appartamenti con le pareti di cartone, e guarderanno la TV. Scompariranno nel mare incosciente della popolazione suburbana.


Guardo a questa Pechino morente con compassione e malinconia. Non potrei fare niente per fermare quello che accade, nemmeno se questi sempliciotti intortati dalla propaganda progressista volessero farsi aiutare. E allora mi rassegno, e mi godo la pace degli hutong in lunghe camminate solitarie o con un amico, cosciente che, tra non molto tempo, le strade che i miei piedi calcano non esisteranno più.

 
Rubble in Xinfucun

Capodanno cinese


Non mi ricordo francamente come ci sono finito a casa di Elena nella sera del capodanno cinese. Non so perché Marco non c’era e nemmeno Massimiliano. Comunque mi arriva quest’invito a sorpresa da Elena, e siccome non conosco nessuno a Pechino a parte lei e Marco, e Massimiliano che forse non era nemmeno arrivato, sono molto felice di andarci.

Nel febbraio 2003, Elena abita in un compund di cui ho da tempo dimenticato l’ubicazione, e fondamentalmente ci arrivo solo perché lei parla al cellulare al tassista. Si tratta di un complesso di edifici di colore marrone, molto alti, squadrati e spartani. Si trovano più o meno nella zona di Chaoyangmen, con l’entrata in una strada che la sera di capodanno mette paura: vuota, male illuminata, fiancheggiata da palazzoni stalinisti silenziosi e con poche luci accese, oppure da cantieri con i loro muri in plexiglass e il rumore lontano delle ruspe. Dai tombini, talvolta chiusi non da una coperchio di pietra o metallo, ma da una lastra di legno temporanea che lascia ampie possibilità di caduta nel baratro, salgono colonne di fumo bianco, i gas umidi e caldi che al contatto con l’aria secca e gelida di febbraio si condensano velocemente in liquidi mefitici. All’entrata sta una guardia più giovane di me, visibilmente provata dal freddo. Nel cortile incrocio una famiglia cinese e un paio di russi, che abbondano in questa zona di Pechino e in particolare in questo condominio. Nessuno, né le guardie, né la famiglia cinese, né i russi, sembra notarmi, o forse il gelo li rende disinteressati. Cammino per i corridoi sporchi e scuri del palazzo dove abita Elena, e prendo un ascensore di metallo pieno di rigature lasciate forse da mobilia trasportata male, con una luce al neon decisamente inquietante. Nel silenzio, si sente solo il rumore delle corde di metallo che si muovono.

Casa di Elena è enorme, eppure spoglia, mal illuminata e con le camere disposte in maniera irrazionale. Lei, per fortuna, l’ha arredata con gusto cercando di renderla accogliente. Mi accoglie con il suo sorriso luminoso e mi presenta agli altri ospiti: c’è Ana, una ragazza spagnola che fa la giornalista e sta con un pittore cinese dello Shandong; Nina, una svedese che segue un corso di management dell’Unione Europea; ci sono una coppia di francesi e altri due ragazzi spagnoli. Ciascuno parla sua lingua, tanto è romanza e si capisce, più o meno. Nina parla spagnolo, visto che nessuno qui capisce lo svedese.
Il pranzo è servito in una specie di grossa pentola elettrica con brodo bollente. Elena mi spiega che l’Hotpot (火锅) è un piatto originariamente mongolo, che ormai è famoso in tutta la Cina. Consiste nel prendere carne, verdure, funghi, tofu e altre cose edibili, tutte crude, e gettarle con le bacchette nell’unico pentolone a centro tavola, per poi ripescarle minuti dopo bollite. Quindi si intingono in una salsa marrone chiaro che sa di carne, e il gioco è fatto. A parte le difficoltà con le bacchette, devo dire che è buono.
Il beveraggio è più familiare: i ragazzi spagnoli hanno portato delle bottiglie di Sangre de Toro della Torres, un vinello iberico da supermercato con tanto di torello in plastica attaccato alla canna. Il toro, simbolo piuttosto controverso della Spagna. Il ragazzo spagnolo mi spiega che quando hanno provato a togliere il toro, le vendite sono crollate, e quindi la Torres ce lo ha rimesso. Dopo tutto, anche i cinesi lo capiscono il toro come simbolo della Spagna. E comunque non si pongono certo interrogativi morali al pensiero della corrida.
E’ una situazione surreale. La sera del capodanno cinese, nel quartiere russo di Pechino, con 10 gradi sottozero fuori dalla finestra che dà su un cantiere buio, otto europei festeggiano con un piatto mongolo e vino spagnolo, ognuno parlando la sua lingua natale. E quello che è più surreale, non leggo sorpresa nelle facce dei convitati, che sono a Pechino da più tempo di me. Forse, penso, col tempo ci si abitua.
Col tempo ho in effetti scoperto che questo è vero, ma solo in parte. La Cina e le situazioni in cui si trova lo straniero che ci abita non smettono mai di stupire. E il ricordo del mio primo capodanno cinese rimane ancora vivo, una serata inaspettata, difficilmente immaginabile, e dolce, perché comincio a non sentirmi solo ad esser straniero, in questo posto.

2006-07-17

Amici che vengono, amici che vanno

Una della costanti di vivere in Cina è che la gente arriva, si ferma pochi mesi, e poi riparte. Se da un lato questo rende i rapporti con le persone più semplici ed immediati, dall’altro rende la loro stabilità cosa rara.

Il primo vero giorno di lavoro di Massimiliano, ovvero il primo giorno in cui il nostro capo torna in ufficio, è simile al mio. Arriva a fine giornata con i nervi a fior di pelle. Ucciderebbe tutti i cinesi che gli capitano a tiro. Marco invece è fuori ufficio, perché si è preso l’ultima settimana libera. Viene di tanto in tanto per usare internet.
Marco ha la paranoia di essere discriminato. Avendo vissuto negli Stati Uniti, classifica esseri umani in tre grandi categorie: bianchi, gialli e neri. E secondo lui, i gialli in Cina lo discriminano. Non ha capito molto Marco. Non è che ai cinesi interessi molto il colore della pelle. Per loro, ci sono i cinesi e gli stranieri. Al massimo si possono classificare gli stranieri tra laowai (老外), occidentali, heiren (黑人), neri, ribenren (日本人), giapponesi, e altre categorie minori. Ma gli stranieri per lo più sono tutti uguali, mettono ansia, sono lenti di comprendonio e facili all’ira.
Le ultime volte che vedo Marco sono in uno Starbucks e al Buddha Bar. Entrambe le volte riesce a litigare con i gestori che, mortificati, subiscono senza replicare ai suoi improperi in inglese. Nello Starbucks, ci presentiamo all’ora di chiusura, quando i gestori stanno per chiudere, rimanendo per un po’ insieme a un gruppo di amici. Marco crede di essere discriminato e ci litiga violentemente, senza peraltro ottenere nulla. Al buddha bar, dopo aver ingiuriato la cameriera che non capisce mai nulla, attacca bottone con un gruppo di ragazzi cinesi che fanno un gioco di società. Uno di loro parla inglese, e Marco chiede di poter partecipare. Quando scopre, però, che il gioco si svolgerà in cinese, dà in escandescenza.
“It’s not fair, we can not speak Chinese and you know it!”
Il ragazzo è calmo e spiega che i suoi amici non parlano l’inglese, e non sarebbero in grado di giocare. Marco non ci crede.
Un altro dei ragazzi, scocciato dalla discussione proclama:
“We are in China, we speak China”
“No, semmai we speak Chinese!” lo correge Marco, rosso in faccia, metà in italiano e metà in inglese.
Nulla di fatto, a parte una brutta figura, anche qui.
Massimiliano, sarà il fuso orario che pesa, non partecipa molto. Si limita a guardare Marco a metà tra il divertito e il preoccupato. Marco fa il gesto e il suono della frusta.
Parte pochi giorni dopo, felicissimo, ma anche un po’ triste, e questo lo ammette, di lasciare la Cina. Raccomanda a sua madre di non dire a nessuno in Italia che torna, perché vuole stare da solo, tranquillo, per un po’. In ufficio le impiegate cinesi gli regalano una giacca tradizionale cinese blu, con dei dragoni sopra, che non metterà mai. Ma il regalo gli fa piacere. Dopo la sua partenza, sparirà dalla circolazione, a parte una telefonata mesi dopo e una promessa mai mantenuta di rivedersi in Italia. Persona strana.
Massimiliano, quando Marco viene nominato, cita sempre una sua frase celebre: “A viaggiare e conoscere il mondo, si diventa razzisti”. Lo descrive con poche parole: “Una persona pacifica e moderata”. Io ci aggiungo un “rilassato e sereno in ogni occasione, un cittadino del mondo”.
Ce lo ricorderemo così Marco, il mio primo Cicerone in Cina.

2006-07-15

La Grande Muraglia


 
 “This indeed is a great wall” 
Richard Nixon

La gita alla Grande Muraglia è un obbligo per tutti quelli che passano da Pechino. Marco ha già organizzato tutto perché lui è il nonno della compagnia, e su consiglio di Elena sceglie il tratto da visitare. Badaling è troppo turistico, con il finto Disneyland, il McDonald, la funivia e le orde di turisti. Noi si va a Mutianyu, che è ancora, pare, un tratto relativamente incontaminato e non restaurato.
Gladis, il nostro capo in Camera di Commercio, ci fa prenotare una macchina che ci scorrazzi per tutta la strada, tariffa giornaliera 400 yuan, quaranta euro. Sabato mattina ci si trova sotto il Jingguang, e il sig. Gao ci aspetta, completo nero standard da cinese elegante “vorrei ma non posso”, capello lungo, baffetto da sparviero e immancabile sigaretta in mano. Alle sue spalle, una macchina blu extra-lusso. Via, si monta, io Marco e Massimiliano, che è arrivato tipo due giorni prima e ancora non connette benissimo.
Dal Jingguang a Mutianyu ci vuole un’ora abbondante di strada. Fuori dal finestrino schermato, vediamo scorrere prima i palazzoni del Terzo Anello, quindi i palazzi-cubicolo del Quarto Anello, e infine la città si dirada ed entriamo nella campagna. Più che campagna è steppa, con filari di pioppi ai lati della strada e un’estensione indefinita di erba gialla coperta di polvere, i cui confini scompaiono nella foschia dell’inverno. Non c’è nulla che possa attirare la nostra attenzione, il paesaggio dopo un po’ è sempre lo stesso, punteggiato di tanto in tanto da aggregati di negozi con grandi insegne gialle e rosse in cinese e persone mal vestite e rozze che battono martelli su vecchi motori, o mescolano pentoloni pieni di brodaglia servita agli avventori sulla strada stessa. Sono tutti uguali, e dopo un po’ non ci si ricorda quanti ne sono passati.
Dopo un’ora e mezza, si arriva ai piedi di grigie colline coperte di arbusti martoriati dal vento sabbioso, e ci si ferma ai piedi di una strada serpeggiante che si arrampica su per il crinale fino a un grande muro, grigio pure quello, come il cielo, come le colline, come la sabbia e la polvere. E in questo culo di luogo, botteghe, bancarelle e venditori ambulanti a eserciti, che ci saltano addosso come lupi offrendo ogni genere di idiozia turistica: t-shirt, cartoline, libri di foto di Pechino e la Grande Muraglia, guide, mappe, statuine tradizionali, accendini che si illuminano e fanno rumore. Marco li insulta tutti, poi si ferma a contrattare con ciascuno di essi. Manco a dirlo, dopo aver tirato il prezzo di un libro fotografico alla metà e averlo acquistato, se lo vede offrire con vari sconti: 60%, 70%, 80%. Marco odia i cinesi. I cinesi ridono e guardano me e Massimiliano come a tirarci in mezzo al divertimento.
La salita è lunga e difficile, e resa ancora più difficile dai venditori. L’unica sorpresa è un vecchio cammello parcheggiato in un angolo: appena lo guardo, qualcuno mi chiede se voglio farci una foto assieme, o voglio cavalcarlo. Scappiamo.
Finalmente arriviamo a una breve funivia che ci permetterà di evitare un’altra ora di camminata. Da bravi turisti capitalisti e stanchi, allunghiamo una banconota alla biglietteria e dopo un quarto d’ora siamo sulla Grande Muraglia. Il vento mongolo fischia forte e graffiante qui sulla cima, senza la protezione dei colli. Ci incamminiamo, e la salita risulta meno facile del previsto: non solo la muraglia va su e giù per i crinali, ma gli scalini sono pure tagliati in modo irregolare per mettere in difficoltà gli invasori, e duemila anni di intemperie li hanno resi ancora più insidiosi. Gli invasori come noi sono pochi, di più le famiglie cinesi che fanno picnic e buttano la spazzatura per terra o già dai merli (non ci sono cestini, d’altra parte). Un'arrampicata interminabile termina in una scala verticale e una torre merlata: ci arriviamo a gattoni, solo per essere accolti da una contadina dalla pelle scura che ci offre Coca Cola e Fanta. Più in là, la parte agibile della Muraglia termina, e un gruppo di turisti locali si diverte a scavalcare le transenne, e rischiare di cascar giù. Ridono. Uno di loro inciampa in un mattone che si è staccato dalla pavimentazione. Lo guarda, ci pensa un po’, poi decide che è pericoloso, quindi lo raccoglie e lo scaglia nella boscaglia. Ripenso all’orgoglio nazionale di cui tutti qui sono pieni, e a quanto si gonfiano il petto a parlare dei loro monumenti. Ecco come li preservano. Barbari, penso, sarete pure tanti, ma il livello di intelligenza e cultura medio dell’individuo è proprio basso tra voi.
In cima alla torre lo sguardo di perde, e dopo esserci liberati della signora che vende bibite, mentre prendiamo fiato, improvvisamente ci rendiamo conto di dove siamo: la Grande Muraglia. E’ grande. Ma proprio grande: più la guardi, meno ne vedi la fine. Come un serpente si snoda lungo la cima dei colli e si perde dietro di essi da entrambe le direzioni. A valle, nella foschia si scorgono valli e paesi, da una parte la Cina, dall’altra la steppa mongola, e il resto del Mondo.
E’ allora che il mio senso di superiorità, instillato da Marco nelle settimane precedenti, scompare, e mi sento piccolo e insignificante. Cinquecento anni fa l’Europa non era nemmeno uscita dal medioevo, e l’Impero cinese dominava gran parte dell’Asia da più di mille anni. Per la maggior parte della storia umana, la Cina è stata centro, e l’Europa periferia. E grazie tante all’arte e alla filosofia, il potere è sempre stato qua, e se se n’è andato con il colonialismo, ritornerà ben presto qui, dopo un’assenza di un paio di secoli, e il centro del mondo smetterà di oscillare tornando alla posizione iniziale. E’ una sensazione stranissima, mai sperimentata prima. E non si può provare senza essere qui: i milioni di europei e americani che non verranno mai in questo luogo, non capiranno mai quando è Grande la Cina. Le dimensioni e l’unità sono la sua forza incontrastabile. Inutile la cultura, l’intelligenza, la civiltà. Loro sono tanti, e per questo vincono e vinceranno sempre. Sono loro che dovrebbero sentirsi superiori. E ci si sentono già.
Torniamo indietro spossati dalla scalata e dai venditori, troppi loro, troppo pochi noi. Anche se siamo più svegli, più forti, più ricchi, loro sono tanti e ci prendono per sfinimento. E’ per questo che la ottengono sempre vinta. Con questa epifania in testa, arrivo in albergo e collasso sul letto, per svegliarmi il giorno dopo con un atteggiamento decisamente diverso nei confronti di questo Paese.

  
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2006-07-14

Grigio


Pechino ha tre colori: l’azzurro del cielo, il rosso dei muri e dei tetti dei palazzi antichi e delle bandiere, e il grigio. C’è un grigio che si vede sempre: è quello delle strade enormi, dei muri dei palazzi antichi e della case tradizionali. E poi ce n’è un altro, che arriva soprattutto d’inverno. Il grigio della polvere.
La sabbia del Gobi a Pechino c’è sempre stata, ma la polvere è arrivata con l’industrializzazione E se la sabbia ti entra negli occhi e nella bocca, la polvere ti entra nei polmoni. D’inverno, 13 milioni di Pechinesi sopravvivono ai freddi della loro città con il riscaldamento. E Pechino è riscaldata interamente a carbone. Lo vedi uscire dalle ciminiere, dai camini e dai tubi di scappamento delle auto assolutamente non catalizzate. Copre tutto, quel grigio, anche gli altri colori.
La prima impressione di Pechino per chi la vede, soprattutto nella stagione sbagliata, è l’assoluto squallore. Le strade sembrano enormi e alienanti, i titanici palazzi in stile stalinista incombono su tutto e tutti. Il cielo è grigio, l’aria è grigia. E rende grigi non solo palazzi e strade, ma le finestre, le macchine, gli alberi, le persone. Sul davanzale della finestra c’è un dito di questa polvere sottile e grigia che nessuno, se non il vento, ha mai spostato. E’ la versione iperuranica della capitale comunista: enorme, alienante, e grigia. L’immagine di squallore più forte che si possa concepire.
Ma col tempo, o forse anche da subito, lo trovo dolce questo squallore. Talmente estremo da risultare eroico. E’ come essere finiti nel culo del mondo. Ed essere tutto sommato vivi, e in una situazione migliore di tante altre persone. Combinato alla solitudine, questo grigio squallore mi fa sentire fuori dal mondo, ancora più immerso in un avventura che non può essere raccontata, ma solo vissuta.

2006-07-09

La camera da due all’hotel Dabei


La nuova camera che condivido con Massimiliano è ammobiliata come quella in cui ero da solo, ma invece che una piccola finestra, ha due pareti di finestre che danno rispettivamente a sud e ad est. E le doppie tende non servono per nulla a riparare dalle temperature estreme: nella stanza si congela. Massimiliano ha avuto il letto vicino al calorifero, e la stufetta elettrica in dotazione, che così a occhio sembra più vecchia degli ospiti, coperta di ruggine e con il cavo smangiato, non rassicura per nulla, e quando qualcuno non può controllarla continuamente va spenta, o potrebbe benissimo esplodere e dare fuoco alla camera, a noi e all’intero hotel.

La prima notte congelo. Ho addosso lenzuolo e doppia coperta di lana pesante, ma il letto è corto e le coperte pure, e anche rannicchiandomi in posizione fetale non riesco a coprire la testa. La copro quindi con il cuscino sperando di limitare la perdita di calore, ma non c’è verso. Le dita delle mani, che tirano le coperte al massimo, mi fanno male per il freddo, e mi sembra che il naso stia per staccarsi.

L’hotel, com’è ovvio, non serve colazione, a parte il thermos di acqua calda con una busta di tè al gelsomino. In un supermercato vicino a casa di Marco, ci procuriamo dei biscotti per sopravvivere. Proviamo anche con il Nescafé, ma il sapore è orribile, e senza cucchiaio mi riduco a mescolarlo con una vecchia bic. Vorrei avere del latte, anche freddo, ma il frigorifero non va (poco prima di lasciare l’hotel, scoprirò che semplicemente la spina non è attaccata, ma vai a pensare di sposare un mobile di duecento chili che contiene il frigorifero per controllare… e comunque meno cavi vengono esposti meglio è in questo posto).
La finestra mostra una vista postnucleare: vecchi palazzi di mattoni fatiscenti, finestre dai vetri luridi e impolverati, tende da sole che una volta potevano essere bianche, ma ora sono grigio-nere e stracciate dal vento, insieme ai supporti di metallo corrosi dallo smog, che quando tira vento (praticamente sempre) sbattono contro le finestre creando rumori inquietanti. Cantieri in cui muratori e ruspe lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro, creando voragini titaniche nella terra e rumori assordanti ad ogni ora del giorno e della notte. Fabbriche da rivoluzione industriale con i muri coperti da scritte indecifrabili in gesso o vernice, forse slogan comunisti per motivare i lavoratori. Il punto di riferimento principale è una ciminiera all'orizzonte: ogni mattina scosto le tende e guardo in che direzione tira il fumo nero che ne esce. E ogni mattina tira sempre nella stessa direzione, sud diretto in direzione quasi orizzontale. Tradotto: tira vento forte da nord, dal Gobi, e oltre il Gobi dalle pianure siberiane. Più freddo del freddo che un italiano possa mai immaginare senza uscire dall’Italia.

Il sabato e la domenica, veniamo svegliati dalle donne delle pulizie che vengono a pulire la camera. Bussano e poi aprono, ancora prima che noi ci rendiamo conto del rumore. Poi, entrando in camera e trovandoci a letto, rimangono interdette e imbarazzate, prima di attaccare come macchinette a parlare cinese.
“听不懂” rispondo regolarmente. Non capisco. E quelle da capo. Dopo dieci minuti si riesce a spedirle fuori dai piedi, ma prima che mezz’ora sia passata ritornano, e si ricomincia. Ci mettiamo un po’ a capire che esiste un foglio di carta da appendere alla maniglia, con da una parte scritto “Please don’t disturb” e dall’altro “Please do my room”. 

Sono giorni duri. Ma grazie a Dio e allo spirito d’iniziativa di Massimiliano, finiranno in fretta.

  
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2006-07-06

Il primo giorno di lavoro di Massimiliano

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Il primo giorno in ufficio di Massimiliano sembrerebbe cominciare con i migliori auspici, perché il Segretario Generale non c’è (è la settimana del Capodanno cinese, e metà dello staff è in ferie), e lui è affidato alle cure materne di Vaira. Lo vedo molto positivo, ma so che la mazzata arriverà anche per lui. Cerco di prepararlo come Marco ha fatto con me, anche se non risulto convincente. Va detto, qui mi trovo bene, e Massimiliano non sembra credere alle mie descrizioni dell’inefficienza dei cinesi, dell’incomunicabilità totale con certe persone, dei blocchi culturali tipo il perdere la faccia che contaminano ogni rapporto con i cinesi più tradizionali. Massimiliano non parla cinese, e più ci penso più mi preoccupo per lui.

Il rito di passaggio per Massimilano arriva abbastanza presto, e a tutt’oggi rimane uno degli aneddoti più assurdi che ricordi sulla Cina. A pranzo Vaira decide di portarlo al ristorante nel basement del Jingguang, che non è buono, è relativamente costoso, ma quantomeno non dovrebbe costituire un attentato alle difese immunitarie del nuovo venuto.
Arriviamo relativamente tardi al ristorante, quando tutti i cinesi, che cominciano a pranzare dalle 11.30 alle 12.00, se ne sono già andati. Vaira, tesoro di mamma, ordina per noi, e si cura di chiedere le cose più deliziose, pur con un occhio al portafoglio. La cameriera, ingessata in un tradizionale qipao scuro, prende l’ordine e lo porta in cucina, poi riprende posto a un lato della sala, immobile come una statua, come tutte le altre cameriere. I minuti passano, e nulla arriva dalla cucina. Vaira chiama la cameriera per cercare di velocizzare la cosa, e quella risponde imbarazzata che i nostri piatti stanno arrivando, guarda la cucina preoccupata come a dimostrazione che la sua dichiarazione non è supportata da alcuna evidenza, e torna al suo posto. I minuti passano, e la sala si svuota. Vaira sollecita ancora, e mentre la cameriera risponde la stessa cosa di prima, le porte della cucina si aprono, per lasciare uscire un’altra cameriera avvolta dal fumo.
“Se ci sono problemi” dice Vaira esitante “noi ce ne possiamo anche andare in un altro posto… “
“Nessun problema” assicura la cameriera, ancora più esitante di Vaira “i vostri piatti arriveranno in un attimo”
Notiamo però un certo fermento tra le cameriere, che si guardano attorno più smarrite del solito. La responsabile di sala, nel suo qipao scuro bordato d’oro, entra nelle cucine velocemente, come agitata.
Il tempo passa, e mentre per la terza volta la cameriera, chiamata da Vaira, cerca di rassicurarci sul fatto che i nostri piatti sono ormai in arrivo, le porte della cucina si aprono di nuovo e la responsabile di sala ne esce, avvolta da una nube di fumo grigio, con un fazzoletto sul viso. Del fumo comincia ora anche a filtrare attraverso altre aperture nella sala. Le cameriere sono ora decisamente allarmate.
“Prego, signori” dice la responsabile di sala avvicinatasi al nostro tavolo, ostentando sicurezza con scarso successo “da questa parte… no, non da quella, la porta sul retro”
Usciamo di corsa attraverso uno dei corridoi riservati normalmente allo staff, un’uscita di sicurezza che ci conduce nel piazzale retrostante il grattacielo. Dalle grate che danno aria ai livelli sotterranei escono colonne di denso fumo nero. Mentre ancora guardiamo increduli il palazzo, vediamo uscire lo staff italiano dell’ICE, l’istituto per il commercio estero italiano, che sta due piani sopra di noi.
“Pare che ce sta’ ‘n incendio” dice uno di loro, con chiaro accento laziale. Massimiliano si guarda attorno ed è ovvio che non sa cosa pensare. Non che io abbia le idee più chiare di lui. Vaira, invece, che ha in mano la responsabilità dell’ufficio per la prima volta, riceve una scossa di adrenalina notevole: chiama al cellulare il Segretario Generale.
“Ehm… ciao, scusa se ti disturbo… lo so che oggi sei in vacanza ma… nel caso di un incendio dell’ufficio, c’è qualcosa di particolarmente importante che devo salvare?”
“TUTTO!!!” La risposta isterica del capo è chiaramente udibile a tutti i presenti.
Vaira mette giù il cellulare. Una delle segretarie, Sofia, è rimasta in ufficio con il suo pranzo portato da casa. E’ allora che Super Vaira si rivela: narici dilatate, respiro pesante, fronte imperlata di sudore:
“Voi rimanete qui” dice “io vado a salvare Sofia”
“Vaira… “ comincio “è meglio non usare l’ascensore in questi casi”
“… andrò a piedi!” ribatte dopo un secondo di esitazione.
“Sono 36 piani Vaira!” obietto, per nulla convinto della sua decisione eroica.
Massimiliano ha l’idea migliore di tutti: “Chiamiamola al cellulare… ”
Manco a dirlo, Sofia non si è accorta di nulla. Pochi minuti dopo, esce dalle porte e ci raggiunge nel piazzale, con calma serafica: “In effetti avevo notato un po’ di fumo”
E’ in quel mentre che arrivano tre camion dei pompieri a sirene spiegate.

La scena è grottesca. Un grattacielo di 52 piani, con un incendio ai piani sotterranei, con fumo che sale internamente fino a toccare almeno il 36° piano, e colonne nerissime che escono dalle grate. Pompieri ovunque. Dieci persone nel piazzale, metà italiani, l’altra metà cinesi evacuati dagli italiani.

Più tardi apprenderemo che una macchina è andata a fuoco nel basement, e i pompieri hanno domato l’incendio in circa mezz’ora. Il management non ha dato l’allarme. Tutte le persone presenti nel Jingguang, in gran parte cinesi (gli stranieri erano in pausa pranzo), nonostante il fumo nei loro uffici, non hanno evacuato l’edificio, né si sono preoccupati della cosa.

Rientriamo a incendio domato, verso le tre del pomeriggio. L’ufficio è ancora pieno di fumo, la visibilità è scarsa, l’odore di bruciato forte. Apriamo tutte le finestre. Il fumo se ne andrà completamente solo un paio d’ore dopo. Guardo Massimilano, e non riesco a dire nulla. La situazione è incommentabile. Non importa, perché anche lui l’ha intuito.
“Buon primo giorno di lavoro”
“Grazie”