2007-07-26

Domenica Pomeriggio d'Inverno

E’ il 4 novembre, e mi sveglio non con il rumore dei trapani e dei martelli, ma con quello del vento. E’ una splendida giornata autunnale, e il sole brilla in un cielo blu zaffiro. E’ mezzogiorno e mezzo, e mi godo la pace della domenica. Wang Li passa a prendere l’affitto dei prossimi tre mesi e si informa su eventuali problemi della casa, che fortunatamente al momento non ci sono. Quando se ne va guardo un DVD, e poi finalmente mi scuoto dal mio torpore domenicale e decido di uscire, spinto più che altro dalla fame e dalla mancanza di voglia di cucinare. La ragazza dell’ascensore mi avverte: “Oggi fa freddo”; ma capisco solo quando esco e una folata di vento gelido mi graffia spostandomi di qualche centimetro. L’odore e la luce del sole al tramonto mi portano alla memoria ricordi lontani di una gita a Perugia e una vacanza in montagna. Ma qui siamo in pianura, diamine.

Cammino controvento, e decido di tentar la fortuna al ristorante del Xinjiang che sta all’entrata degli hutong vicino casa. Costa poco e si mangia bene. Dieci minuti dopo ci sono, il ristorante con accanto alla porta un fornello di metallo la cui canna fumaria è sbattuta dal vento, e sui cui carboni fiochi c’è una teiera di metallo a scaldare. Sposto le pesanti fasce di plastica che bloccano l’entrata al freddo. Nel ristorante ci sono due persone, una donna cinese e un ragazzo occidentale. Mi dibatto nel dubbio di ordinare o meno a loro, finché la donna mi chiede che voglio, “Quattro yangrouchuan’r e un naan”. La donna, sempre seduta, urla l’ordine verso una porta, e dalle cucine risponde una voce di ragazza che va subito a preparare le mie cose.

Mi siedo con loro, tanto il ghiaccio è già rotto. Il ragazzo, David, è francese e abita in una appartamento nell’hutong; sta chiacchierando con una vicina di casa, la signora Yin (), che è una vera e propria attrazione. Davanti a loro hanno una teiera fumante e un piatto con due pannocchie bollite e ormai mangiate.

Anche la signora Yin abita nell’hutong, e visto che mi sono seduto al suo tavolo decide che deve raccontarmi tutto su di lei e lamentarsi di ogni cosa che le passa per la mente. Nel suo appartamento non c’è il riscaldamento, quindi lei viene tutti i pomeriggi al ristorante, ordina una pannocchia, e poi ci passa le ore a chiacchierare e scaldarsi con le mani sulla teiera bollente. E’ una vecchia pechinese, tipicissima. Si lamenta del freddo; si lamenta che i cinesi sono troppi; si lamenta degli immigrati dello Hebei; quando scopre che ho vissuto a Shanghai si lamenta di Shanghai, di quanto sono antipatici i suoi abitanti e quant’è stucchevole il cibo. Mi chiede dove abito ora e quanto spendo di affitto, solo per commentare che l’appartamento in cui vivo è troppo grande per me e comunque costa troppi soldi. Conclude dicendo al cameriere, un ragazzo xinjiangese di una quindicina d’anni, che è un ciccione, e poi ne chiede conferma al francese che annuisce con un sorriso imbarazzato.

Però questo suo lamentarsi di tutto e tutti è controbilanciato dalla sua generosità: “Vieni a casa mia, ti insegno a cucinare i piatti di Pechino”; “Chiamami quando vieni ancora qui: mi trovi tutti i pomeriggi, se non mi trovi di’ al cameriere di venirmi a chiamare, che abito proprio di fronte; e poi ci facciamo una bella chiacchierata e ti insegno il cinese come si deve”; “quando vengono i tuoi genitori glielo insegno io il cinese, gli parlo ogni giorno, li porto anche in giro a vedere Houhai e la Città Proibita”. E via con gli inviti, ogni occasione è buona per offrir favori e servizi. Mentre lo fa mi versa da bere, e io cerco di capire la sua parlata pechinese piena di erre arrotate.

Il sole, nel frattempo, tramonta. Attraverso il vetro del ristorante si vede la gente passare, il fruttivendolo indaffarato a servire clienti, il ragazzo addetto al fornello che esce per attizzarlo e rientra strofinandosi le spalle per il freddo. Un altro che sta fuori e cammina avanti e indietro parlando al cellulare.

“Mi sa che devo andare” dice David.

“E andiamo tutti allora” dico io, pagando i miei 6 kuai di conto.

La signora Yin saluta, rinnovando tutti i suoi inviti a venire a trovarla e a chiamarla se non la trovo al ristorante. Nella strada scura la luna piena brilla come un faro, illuminando la città che è ancora piena di auto e biciclette. Un ragazzino perde il cappello mentre va in bici e io glielo raccolgo. “Grazie” mi dice imbarazzato dallo straniero.

Via, si torna a casa. Anche per oggi s’è passato il pomeriggio.

2007-07-21

Pigrizia

Pechino è una città che impigrisce la gente. Non mi è ben chiaro il perché. Sarà che l’atmosfera è così rilassata, che quando scende la tensione del lavoro, uno ha solo voglia di vegetare beatamente. Sarà che la città è grande, e a volte per vedere un amico tocca prendere un taxi e fare chilometri e chilometri. Sarà che, specialmente d’inverno, il freddo e il grigio della città non invitano certo ad uscire di casa. Sarà che i DVD costano poco e sono di buon qualità, e diventano spesso e volenteri una droga che costringe le persone incantenate al divano a fissare lo schermo della TV fino a orari improponbili. Sarà che, per chi non parla cinese, ogni tanto doversi confrontare col mondo che sta oltre la soglia di casa può rappresentare uno stress pauroso. Sta di fatto che, per uno che è abituato a Milano e ha vissuto a Shanghai, è strano scontrarsi con la resistenza all’attività della gente che vive qui.

Al mio arrivo, Patti mi aveva avvertito: “Attento, qui a Pechino è fin troppo facile impigrirsi e non uscir più di casa”. D’instinto avevo pensato a Massimiliano che, nelle ultime settimane della nostra prima permanenza a Pechino, era piombato in un’inattività da cui non c’era verso di scuoterlo, quasi ogni sera chiuso in camera a guardare film di guerra. Quanto aveva ragione, Patti.

Spesso e volentieri mi trovo a scorrere la lista dei miei contatti sul cellulare, a fare maratone di telefonate a tutti quelli che conosco.

“Ciao, che fai stasera?”

Le risposte più tipiche sono:

“Sono stanco, ho lavorato come un matto tutto il giorno. Ceno a casa e vado a letto”

Oppure:

“Vado a casa di un amico, che c’è una cena per pochi intimi. Ma non faremo tardi, dopo cena tutti a casa propria”

Oppure:

“Vado con il mio coinquilino al ristorante sotto casa... no, andare più lontano non ce la faccio”

Anche se uno esce da solo in settimana, se non sa dov’è La Festa quel giorno, la maggior parte dei posti sono morti, tranne quelli dove ci si ubriaca, che a Pechino funzionano sempre. E comunque uscire da soli e con la fidanzata lontana è farsi del male, si finisce solo circondati da ragazzine sognanti nel migliore dei casi, se no da zoccole. Sai che attrattiva...

Ma mi rendo conto che anche io mi sto impigrendo, e declino inviti che non considero in linea con i miei interessi. Qualcuno mi invita a ballare latino-americano, qualcuno a fare giocoleria, qualcuno a una serata da sfascio a base di alcool economico e hashish. No, grazie, oggi proprio no. Ma la verità è che Pechino sta impigrendo anche me, in parte. Non sono più flessibile come una volta, non esco per uscire, ma solo se qualcosa smuove in modo particolare il mio interesse. Passo le serate davanti al computer o al DVD, esco solo per concerti o se si va nella città vecchia tra gli hutong. Sanlitun mi mette di cattivo umore. A Nuren Jie, due chilometri più in là, non sono mai stato perché è troppo lontana, ai confini del mondo. E’ una pigrizia principalmente mentale, la stessa di cui soffrono gli altri.

In effetti la gente qui diventa abitudinaria. Chi va al Browns raramente va a ballare in un altro posto. Chi va allo Yugong Yishan non entra mai al Nanjie che sta di fianco. Sono “quelli che”. Quelli che vanno al Bookworm, quelli che vanno al China Doll, quelli che vanno al Propaganda. Dal loro posto non li smuovi. Io non lo so bene a quale categoria appartengo – so il tipo di luogo che mi piace, ma non l’ho ancora trovato. Un luogo rilassato, economico, bohémien, con musica dal vivo di band cinesi e straniere e tanta buona energia.

Lo troverò, ma la ricerca, circondati dalla pigrizia della gente, non sarà facile.

2007-07-16

Acqua acqua acqua!!!

Chi ha letto i post precedenti si ricorderà della disastro accaduto durante il mio viaggio in Cina occidentale, del foglio appeso alla porta dal vicino poliziotto per lamentare le macchie d’acqua sul soffitto, e dell’incontro tra me, lui e Wang Li in cui, siccome il problema non s’era trovato, la conclusione era stata mei wenti, nessun problema, e quindi tutti felici. Maledetti stronzi.

Tutto in effetti sembra funzionare bene fino a quando, un mese dopo, torno a casa un sabato sera e incontro uno dei miei vicini che legge un avviso all’entrata. Con lungimiranza, e anche un po’ preoccupato perché vivo qui da tre mesi e ancora non ho ricevuto la bolletta dell’acqua, chiedo informazioni, e scopro che l’indomani dovrebbe venire qualcuno a un’ora imprecisata a fare qualche cosa che ha a che fare con l’acqua, ma non quella del rubinetto, quella dei caloriferi. Speriamo in bene.

E’ domenica mattina e vengo svegliato dal suono del campanello che trilla con insistenza. Striscio dal letto verso la porta, nel gelo dell’appartamento, e mi trovo davanti un cinese giovane, scarpe di vernice e atteggiamento strafottente. “Ce l’hai l’acqua dei caloriferi?” mi chiede.

“E io che ne so, vai a guardare” rispondo, altrettanto strafottente.

“Ce l’hai o non ce l’hai?”

“Non lo so, perché non controlli tu che ne capisci di più?”

“Non dovresti averla”

Come sempre, mi prendono per sfinimento.

“E allora vuol dire che non ce l’ho”

“Va bene, firma qui”

Appongo la firma su una lista tutta in cinese, dove già altri inquilini hanno firmato, e chiudo la porta. Torno a letto.

Qualcuno sta martellando, qualcun altro sta trapanando, ma c’è un rumore nuovo. Pazienza, dormiamo. Questo rumore potrebbe essere un trapano, ma va avanti da parecchi minuti, che sarà? Sembra acqua… forse uno scarico. Magari stanno facendo lavori nel bagno dell’appartamento di fianco. Dormiamo. No, non ci si riesce, troppo rumore. Acqua, acqua, acqua…

Aspetta, mi sorge un dubbio.

Mi alzo faticosamente e striscio in salotto. Il rumore è più distinto, e viene dalla cucina. Affacciandomi alla porta vedo una macchia d’acqua marrone che si allarga velocemente sul pavimento. Panico misto a sonnolenza, mi getto nella pozzanghera, chiudo il rubinetto dell’acqua che va allo scaldabagno. Niente. Chiudo il rubinetto del gas dello scaldabagno. Niente, non è lo scaldabagno. Chiudo il rubinetto del gas centrale, ma non succede niente, ovvio. Calma, guardati attorno. Cazzo, eccolo lì.

Il calorifero, e che altro poteva essere: stanno dando l’acqua. Solo che quando gli operai hanno montano i caloriferi nel mio appartamento, uno di loro ha dimenticato di mettere un tappo al buco di scarico di quello della cucina, che emette un getto sottile ma fortissimo diretto nell’angolo sotto lo scaldabagno e il lavandino, da cui il rumore che mi aveva disorientato. Provo a tapparlo con un dito: troppo forte. Provo con uno straccio: diventa fradicio in una manciata di secondi. La macchia d’acqua color della bile ormai copre quasi tutta la cucina.

Metto un paio di scarpe e corro fuori, sul pianerottolo chiudo il rubinetto centrale dell’acqua. Torno: no, il sistema dei caloriferi è indipendente, cazzo. E’ ovvio, sveglia! Chi può aiutarmi? Gli operai dell’appartamento di fianco, quelli sono sempre qui alle sei del mattino a martellare e trapanare, sapranno cosa fare, avranno qualche attrezzo. Bum, bum! Busso alla porta, prima piano, poi con violenza. Niente. Campanello: staccato. L’unica volta che sareste utili non ci siete, maledetti stronzi! Va bene, altro vicino, nell’appartamento speculare al mio mi pare abiti una coppia di attempati signori cinesi, molto gentili. Busso, nulla, busso ancora, nulla. Proviamone un altro. E proprio mentre mi giro, la porta a spioncino si apre, e dietro la grata mi trovo la faccia una ragazza occidentale che mi guarda confusa. Sbadiglia. “Yes?”

E’ così che conosco Inna, una ragazza russa della mia età che si vanta di essere stata la prima inquilina del palazzo. Lavora in un ristorante, il Flambé, fa spesso tardi la sera e soffre degli operai più di me, poverina. Appena le spiego il mio problema si allarma, spalanca la porta, esce in pigiama e bussa ai suoi vicini, la famiglia cinese che ricordavo. Quella che dev’essere la figlia, una bella ragazza della nostra età, chiama il padre, il prototipo dell’uomo pechinese. Scuro di pelle, grosso, vestito pesante, bonaccione.

In tre – io, la bella Inna e il forte uomo di Pechino – varchiamo l’antro del drago, attenti a ogni rumore. Sbircio la cucina: l’acqua ora si sta alzando e tra poco arriverà nel salotto dove c’è il parquet. “E’ là” indico. I miei compagni guardano, terrorizzati. E’ peggio di quanto si aspettassero. L’uomo di Pechino si lancia in avanti, prova a combattere col mostro a mani nude, ma il suo dito non ferma l’acqua. E’ una battaglia persa. Ma poi ha un’idea. Corre indietro sul pianerottolo, e da terra raccoglie un pezzo di legno lasciato lì dagli operai, un pezzo d’asse di legno d’abete, polveroso e sbeccato. L’uomo di Pechino brandisce la sua arma, la punta rivolta al mostro, e con la morte nello sguardo lo carica e lo affronta, penetrando il nemico con la sua spada. Il rumore cessa, il guerriero stremato si ritira. Il drago-calorifero, la sua pelle color del metallo sporco, giace immobile, il pezzo di legno infisso nel buco da cui perdeva. Non una goccia d’acqua ne esce più.


“Sarà il caso di chiamare la manutenzione” commenta il vicino.

“E magari anche il padrone di casa” aggiunge Inna.

“E chiamiamoli” dico io.

Il vicino si presta gentilmente e le telefonate in cinese le fa lui. Il numero del padrone di casa glielo do io, ma quello della manutenzione non ce l’ho, volevo appunto chiederlo a lui. Nessun problema – l’uomo di Pechino corre al suo appartamento e dopo un minuto ne ritorna con un numero di telefono scritto a biro sulla mano, e tenendola alzata per leggere, con l’altra schiaccia i tasti del mio telefono. Parla con la manutenzione e la fa venire subito. Poi ci ripensa, chiama ancora il mio padrone di casa e gli dice che non c’è bisogno che venga da lontano, che il guaio è risolto, che se n’è occupato lui.

Lo ringrazio infinitamente, ma quello dice “Per favore, non è nulla” e se ne va. Da questo si vede la stoffa dell’eroe. Inna sta bevendo una bottiglia d’acqua minerale Laoshan, di quelle che si trovano solo nei ristoranti. Sbadiglia ancora, e mi saluta pigramente, con i suoi capelli arruffatissimi, il pigiama e due occhi da russa che, nel buio del pianerottolo, se non sono azzurri sono sicuramente verdi.

“Scusa se ti ho svegliata… ma era un problema abbastanza grosso”

Lei sorride: “Se ti serve altro, non hai che da bussare”.

“Vale lo stesso per te”


E capisco da dove era venuta la macchia sul soffitto del poliziotto sotto di me: test dei caloriferi. Probabilmente non mi ero accorto di nulla perché l’aiyi aveva asciugato ben bene e al mio ritorno mi aveva fatto trovare la casa perfetta. E chiaramente non mi aveva detto nulla. Mei wenti, no? Vado ad asciugare il lago oscuro, e apro la finestra per far uscire l’umidità.

E anche per oggi, il drago è sconfitto e il mondo è salvo. Me ne torno a letto anch’io.

2007-07-09

Il Gruppo degli Hutong

Un giorno mi capita di leggere un annuncio su That’s Beijing che anticipa una conferenza sugli hutong e sull'importanza di proteggerli dalla distruzione. Interessato, mi presento, e trovo una delle stanze del Bookworm gremita di persone, con ospiti che arrivano a sedersi per terra. Non sono l’unico allora, ad amare la vecchia Pechino.

Un signore occidentale calvo, occhialuto e con i baffi, probabilmente uno storico o un sociologo a giudicare dalla sua originalità intellettuale, sta parlando della vita di una volta nelle strade della capitale. Quando cita nomi in cinese lo fa con un accento incredibile, fino a quando non spiega che, figlio di diplomatici, è cresciuto tra le strade di Pechino quando ancora non era capitale, negli utimi giorni della Repubblica di Cina! Non ho mai sentito nessuno straniero esprimersi con una tale erhua ringhiante. La sua descrizione è estremamente dettagliata e vivace, si sente che quelle scene le ha vissute, e il pubblico è incantato. Alcuni addirittura prendono appunti.

Quando termina di parlare, il microfono passa ad altre persone, un gruppetto di cinesi e stranieri di mezza età che si presentano. Piacere, noi siamo il CHP, il Cultural Heritage Protection Center, un’organizzazione non governativa che cerca di tutelare i beni culturali in Cina (http://www.bjchp.org/). Compito non facile, come tutti sanno. Come farà poi una ONG a sopravvivere in Cina, con lo scopo quasi ovvio di rompere le palle al governo sui suoi errori? Più tardi scoprirò che i fondatori sono proprio funzionari minori del governo, e che di fatto si avvalgono di volontari per svolgere meglio un lavoro sottofinanziato. Tutte i discorsi che fanno sono, ovviamente, iperdiplomatici: “Sappiamo quanto il governo si stia impegnando in questa lotta per la difesa della cultura, e noi su sua ispirazione vogliamo collaborare per una perfetta riuscita dei piani” e via su questa falsariga.

Nello specifico, il CHP sta lanciando un nuovo progetto di protezione del centro storico di Pechino, chiamato Friends of Old Beijing. “Recentemente il governo nazionale ha ammesso l’importanza di difendere i beni culturali contro lo sviluppo sregolato, e noi siamo qui per promuovere l’applicazione delle norme governative troppo spesso ignorate dai privati e dalle amministrazioni locali”.

Il signori del CHP dicono cose buone e giuste: spiegano perché è importante preservare le vestigia del passato, e spiegano in modo convincente il perché questo finora non si è fatto. Non solo, in un Paese dove ogni nuova dinastia al potere ha distrutto o snaturato quello che ha lasciato la dinastia precedente, non esiste una cultura della protezione, ma è anche vero che non esiste assolutamente un quadro normativo adatto. Le linee guida sono fumose e non vengono tradotte in leggi vincolanti, quando anche le leggi ci sono, non vengono conosciute da chi dovrebbe rispettarle e anche chi dovrebbe farle rispettare; anche in presenza di informazione, le regole non vengono spesso applicate a causa di corruzione o superficialità. E al di sopra di tutto questo, non esiste un’imposta sulla proprietà catastale. Che c’entra? Il CHP ve lo spiega.

Se in Europa casa tua sorge accanto a una cappella del XIV sec. il valore dell’immobile salirà alle stelle. Da questo non solo guadagni tu, che sei propretario, ma anche l’amministrazione locale che tassa il tuo valore catastale. Sviluppare aree residenziali ad alto valore e preservarle è una fonte di reddito enorme per un Comune. In Cina no, anche se una proprietà vale tanto, il governo locale non ne trae nulla. E quindi la cappella o il tempio del ‘400 lo si spiana per farci una fabbrica di stufe a carbone che genererà un reddito tassabile, che permetterà al governo di raggiungere gli obiettivi di sviluppo posti dal governo, e magari anche far finire una parte degli appalti in tasca ai responsabili urbanistici. Semplice no?

Soprattutto convincente. E’ così che entro in contatto con il CHP, e prima di andarmene, entusiasta, firmo la mia carta d’arruolamento: sarà un volontario per un progetto, che vedrà altri pazzi come me, stranieri e cinesi dai 18 ai 55 anni, sguinzagliati per il centro storico a censire i vari edifici che rispettino o meno il piano regolatore per la tutela dei beni culturali, e nel contempo ci aiuteremo a vicenda nel fare ricerca su quello che ancora rimane, nella vecchia capitale, da proteggere dalle ruspe assassine dei costruttori.

Nei mesi a venire, sono certo, ne vedremo delle belle.

2007-06-29

Voglia di Piccante

A metà ottobre l’autunno arriva a Pechino. Anche se il sole non si offusca, ma rimane brillante, un’aria fredda spira dal Nord, e la temperatura si abbassa di una decina di gradi. Tempo di indossare un maglione e, la sera, di mettere il piumone sul letto. Cè un bel fresco, benvenuto dopo la gran calura dell’estate. Le finestre non si chiudono ancora, tuttavia: si sta bene, l’aria è secca e frizzante, pare quasi di stare a Milano a fine settembre, belle giornate ventose col sole giallo.

Con il freddo, l’appetito viene stimolato e tutti i piatti troppo pesanti per l’estate vengono riscoperti, con gli odori che escono dai ristoranti. E per chi scrive, il primo freddo dell’autunno di solito comporta un’insana voglia di mangiar piccante. Pechino naturalmente offre una selezione di cucine che soddisfa qualunque gusto: dall’indonesiana alla tailandese, dalla sichuanese alla messicana.

Ci sono due posti che sono i miei preferiti, in questo momento dell’anno. Il primo è il Red Rose Restaurant, scoperto tanti anni fa grazie a Yao Qiong: un edificio a forma di moschea dove, all’interno, cinesi si mescolano con stranieri da ogni parte del mondo: americani, indonesiani, pakistani, africani, francesi, e tanti tanti musulmani dall’Ovest della Cina. Il ristorante, oltre ad essere famoso per i suoi yangrouchuan’r, gli spiedini di montone più grossi, teneri e saporiti della capitale, offre spettacoli a tema, dalla musica tradizionale, con qualche influsso internazionale tipo Gypsy Kings (i xinjiangesi, i migliori chitarristi d’oriente, subiscono comunque il fascino dei gitani, i migliori chitarristi d’Occidente), danza del ventre, danza col serpente (ovvero con un pitone arrotolato attorno alle spalle) e, all’occasione, il karaoke di qualche cinese completamente sbronzo. Il tutto a un volume impossibile. La prima volta è pittoresco, la seconda è già fastidioso. Ma la carne di montone, coperta di abbondante cumino, pepe nero e peperoncino, è tanto buona che val la pena di subire lo spettacolo. Il nang, il pane xinjiangese, è divino, ben lievitato e coperto di semi di sesamo. Notevolissime anche le Xinjiang chaocai (新疆炒菜), le verdure saltate alla xingjiangese, ovvero pomodori, patate, peperoni rossi e verdi, cipolle e striscioline di montone saltate nel wok e servite in una salsa di pomodoro speziata. E infine il “latte fritto”, crocchette burrose e fritte da intingere nello zucchero, indeali per concludere in dolcezza una cena invernale.

L’altro luogo che prediligo è il Golden Elephant, un ristorante indiano fattomi scoprire da Vaira e Vikash. Una volta era gestito da Muhammad Yussef, un signore indiano ben distinto, sempre in giacca e cravatta, ma panzone e baffuto come impone lo stereotipo del musulmano arricchito d’India. Ora Muhammad è partito, e il ristorante è gestito da cinesi – il servizio è terribilmente scaduto, ma il cuoco non è cambiato, e il Rogan Josh, il montone al curry del Kashmir, come lo mangiate lì non lo mangerete altrove. Anche qui la carne è tenerissima e il piccante del curry è delicato come non mai. Anche qui il naan, versione indiana del nang, è fantastico, insieme agli altri pani come il paratha e il roti. Notevole il classico pollo tandoori, servito a rischiesta con uno spicchio di limone che ne esalta il gusto di brace.

Poche cose sono piacevoli quanto starsene in un ristorante familiare a mangiar piccante mentre fuori fa freddo, e sapere che il conto è così abbordabile che ci si può permettere di mangiar qui a volontà senza sentirsi in colpa. La compagnia di un buon amico, una birra come si deve o un bel bicchier di rosso, e l’inverno in arrivo non fa più paura. Ci si accende una zhongnanhai a cena finita e si aspetta placidi, pigri e sorridenti che il vento della Siberia si scateni su questa città. Avrai anche il gelo e il vento sabbioso dalla tua parte, caro inverno pechinese, ma noi abbiamo i talismani appropriati per tenerti a bada – pepe nero, pepe verde, peperoncino e carne di montone.

2007-06-24

Il signor Chen

I miliardari sono tutti un po’ strani, e quando sono cinesi sono ancora più singolari. Mi capita di conoscerne uno presentandomi a un ristorante italiano per vendere i prodotti della mia azienda. Il signor Chen, titolare una catena di ristorazione italiana, mi risponde al telefono in un misto stentato di inglese e italiano, e mi dà appuntamento in uno dei locali per l’ora di cena.

Rotondo e sorridente, di un’eleganza molto semplice, capello corto, sbarbato e occhialini tondi, Chen siede al tavolo di questo ristorante che vorrebbe essere la trattoria italiana nella mente di una persona che ci è stata forse un paio di volte tanti anni fa. Pavimento e soffitto di legno, tovaglie a quadri bianchi e rossi, curiosi affreschi tipo Trecento sulle pareti, fila di vini con scritto “Chianti” sull’etichetta e, ciliegina sulla torta, una torre di Pisa in plastica posizionata al centro del tavolo da display, alta almento un metro e mezzo.

Chen mi fa accomodare gentilissimo, accetta il mio biglietto da visita e mi offre il suo: una carta bianca con la sua caricatura sorridente, e sotto scritto dal disegnatore “开心的小陈”, “il piccolo Chen felice”. Dopo poche battute è evidente che il mio cinese è meglio del suo italiano: chiacchieriamo amabilmente senza che nessuno accenni agli affari. Mi chiede di me, e poi a turno io gli chiedo di lui. Il signor Chen è il cinese andato all’estero ed arricchitosi, una storia comune, quasi un modello di vita per una generazione di suoi compatrioti, soprattutto nel Sud del Paese dove la tradizione dell’emigrazione e del commercio è antica. Chen è stato in Italia, ma non è di Wenzhou come tutti gli altri, ci tiene a precisarlo: viene da un paese vicino, sempre nel Zhejiang, ma guai a dire che è di Wenzhou. Tra le altre cose, è stato in Italia per poco tempo, un anno solo a Jesolo, prima di andare a lavorare in Germania come lavapiatti. Parla tedesco correntemente, ma questo non aiuta la nostra comunicazione. Come mai non ha aperto un ristorante tedesco, gli chiedo, e la sua risposta è molto diretta: “Perché il cibo tedesco fa schifo”. Si ride.

Nel frattempo Chen fa segno ai camerieri, che mi portano un menù. Uno di loro porta una boccia di vino in tavola. “Ti piace il vino?” chiede Chen, con ostentata premura. Salute, dico io, e tracanno il Chianti da supermercato che mi viene gentilmente offerto. Chen va avanti con la sua storia: l’Italia era bella, sì, ma in Germania c’era da guadagnare di più: è lì che ha fatto i soldi. Poi un giorno è venuto a Pechino, ha visto che non c’erano ristoranti italiani, e ne ha aperto uno, facendo venire uno chef dall’Italia. Tredici anni dopo di ristoranti ne ha cinque. Ordina ai camerieri una bottiglia di Prosecco, e mi chiede che ne penso. “Non male” dico. In Germania Chen viaggia ancora per affari, facendo trading. Oltre ai cinque ristoranti italiani ha anche un piccolo agriturismo finto toscano, un ristorante cinese in campagna e ha appena ottenuto l’appalto per la vendita dei beni sequestrati all’aeroporto di Pechino. Tutto quello che le guardie tolgono ai passeggeri in transito – bottiglie di vino, birra, superalcolici, accendini, coltellini, ricariche dello Zippo, forbici – lui compra a un prezzo fisso settimanale, e le rivende in un suo supermercato che sta lì nei pressi. Ordina un’altra bottiglia e me la mostra orgoglioso: un liquore con un nome tedesco scritto in caratteri gotici, di colore ambrato e con della foglia d’oro che galleggia dentro. E’ foglia d’oro vera, ci tiene a specificare Chen. Gli credo. Il liquore ha uno strano sapore dolciastro, un misto di pesca e mela, con questa foglia d’oro che galleggia dentro ma non si sente. Il cameriere mesce. Oltre ai ristoranti, al commercio all’ingrosso, al trading con la Germania, Chen ha senza dubbio un sacco di altre attività. Me le elencherebbe tutte se potesse, probabilmente. Mi chiede di dove sono, e scoprendolo dice con gioia che anche lui è stato a Milano, una volta, all’hotel Principe di Savoia, che è un buon hotel sottolinea, come se uno di Milano non lo conoscesse. Ma, mi dice, in quel posto non ci torna più: servizio splendido, sì, ma pieno zeppo di fantasmi. Fantasmi?, chiedo. Sì, dappertutto, la notte non c’era verso di dormire, continuavano a tormentarlo. Gli chiedo se li ha visti e che aspetto avevano. Chen si fa serio: “Non li ho visti... ma so che c’erano”. Mi chiede se voglio altro da bere, magari un amaro. Averna? Ramazzotti? No, perché lui li ha tutti, anche quelli che non si trovano normalmente in Cina, lui comunque riesce ad averli.

La conversazione finisce ad ora tarda. Si parla d’affari distrattamente, presento la lista dei miei prodotti, li commenta entusiasta atteggiandosi a profondo conoscitore della cucina italiana. Io chiedo il conto. Per carità, per carità, dice, sei mio ospite. Torna quando vuoi. Ma guarda un po’, che gentile il signor Chen, certamente con le persone ci sa fare. D’altra parte, se non fosse così non sarebbe quello che è ora.

Andandomene e salutandolo, mi viene una domanda: se lui è stato a Jesolo, perché il suo ristorante l’ha chiamato con il nome di un’altra città più piccola, non molto lontana, che comincia per “A”? La risposta è tanto semplice quanto spiazzante: “Ho pensato che così il nome del ristorante sarebbe venuto primo in tutti gli elenchi”. Sempre pragmatico, il signor Chen. Lo ringrazio a profusione prima di andarmene e cercare un taxi. Sarà quel che sarà, ma devo dire che mi sta davvero simpatico, ed è questo, saper essere simpatico a tante persone, quello che fatto la sua fortuna. Sono contento di scoprire che si può essere arricchiti e pieni di sé senza essere antipatici e arroganti. Pechino riserva sempre un sacco di sorprese.

2007-06-20

Una Promessa Mantenuta

Dandan è a Pechino per la settimana della Liberazione e, a parte comprar mobili e portar la mia Lei visitare la città, che non girava da circa 20 anni, decido di andare a cercare una vecchia conoscenza del passato e mantenere una promessa fatta nell’inverno del 2003.

Biglietto da visita in mano, io e Dandan ci incamminiamo tra gli hutong vicino al Tempio di Confucio e, facendomi guidare da una memoria lontana, mi metto in cerca della casa del vecchio signor Ban, l’ex professore di matematica ora pensionato e, per arrotondare, calligrafo per turisti. Ho conservato la foto che ci siamo fatti assieme, ma l’epidemia di SARS mi aveva impedito di portargliela come promesso. La parola data è sacra, e dunque eccomi qui, curioso di vedere ancora il vecchio signore così gentile.

Entriamo in un vicolo stretto costeggiato da porte e vecchi pingfang (平房, ovvero baracche posticce di mattoni rossi costruite ai tempi di Mao, in cui veniva ospitata la gente che immigrava in città, posizionate in qualunque spazio possibile come cortili, lati di strade, vicoli chiusi, ecc.). Dandan ha un’idea: il signor Ban è vecchio e piombargli in casa così all’improvviso non è carino, meglio telefonare. Chiamiamo. Risponde una donna che, incerta, ci invita ad entrare al tal numero e spiega come orientarsi nel vicolo, quali direzioni prendere, e a quale porta posticcia fermarsi.

Arriviamo, sì, sono passati più di tre anni ma me lo ricordo questo scorcio di pingfang, stanze minuscole, il salotto-camera da letto da un parte, la cucina a cabina telefonica, la biblioteca-camera dei figli dall’altra parte del vicolo di mezzo metro di larghezza. C’è una signora con gli occhiali spessi e quadrati e i capelli bianchi che ci aspetta sorridente. Niente indugi, ci invita a sederci al tavolino, io su una seggiola scassata e Dandan sul letto, la sciura prende uno sgabello, apparecchia con delle carte di giornale e sega a metà un’anguria titanica.

La signora Ban, senza nemmeno sapere chi siamo, spiega che il marito è fuori ma tornerà presto, nel frattempo ci offre quello che ha in casa e chiacchiera con Dandan. Tempo dieci minuti, eccolo che arriva: è lui, un po’ dimagrito, decisamente invecchiato, ma sempre lui. Saluta calorosamente ma è chiaro che non ha capito chi sono, solo che le regole dell’ospitalità gli vietano di essere freddo. Nessun problema, ecco il deus ex machina: estraggo la foto e spiego, con l’aiuto di Dandan, della mia promessa. Mi scuso di non poter essere venuto prima, ma le circostanze non me lo hanno permesso. Il signor Ban si illumina, e allora orgoglioso e compiaciuto si butta nella conversazione. Ci fa ogni genere di domanda, accompagnando le risposte, come si conviene, con complimenti a profusione sull’Italia, su Chengdu, sul mio cinese, sul fatto che sembriamo bravissimi ragazzi, e chi più ne ha più ne metta.

Il signor Ban è sempre pensionato, fa sempre il calligrafo ma ultimamente ha sempre meno voglia di uscire, data l’età e gli acciacchi. Per fortuna uno dei suoi figli è diventato professore come lui: non guadagna un granché, ma è un mestiere prestigioso e gli permette di aiutare i genitori, che ricevono una pensione di meno di 1000 kuai al mese. E’ anche vero che casa loro, nei suoi 35 metri quadri di spazio, costa meno di 100 kuai di affitto. Poveri in canna, ma dignitosi, sempre così la famiglia Ban. Ora che il mio cinese, rispetto a tanti anni fa, è migliorato, riesco a chiacchierarci meglio e ad approfondire. Ragazzi, la mia prima conversazione in cinese l’avevo avuta con lui!

Rimaniamo a discutere amabilmente e mangiar frutta a lungo, e il signor Ban mi chiede di scrivere dietro la foto la data e il mio nome, per ricordarseli, che l’età gli fa brutti scherzi. Ne scattiamo un’altra, con la mia nuova macchina digitale, per ricordarci d oggi. Poi la moglie sparecchia, pulisce il tavolo e lui estrae la sua collezione. Ci fa scegliere tre rotoli da darci in dono: caratteri semplici incorniciati da formule di buona fortuna. Io e Dandan scegliamo Ai (), Amore; Fu (), Felicità; e Fo (), Buddha.

Salutiamo il signor e la signora Ban con infiniti ringraziamenti, che contraccambiano di cuore. Poi, nella sera che cala, io e Dandan c incamminiamo verso casa con i nostri tre rotoli di calligrafia. Il primo di questi finirà incorniciato sopra il letto.

La sera, stesi uno accanto all’altra, pensiamo all’incontro e ai tre auguri del vecchio Ban. Stringendoci la mano, immaginiamo il nostro futuro in questa città, insieme.

2007-06-11

L'Ikea, pure quello falso

E’ la prima settimana di ottobre, e in Cina è la Festa della Liberazione, ovvero la festa che celebra la vittoria dei Comunisti su Giapponesi e Nazionalisti. Tutti i cinesi godono di una settimana di vacanza e così Dandan viene a Pechino per passare le vacanze con me. Il tempo è perfetto, non so se per intercessione dei cannoni sparasale del governo o del potere dei draghi, ma poco importa: ci sono sole brillante e una bella brezza fresca che stempera il calore.

Casa è ancora piuttosto spoglia, e siccome Dandan ha l’abitudine di seminare le proprie cose in giro per l’appartamento, aggiungendo al mio disordine il suo, di comune accordo decidiamo che ci servono dei mobili in più, nello specifico un altro armadio, una scrivania, una libreria e un mobile porta scarpe.

Per mantenere lo stile della poca mobilia che già c’è decidiamo quindi di andare nel luogo dove sono stato con Wang Li e sua moglie. Telefoniamo al numero stampato sul volantino che avevo conservato, e una signora ci dice: “Venite pure, siamo aperti per tutto il periodo delle vacanze, mei wenti!”

E’ così che ci imbarchiamo sulla metropolitana, cambiamo linea a Jianguomen, e dopo circa un’ora scendiamo a una stazione di periferia. Come previsto, lì a pochi metri c’è il bigliettaio che ringhia e spedisce la gente su un jinbei bianco che nemmeno in Iraq ne hanno di così scassati. Faccamo il biglietto, lascio a Dandan la discussione sulla fermata, paghiamo un kuai e ci accomodiamo in fondo, ammirando tutti gli strani personaggi che abbiamo attorno. Il mezzo si riempie abbastanza in fretta e corre lungo una grande strada diritta, con il bigliettaio che spinge giù i passeggeri se devono scendere o li tira su se vogliono salire, il tutto ovviamente senza mai fermare il taxi bus.

Il jinbei lentamente si svuota, e finalmente arriva la nostra fermata. Forse perché sono straniero, il taxi bus questa volta ferma e ci fa scendere comodamente, poi inverte la marcia e va via. Siamo io e Dandan su questo stradone di periferia, sotto il sole, davanti a una fila di attività che comprendono quattro meccanici, un ferramenta e un grande magazzino con l’insegna gialla e blu, in perfetto stile svedese. Piccolo particolare, le porte sono chiuse con una catena e un bel lucchetto da bicicletta, le vetrine sono coperte di polvere come se non fossero state lavate per settimane, e l’interno è assolutamente vuoto se si eccettuano pezzi di macerie casuali. Mi torna in mente il mei wenti della donna la telefono.

Per fortuna sulla porta è attaccato con lo scotch un foglio su cui qualcuno ha scritto, a mano “Se avete bisogno di qualcosa chiamate il seguente numero” che poi è quello che appunto ci aveva assicurato che il negozio era aperto. I meccanici ci guardano come se fossimo alieni, qualcuno scuote la testa, altri ridono. Attorno non si vedono taxi, fermate di bus o qualsiasi altro mezzo di locomozione utiizzabile. Siamo sperduti nella periferia sotto il sole, e quelli se la ridono di noi.

Dopo tanto tempo in Cina ho imparato a non farmi prendere dalla rabbia o dallo scoramento. Chiamiamo ancora questo numero di prima e vediamo cosa dicono:

Tuut... tuut... tuut... pronto?” risponde la stessa donna di prima.

“Buongiorno, voleamo chiedere un’informazione. Abbiamo già chiamato un paio d’ore fa per sapere se siete aperti... voi ci avete detto di sì... solo che ora siamo qua davanti al vostro negozio e non ha un’aria per nulla aperta”

“Aahhh, siete arrivati finalmente!” dice la donna “Mei wenti! Aspettate un secondo che mando qualcuno a prendervi!” e mette giù.

E va be’, aspettiamo. In queste situazioni una vota mi sarei incazzato da morire, ma ora scuoto le spalle e aspetto. Per ogni cosa c’è una spiegazione, basta avere pazienza e cercarla. Eccolo che arriva, dopo qualche minuto, il nostro uomo, in sella a un grosso e rombante triciclo a motore tutto giallo e blu, con una bella bandiera svedese sul manubrio. Quando ci vede agita la mano: “Adesso vi porto direttamente al magazzino centrale, dove c’è molta più scelta!” dichiara orgoglioso. Il che tradotto in forma esplicita significa che l’IKEA deve aver fatto problemi alla loro azienda e quindi hanno spostato lo show room dalla strada principale a una location molto meno visibile. Infatti l’omino, dopo averci fatto montare sul retro, coperto da una tenda gialla blu, inverte la marcia e si infila in una stradina costeggiata da fossi e pioppi. Il “magazzino centrale” sta lì a due minuti coperto da un filare d’alberi e un paio di costruzioni di mattoni, esattamente uguale al vecchio show room, con le famiglie cinesi che esaminano i mobili e le venditrici che cercano di imbastirle sulla qualità e sul prezzo ottimi.


C’è tanta roba, dai mobili nuovi in stile vecchia Pechino a letti viola con coperte zebrate e sedie acidissime a forma di mano. Troviamo facilmente i mobili nel nostro stile e cominciamo ad elencare quelli che vogliamo chiedendo i prezzi. Ci sono in due colori, legno chiaro e legno scuro, e a noi serve il secondo, che però non è disponibile.

“Vorremmo questo tipo di armadio, ma con il colore di quell’altro armadio”

La venditrice scuote la testa: “Mei you, non c’è, non è disponibile”

“Lo vedo che non c’è, ma fatemelo arrivare. Ordinatelo alla fabbrica da cui lo comprate”

La ragazza sembra confusa: “Signore, mi spiace, ma guardi che l’armadio come lo vuole lei, ma dell’altro colore non c’è... “ ci pensa su un po’ “Non esiste” conclude.

E’ tipico dello staff puramente esecutivo in Asia, nelle situazioni impreviste, trovare una scusa gentile per sottrarsi alla responsabilità di dover pensare o dire qualcosa oltre le istruzioni che si sono ricevute. Nello specifico, la proprietaria ha detto alla ragazza di vendere i mobili che ci sono nello show room, ma siccome il mobile che voglio io non c’è, lei non me lo vuole vendere.

“Allora” spiego con pazienza “Questi sono mobili modulari. Ci sono tre modelli di armadio e due colori disponibili. Questi mobili sono costruiti per la maggior parte con gli stessi pezzi, per cui se esiste un mobile a cassetti chiaro, la fabbrica ne produce anche uno scuro, basta cambiare il colore dei pezzi. Guarda: scrivania chiara, scrivania scura, tavolo chiaro, tavolo scuro. Questo è l’armadio che voglio, ma trovami quello dell’ALTRO colore.”

La ragazza annuisce ma non ha capito nulla. Facciamo chiamare la responsabile del negozio, che senza essere una cima comunque dà l’impressione di aver capito la mia logica, anche se non è sicura che sia così. “Lo so che tutti questi mobili li fanno in due colori, ma magari quelo che vuoi tu lo producono solo in colore chiaro” spiega.

“Va bene” dico “allora dì alla fabbrica di prendere questo armadio, togliere questo pezzo che vedi qui e aggiungere quest’altro che vedi là, e farmelo avere. Perché vedi, se i pezzi già ci sono, vuol dire che la fabbrica può metterli assieme. Se hai qualche dubbio ancora, per favore... per favore... non esitare a chiamare il tuo capo in fabbrica. Sicuramente saprà cosa fare ”.

Finiamo di discutere il prezzo: un armadio, un porta-scarpe, una scrivania e una libreria coordinati, 900 kuai. Se ci aggiungiamo altri 100 kuai ce li consegnano a casa dall’altra parte di Pechino. Mi viene da ridere mentre pago, ma dove li trovi dei mobili uguai a quelli IKEA a questo prezzo? E poi dicono che IKEA costa poco... prova a guardare il reale costo di produzione di quello che compri!

I mobili arrivano come promesso un paio di giorni dopo. I due omini delle consegne riescono a trovare casa mia alla seconda telefonata, il che è un record positivo finora, si mostrano gentilissimi e mi aiutano a portare tutto quanto nell’appartamento. L’armadio è arrivato del colore giusto, anche se a guardarlo bene è una tonalità leggerente più scura dei mobili che ho già. Ma se uno prova a crederci, può dire che è un mobile di vero legno fatto a mano è unico e non replicabile, e far finta che non sia legno pressato con una mano di vernice chimica mischiata a cazzo al momento dal falegname. Si apre, si chiude, ed è anche bello da vedere. L’aiyi arriva il pomeriggio stesso e le facciamo lavare il tutto per rimuovere lo strato di polvere chimica e sabbia del Gobi che ricopre la mobilia fuori e dentro. E poi eccolo lì, bastano quattro mobili e meno di 100 euro, e s’è fatto un appartamento quasi decente! I vestiti vengono raccolti da terra e infilati nell’armadio, i libri nello scaffale, le scarpe nella scarpiera e le varie candele e statuine di divinità indiane e buddhiste posizionate con riguardo sulla scrivania. L’ordine può ora regnare in questo appartamento, che assomiglia sempre di più a una vera casa.

2007-06-09

Discutendo del più e del meno

Se avete letto superficilmente solo alcuni dei post di questo blog potreste esservi fatti l’idea che i cinesi siano tutti dei gran minchioni. Non c’è nulla di strano o di male, questa è comunque l’idea che si fa anche chi vive qui per un periodo piuttosto corto o comunque non si preoccupa di conoscere bene il Paese e la gente che lo abita.

La realtà tuttavia è ben diversa – così come i cinesi stupidi e ignoranti sono le bestie più bestie che ci siano, quelli svegli e di buona cultura sono dei geni che non ne trovi altrove. Chissà poi perché, ma è così. Nello specifico, uno dei miei amici ricade nella categoria dei geni, e siccome è parecchio tempo che non lo vedo, una sera lo chiamo e lo invito a cena sulla Guijie.

Arriva direttamente dall’ufficio il vecchio Joe, ossia Zhou, taglio di capelli standard, polo rossa e occhiali da topo da biblioteca, e ci infiliamo in un ristorante di hot pot di pesce stile shanghainese. Non può mangiare altro, mi dice, per problemi di stomaco. Molti cinesi ne soffrono, a causa delle quantità esagerate di té bollente che bevono, che erodono le pareti dello stomaco causando ulcere a manetta. Le sigarette non fanno che peggiorare la situazione.

Il buon Joe ordina dall’acquario, il cameriere pesca, ammazza, mostra ai clienti, e poi porta la bestia in cucina. Di lì a pochi minuti il pesce è cotto a puntino, servito in un calderone di metallo che ribolle di brodo profumato, la sua carne è tenera e delicata e per nulla oleosa e dolce, come invece di solito sono i piatti di Shanghai.

Si parla di massimi sistemi, con Joe. E’ una delle uniche persone che conosco qui con cui è davvero gratificante parlare, perché non c’è niente che non conosce, nessun argomento su cui non ha già riflettuto, e su cui non ha un’opinione solida. Verso metà della cena i nostri discorsi deviano verso la democrazia. Joe, a differenza di molti cinesi, non ha remore a discuterne con uno straniero. Mi dice che la Cina non ne ha abbastanza, che il governo è troppo unilaterale e non tiene conto dei problemi di tanta gente, soprattutto nelle campagne. I loro interessi, i loro diritti di base, sono calpestati senza pietà. Secondo lui, questa situazione non può durare in eterno, qualcosa deve cambiare, ci deve essere una rivoluzione. Non necessariamente una rivoluzione violenta, anche solo una rivoluzione amministrativa, nella cultura dello Stato.

Non mi trova d’accordo: vivo in Cina da ormai due anni e quello che vedo è un governo che si impegna per far crescere il Paese. Gli faccio l’esempio delle grandi democrazie e di quello che hanno prodotto. Quale Paese che pretenda di essere democratico, alla fin fine lo è davvero nel nostro secolo? Gli Stati Uniti, il grande campione della democrazia mondiale? Uno stato dominato dai media, dove la gente subisce un lavaggio del cervello non molto diverso da quello che riceve qui. Se non altro il Partito, dico, è più onesto nel dire ai suoi cittadini che le loro decisioni non influenzano il governo.

L’Europa? E’ una democrazia malata. Certo, siamo liberi di pensare, siamo liberi di scrivere e di parlare, ma questa libertà è abusata, ciascuno si trincera dietro i propri diritti personali e paralizza l’intero sistema. Da dopo la Seconda Guerra Mondiale siamo dominati da un’élite politica corrotta, e ogni tentativo di cambiamento positivo è bloccato da interessi particolari, da ideologie di nicchia. Quanto alla libertà di voto certo, la gente vota, ma cosa vota? Non ha idea di cosa accade veramente nei Parlamenti, nelle riunioni di governo, nelle alleanze di partito. Tutti possono esprimere la propria opinione, e alla lunga l’opinione è diventata più importante della realtà. Ciascuno è libero di non essere obiettivo, di non essere ragionevole, di divulgare informazioni parziali o faziose. Il sistema democratico moderno è basato sul conflitto, ognuno dice la sua, ognuno si preoccupa delle proprie prerogative. Ognuno pensa ai propri interessi di gruppo, e i valori, quelli che tengono insieme una società, sono scomparsi. Chi parla più di valori, in Europa? L’unico argomento è il welfare – le tasse, i servizi. E questa sarebbe politica? Questa sarebbe democrazia? Finché la gente concepisce lo Stato solo come un’amministrazione dei beni comuni, non si può parlare di democrazia. Non esiste una cultura della democrazia, e senza questa cultura non ci può essere democrazia. Senza cittadini responsabili che votano con coscienza, e senza amministratori altrettanto responsabili nei confronti dell’elettorato, abbiamo solo un sistema che non funziona.

In Europa, non abbiamo una cultura della democrazia. In America nemmeno, e neppure in India, in Russia o in America Latina. Che senso ha parlare di democrazia in Cina allora? Che senso ha dar potere di voto a ottocento milioni di contadini che sanno a malapena scrivere il proprio nome? Per chi voterebbero? Per cosa, se non per le promesse più fantasiose e per il candidato più accattivante e simpatico? Questa è forse democrazia? Credimi, Joe, tanto meglio il Partito unico che elegge i governanti al suo interno, almeno ho la certezza che chi comanda qui è stato eletto da persone che sanno quel che fanno, e che non si spaventano per un corteo di villaggio o per un prete che parla d’apocalisse. Mentre l’America produce solo guerre e l’Europa è paralizzata dal suo rispetto delle minoranze, la Cina cresce, si costruiscono scuole, ospedali, infrastrutture, e la gente pensa al futuro. Chi pensa più al futuro, in Occidente? Senza fiducia nel futuro, non si può migliorare.

Ci spostiamo a casa mia. In Italia ho comprato una moca per Joe, che ama il caffé. Almeno, spero, non si sfascerà più lo stomaco col té. Su sua richiesta, tiro fuori la chitarra, strimpello qualcosa. Gli piace, nella sua curiosità da bambino per qualunque cosa vuole imparare, e dieci minuti dopo Joe sta praticando Mi, Mi minore, La, La minore. Sospiro, gli do degli esercizi da fare a casa. Joe è entusiasta. Che uomo fantastico, averne di energie mentali così.

Rimaniamo a chiacchierare fino a tardi su questo e su quello, sul senso dell’arte e sulla cultura italiana, sulle donne e sugli uomini e sulle loro relazioni, sulla Rivoluzione Culturale e sulla lingua latina e le sue influenze nelle lingue moderne. Non andiamo d’accordo su molte cose, ma entrambi gioviamo dei punti di vista reciproci. Quando Joe se ne va verso casa, la sua moca in un sacchetto di plastica e la promessa di praticare gli accordi, mi sento leggero, come se tanti pensieri nella mia testa fossero venuti fuori e non spingessero più dall’interno del cranio. Ogni tanto ci vuole un amico così con cui parlare.

2007-05-31

Disastro

Ritorno dal mio viaggio in Cina Occidentale, durato una decina abbondante di giorni, con uno strano presentimento di sciagura. Per qualche motivo, ancora mi frullano per la testa le bollette non arrivate e mai pagate. Speriamo che, in mia assenza, nulla di spiacevole sia accaduto in casa.

Ed eccomi davanti alla porta di casa, con il suo odore familiare, a tarda sera, con al seguito una valigia enorme e pesantissima di indumenti sporchi, uno strato di sudore innominabile che mi ricopre tutto il corpo, e una gran fame. Sulla porta c’è un foglio attaccato con lo scotch, scritto fitto in caratteri cinesi, con un numero di cellulare. L’ultima frase, abbondantemente rafforzata da numerosi punti esclamativi, è scritta in rosso, il colore del sangue e della mala sorte qui in Cina. Ancora il cattivo presentimento. Respiro ed apro la porta.

Vengo investito da un odore di marcio impossibile. Accendo la luce. O meglio, premo più volte l’interruttore, ma la luce non si accende. Buio completo, non brillano nemmeno le luci familiari della macchina dell’acqua e del frigorifero. Nel cassetto, cerco la torcia elettrica e l’accendo: sembra tutto in ordine. Accendo una candela ed ecco la casa illuminata in una luce fioca e sinistra. Lo sento, in questo posto così intimo c’è qualcosa che non va, e non capisco cosa sia. Coraggio.

Apro il frigo, e capisco da dove viene l’odore di marcio. E’ saltata la corrente, chissà quanti giorni fa, e tutto il suo contenuto, al bel caldo di settembre, ha cominciato ad andare a male. Il mio stomaco affamato brontola di frustrazione, mentre passo in rassegna gli alimenti perduti: latte, che significa niente colazione domani mattina; salame, pane, burro, succo di frutta, frutta, verdura, tutto da buttare, e dimentichiamoci anche la cena stasera; e soprattutto formaggio, due pezzi da un chilo di Grana Padano di quello buono, portati dall’Italia un paio di settimane prima, coperti da una spessa muffa blu che, una volta rimossa, lascia un bel pezzo di marmo buono appena per la grattugia! Noooo!

E’ tardi ormai per andare in qualsiasi ristorante o supermercato. Mi dovrò arrangiare a mangiare biscotti, per stasera. Amen, la prendo con fiosofia e vado in bagno, per darmi una lavata. Giro il rubinetto, non succede nulla. Tiro lo sciaquone: vuoto. Cazzo, questo è veramente grave. Le bollette non pagate mi tornano in mente e mi assale il dubbio che, in mia assenza, i pubblici servizi mi siano stati staccati... e quindi mi aspettano trafile impossibili e giorni di attesa prima di ottenerli.

Mi sento infinitamente triste e solo. Estraggo il cellulare: è finita la batteria, e senza corrente non posso nemmeno ricaricarla. Estraggo l’altro cellulare, mi rimangono solo pochi yuan di credito, buoni forse per un paio di telefonate. Ed ora è troppo tardi per comprare ricariche. Chiamo Irene, che abita vicino a me, per cercare aiuto, o almeno conforto, forse qualcosa da mangiare, magari l’utilizzo del bagno per darmi una lavata sommaria perché l’idea di andare a letto così mi uccide. Irene, come suo solito penso, non risponde. E’ in quel momento che mi chiama Dandan, per sincerarsi che sia arrivato sano e salvo a casa. Le racconto quel che è successo e lei va in panico, suggerendomi mille modi assolutamente impossibili di risolvere la situazione. Le dico che ho poca carica e che devo chiamare Irene quantomeno per capire cosa dice quel foglio con la formula di chiusura in rosso, che ancora mi inquieta, e che magari è la chiave di tutto il casino. Ecco, lo sapevo: scenata di gelosia di Dandan sul fatto che a tarda sera non le va che io veda un’altra ragazza. Intanto il cellulare, che riceve una telefonata da Chengdu, lentamente esaurisce il suo credito.

“Senti, Amore” le dico “scusa, ma questo non è proprio il momento!!!”

Anche questa ci voleva! E senza tanti preamboli chiudo la discussione e metto giù. Cerco le sigarette perché ho decisamente bisogno di calmarmi. Apro il pacchetto. E’ vuoto. Cazzo. Cazzo. Cazzo.

Scendo in strada e vado al 7 Eleven, benedizione per chi come me vive ad orari sbagliati. Guarda un po’, oggi hanno finito sia le sigarette che le ricariche del cellulare. Io non so se qualcuno mi abbia fatto una fattura o che, ma faccio fatica ad immaginare una situazione più sfigata di questa, in piena notte, stravolto, sporco, senza celluare, senza sigarette, senza elettricità né acqua in casa e senza una persona che sia in grado di dare una mano.

Poi Irene mi richiama. Per fortuna lei è comprensiva, e riesce a farmi ridere della mia situazione. Mi calma, mi fa ragionare un po’. Rimaniamo d’accordo che faccio un paio di tentativi ancora, poi le faccio sapere. Ritorno in casa. Con la torcia che sta morendo tra le mani, cerco il quadro elettrico e, con un po’ di smanettamenti, riattivo la corrente. Luce in casa, grazie al cielo: ora è il turno dell’acqua. So che c’è un rubinetto dell’acqua sul pianerottolo, vuoi vedere che quelli della società dell’acqua sono venuti e mi hanno chiuso quello? Controllo, è propro così. Giro la manopola, ed ecco l’acqua!

Sono al settimo cielo. Ricarico il cellulare di lavoro, che ha ancora credito, chiamo Irene e la ringrazio, dandole appuntamento al giorno successivo per la traduzione del foglio che, a questo punto sono quasi sicuro, contiene una maledizione di qualche mago taoista nero. Chiamo Dandan, le dico che non vedrò Irene stasera, lei si scusa per lo scarso supporto che mi ha offerto, facciamo pace e ci si dà la buonanotte.

Rovescio la valigia nel cestone della biancheria sporca, mi infilo in doccia, mi cambio, sgranocchio un po’ di merendine recuperate al 7 Eleven, e me ne vado a letto.

Il giorno dopo ricostruirò una parte degli eventi: Irene spiega che il foglio sulla mia porta è stato scritto dall’inquilino sotto di me, che lamenta macchie d’umidità enormi sul soffitto della cucina. Il tizio è salito, mi ha cercato per giorni non sapendo che ero fuori città, e quindi ha chiuso il mio rubinetto dell’acqua, e da allora le perdite si sono fermate. Faccio chiamare Wang Li da Dandan e ci diamo appuntamento a casa mia con il vicino. Il vicino, scopro, è un poliziotto, ma molto gentile: la sua richiesta semplice, non riattivare l’acqua finché non si scopre la perdita. Gli rispondo che gentilmente che la cosa non esiste, e comunque l'acqua l’ho riattivata il giorno prima e non mi risutano perdite. Wang Li si fa paciere: fa fare al poliziotto il giro dell’appartamento e gli indica con precisione tutte le tubature dell’acqua:

“Qui, come vede, niente perdite. Qui, nemmeno. Qui, neanche. Qui, vede perdite? No, perché non ce ne sono. Come facciamo a fermare delle perdite che non esistono?”. Lineare, e poi dicono che i cinesi non parlano mai chiaro. Wang Li, come sua abitudine, chiude il discorso con un bel "mei wenti!". Tutti amici come prima, il poliziotto si scusa e se ne va. Wang Li saluta e dice che se ho qualche altro problema ci parla lui con la polizia o con chicchessia. Rimango solo in casa, ma non sono tranquillo.

Sarà che anche se vivo in Cina da tanto, rimango comunque italiano, e nella logica della mia cultura tutti gli effetti hanno una causa. Da dove veniva la macchia d’umidità sul soffitto della cucina del vicino? E perché la corrente è saltata? E perché il parquet del salotto, nei pressi della cucina, è tutto deformato? Mei wenti il cazzo, vorrei dire, qua di wenti ne abbiamo uno bello grosso! Ma siccome nessuno sembra preoccuparsene, la psicologia di gruppo ancora una volta ha la meglo su di me e, per qualche settimana mi dimenticherò del problema. Poi finalmente scoprirò di cosa si trattava, con conseguenze a dir poco drammatiche.

2007-05-28

Presentazione in Famiglia

Ad agosto uno dei miei colleghi cinesi aveva buttato lì l’idea di fare un viaggio in Xinjiang. Ovviamente mi ero segnato la cosa e, a settembre, gliela ricordo. Da un paio di discorsi capisco che il collega ha cambiato idea, che secondo lui questo viaggio è veramente inutile. Invece, guarda un po’, secondo me il potenziale del salame nella regione musulmana della Cina è enorme, e con varie proposte, promesse e velate minacce riesco ad ottenere la partenza anche con la benedizione dei capi italiani, che una serie di report contenenti esclusivamente informazioni filtrate hanno convinto che solo invadendo i mercati inesplorati e controllandoli completamente potremo competere nel futuro della Cina.

E allora, una volta ottenuto il dito, mi prendo la mano. Il viaggio da Pechino al Xinjiang dura circa 4 ore di aereo. Il viaggio è costoso e, finché siam lì, sfruttiamo l’occasione e facciamo una tappa a Xi’an, che è di strada. Sì, Xi’an non è proprio di strada, mi fa notare il buon collega cinese che la geografia la conosce. Che vuoi che sia, mi inalbero, una deviazione di un po' più di mille chilometri, su un viaggio così? Approvato anche il detour, bene. Ora è il momento di prendersi il braccio: già che siamo a Xi’an, che ci vuole a fare un salto a Chengdu? E’ un’altra deviazione di un altro migliaio di chilometri, peraltro nella direzione opposta. Quisquilie, quisquilie, noi italiani non ci facciamo spaventare dalle distanze, dico ai cinesi, noi ci si da’ da fare. D’altra parte i cinesi stragiurano che ci sono opportunità di business grandiose, spiego agli italiani, quindi sarebbe una mancanza di fiducia rifiutarsi di andare.


E così, a fine settembre, mi ritrovo per qualche giorno, casualmente con weekend annesso, a Chengdu tra le braccia della mia bella Dandan. Oramai sono quattro mesi che ci frequentiamo: questa è la mia terza volta a Chengdu, e lei mi ha visitato sia a Shanghai che a Pechino. Il nostro rapporto matura, e quindi lei ha deciso che, se veramente ci tengo a farla venire un giorno a vivere a Pechino, sarebbe il caso quanto meno di far vedere ai suoi che faccia ho. E ha già fissato una cena in famiglia.

Sì, esattamente come state pensando. Una cena di presentazione ufficiale in famiglia è sempre una situazione stressante, specie se la famiglia non parla la tua stessa lingua, né una che mastichi con facilità. Mi preparo cercando di prevedere ogni situazione e minimizzare lo shock culturale reciproco. Me li immagino, i genitori di Dandan, classici genitori cinesi post-politica del figlio unico ovvero iperprotettivi, impiegati dell’amministrazione pubblica, di sinistra fedeli alla linea del PCC, che si vedono la figlia portare a casa un laowai e parlare di trasferirsi nella capitale a due ore e mezzo di aereo. Il che non è neanche il peggio, se consideriamo che la sera precedente, così a cena, Dandan ha deciso di comunicare ai suoi che non è più vergine, senza però specificare che non lo è più da molti anni prima di conoscermi. Per qualche motivo, io continuo a pensare al fatto che il padre di lei è stato campione del tiro a segno con fucile quand’era giovane e le sue vittorie gli sono valse una buona carica dirigenziale all’Assessorato per le Attività Sportive. Glom.

Capisco che è vero amore quando, invece di scappare all’aeroprto e prendere il primo volo verso casa, mi presento all’appuntamento. Dandan mi accompagna a casa dei suoi tenendomi la mano per tutto il tempo. Io sorrido e cerco di ostentare tranquillità, ma tremo come una foglia. Nell’ascensore siamo soli, vorrei darle un ultimo bacio prima di varcare quella porta, ma la telecamera mi mette a disagio. Le porte dell’ascensore si aprono su un pianerottolo tipico, col pavimento di cemento, vasi di fiori e biciclette ovunque, e una finestra minuscola a illuminare. E’ Dandan che mi bacia. “Andiamo”, e bussa alla porta di casa.


Quel che segue è una rappresentazione teatrale. I genitori mi accolgono vestiti a puntino non fosse per delle ciabatte rosa inguardabili. Tra mille sorrisi, ne danno due paia anche a me e Dandan. Sono gentilissimi. Da parte mia, sono gentilissimo. Non capisco nulla di quel che dicono, perché la madre mescola parole in dialetto ad altre in mandarino, e il padre ha l’accento del Sud, così Dandan traduce, opportunamente filtrando tutto in modo accettabile per entrambe le parti. E’ una commedia, loro si comportano come l’immagine dell’ospitalità, io mi comporto come l’immagine del ragazzo buono, umile e affidabile. Loro mi offrono continue cose da mangiare o da bere, io accetto tutto e faccio apprezzamenti stupiti sul té, sulla cucina della madre, sulla bellezza della loro casa – 好吃!好看!漂亮!真的,真的! E’ come stare a teatro, non mi sono mai trovato in una situazione dove la spontaneità fosse così assolutamente bandita. La tensione mi cala quando mi rendo conto che i genitori sono più tesi di me. Allora grazie al cielo mi riprendo, e mi fanno quasi tenerezza. Niente fucili in casa, niente jiaozi avvelenati, ma piuttosto una grande preoccupazione per il futuro della figlia, su cui comunque non vogliono forzare in alcun modo i loro preconcetti. Per certi versi li ammiro per la loro apertura mentale.

Cerco di intavolare discorsi vari, cui rispondono con gentilissimi monosillabi. Sono troppo emozionati. A cena finita, ci sediamo sul divano a mangiare frutta e bere té. Mi viene in mente che il padre di Dandan ha fatto un viaggio all’estero, in Russia ed Europa Orientale, anni prima, quindi quale migliore occasione di discorrere se non parlando della sua esperienza in un Paese straniero? Detto fatto, il signor Cheng produce un bel libro dalle pagine in bianco su cui, in ogni pagina, ha incollato una foto aggiungendo poi una didascalia scritta a computer, stampata, ritagliata e incollata anch’essa senza la minima sbavatura. Ha poi aggiunto ove occorreva varie linee e sottolineature esplicative o altro materiale come biglietti di musei o volantini sportivi. Un lavoro da certosino o, come direbbero appropriatamente gli spagnoli, un trabajo de chino. Il libro è un resoconto detagliatissimo del suo viaggio di lavoro in Russia, Ungheria e Cecoslovacchia, al seguito di una delegazione sportiva cinese. Praticamente tutte le foto sono identiche, e ritraggono il sig. Cheng in primo piano con un monumento, uno stadio, una casa o un paesaggio alle spalle. Lui spiega e Dandan traduce per quel buon quarto d’ora. Com’è ovvio mi dimostro interessatissimo alle sue storie di incontri di delegazioni e “quanto erano gentili gli ungheresi”. Il sig. Cheng è laureato in Storia, e anche se è stato il cecchino migliore del Sichuan non gli son mai piaciuti i fucili, e anche se ora è vicedirettore dell’Assessorato per le Attività Sportive né il lavoro d’ufficio, né gli incontri ufficiali gli interessano: la sua passione sono i libri, e quelli che non legge li crea. Ha una biblioteca intera di libri rilegati da lui con testo e figure incollate nella miglior tradizione artigianale cinese, su argomenti che per lo più sono storici. Quando lo scopro mi diventa improvvisamente simpatico. Sia lui che sua moglie sono persone modestissime, con una bella casa, un buon lavoro, una splendida figlia che li rispetta ma, al contrario della maggior parte dei cinesi che ho conosciuto finora, non gli interessa lavorare tanto, non gli interessa essere ricchi, non gli interessa essere influenti. Due cose contano, per loro: la famiglia e la dignità. Tanto di cappello, e grazie per aver cresciuto una figlia con questi valori.

Chiedo di vedere delle foto di Dandan da piccola, mossa diplomaticissima e ottima occasione per conoscerli meglio. Il mio amore è carinissima come tutti i bambini cinesi, con la testa tonda, occhi sottili, naso minuscolo e bocca a cui viene delegata tutta l’espressione facciale. Dalla storia dietro ciascuna foto ricostruisco una parte delle vicende della famiglia, che si snodano tra Chengdu, Pechino, lo Yunnan e il Xinjiang. Ci attardiamo ad ascoltare queste storie e finalmente anche i genitori si rilassano, compiaciuti del mio interesse.


Quando ci salutiamo, e consegno le mie ciabatte rosa per rimettermi le scarpe, è ancora una profusione di sorrisi, ringraziamenti e formule di cortesia. Poi la porta di casa si chiude, e sono ancora con Dandan, sul pianerottolo ingombro di vasi di fiori e biciclette, con lei che mi stringe la mano, e mi bacia ancora.

“Sei stato perfetto, bravissimo” mi sussurra.

Tiro un sospiro di sollievo. Esame passato. E ora che ho conosciuto la tua famiglia, mi sa tanto che non si torna più indietro facilmente. Ma in fondo non ho mai avuto il dubbio di doverlo fare.

Torniamo insieme al mio albergo, ancora mano nella mano, le strade alberate di Chengdu che scorrono e dappertutto odore di pepe verde. Sono felice, penso, che la mia ragazza abbia una famiglia così.

2007-05-25

Chaoyang Pop Festival 2006

Pechino è una città rock o meglio, yaogun (摇滚), come dicono qui, intendendo qualunque musica alternativa, che spazia dall’indie al metal al punk al hard rock. Naturalmente si tengono concerti continuamente, anche se la scena locale, pur essendo di gran lunga la migliore della Cina, non offre molto più che una ventina di band locali più qualche gruppo waidi in tour, per lo più dallo Xinjiang e dallo Yunnan, dove le minoranze etniche hanno la musica nel sangue molto più degli han. Per qualche ragione, forse la presenza di un’università per stranieri, o forse il cibo piccante, anche Chengdu roccheggia mica male. Il Sud della Cina lasciatelo perdere. Ma torniamo a Pechino.

A metà settembre si tiene il Chaoyang Pop Festival, il festival musicale ufficiale del governo, ovvero quello meglio organizzato, con gli artisti stranieri più famosi, con la sicurezza migliore, e con la location più comoda. Non tutti i festival sono organizzati dal governo, e vi garantisco che quelli indipendenti sono molto diversi, ma ne parleremo in un post diverso. Non è ben chiaro il perché sia stato chiamato “Pop” Festival, visto che c’è solo yaogun. Ma pazienza, questa è la Cina, e uno impara a non farsi troppe domande.

Decido ovviamente di andare a vedere il concerto, non solo perché sarebbe il mio primo festival in Cina, ma anche il primo in assoluto. Contatto quindi il buon Federico e, a bordo del suo scooter rosso fiammante che di lì a poche settimane tirerà le cuoia, sfrecciamo sulla Gongti Bei Lu in direzione del Parco Chaoyang.

Ora, i festival musicali organizzati dal governo cinese hanno parecchie caratteristiche che li differenziano, nel bene e nel male, dai festival che noi conosciamo nei paesi occidentali. Cominciamo con le caratteristiche buone:

1) Il festival si tiene in un parco esageratamente grande, verde e pulito che non sta mai a più di 20 minuti da casa tua.

2) Anche se arrivi il giorno stesso, a festival iniziato, trovi tranquillamente i biglietti per entrare e li acquisti all’entrata al prezzo originale, senza nemmeno il sovrapprezzo della pre-vendita o la percentuale da usurai dei bagarini. E raramente paghi più di 200 kuai per il multientrata.

3) C’è tanta gente, ma siccome gli spazi sono grandi, non c’è ressa e ci si muove tranquillamente senza dover lottare per dieci centimetri di spazio. Anche a festival iniziato si può trovare spazio per il telo e sedersi tranquillamente in dieci. E soprattutto, non c’è una fila di quaranta minuti per i cessi, che peraltro non sono nemmeno esageratamente zozzi.

4) La sicurezza è efficientissima ed è impossibile che qualcuno si faccia male. Siccome la gente già sa che è controllata, gli è permesso portare al concerto lattine di birra, bocce di vino, e coltelli per la frutta, che tanto non c’è pericolo.

Ci sono però anche lati negativi:

1) Per garantire la sicurezza, il governo ha stanziato poliziotti in un rapporto di venti a uno rispetto ai partecipanti. Il che significa che per diecimila partecipanti ci sono almeno 500 poliziotti. Ciascuno ha una sedia pieghevole e si diede beatamente sul prato, in fila con gli altri a dividere lo spazio in grandi quadrati, di cui metà sono dedicati allo stravacco del pubblico, e metà al passaggio. Per tutto il tempo, i poliziotti stanno seduti serissimi, perché evidentemente gli è stato proibito di divertirsi. Il che è noioso.

2) Davanti al palco non c’è uno spazio libero, ma una platea di sedie per gli ospiti VIP, ovvero media, case discografiche organizzatori, figli di gente importante o loro amici. Cosa che in un concerto di musica alternativa fa abbastanza ridere.

3) Non si fumano canne. Non si poga.


Non si può avere tutto nella vita, evidentemente, ma per ascoltare un po’ di buona musica e rilassarsi sul prato a un prezzo politico non c’è proprio da lamentarsi. Nel parco io e Federico troviamo parecchie facce conosciute, e io abbandono quasi subito il gruppo degli italiani e mi unisco a Jingyi, arrivata lì con un’amica, collega e vicina di casa, Kelly. Le due sono ovviamente combinate da raver e si divertono a giocolare con delle palline da tennis e nasti di seta legati a delle corde, seguendo il ritmo della musica, con aria di sfida alla polizia. Altrove, giovani cinesi e stranieri bivaccano tranquillamente e si scorgono anche parecchie famiglie espatriate con bambini che, ascoltando rock, rincorrono bolle di sapone. Butto la mia borsa verde con l’immagine di Mao sul telone delle due ed estraggo birre e panini. Presto a noi si unisce Simon, un tizio di Manchester che vive qui da una decina d’anni e parla un cinese sorprendente. Ha conosciuto Kelly dieci anni fa a Shenyang, e da allora, tra alti e bassi, sono stati assieme, per quanto lui abbia girato mezza Cina facendo il PR per aziende internazionali. Più tardi arrivano un paio di amici norvegesi di Simon e così, dopo l’ultima performance, che è quella dei Placebo (che per la cronaca dal vivo fanno pietà anche ai cinesi, e ho detto tutto), ci si sposta tutti altrove. Dove? Al Tango.

L’idea era di andare al Tango, una discoteca che sta vicino al Tempio dei Lama. Poi però compaiono una decina di altri norvegesi, amici dei primi, e per qualche motivo si finisce al Mango, che sta sopra al Tango ed è un locale lounge in stile indonesiano. I norvegesi, misti a delle ragazze svedesi, ordinano senza indugi champagne e offrono generosamente. Qualcuno lavora per la Ericsson, quacun’altro per un’altra multinazionale scandinava, e c’è persino un norvegese dai capelli e gli occhi neri che è qui per creare una joint venture per una catena di pizzerie sino-norvegese. Ma dai. Comunque lui è simpatico, si chiacchiera animatamente io, lui e Simon e, com’è come non è, alle due del mattino mi trovo a cantare “House of the Rising Sun” in una sala karaoke del Mango, ubriaco come uno schifo, insieme a Jingyi, Kelly, Simon, otto norvegesi, due svedesi e una coppia di cinquatenni arrivata sul tardi, di cui non ho mai chiesto la nazionalità ma certamente qualche paese dell’America Latina. Si finisce sempre così, badate, se si esce la sera con degli scandinavi.

Il secondo giorno di festival arriviamo tutti tardi. Qualcuno non arriva nemmeno. E’ una giornata più tranquilla della precedente, e all’improvviso, come sempre accade quando li incontro, mi trovo davanti Alberto e Yao, che non vedevo da un sacco di tempo. E c’è anche loro figlio, Giovanni, che sta imparando a parlare ed è alle prese con i conflitti logici tra italiano e cinese, confondendo “” e “dui ()”. In compenso viene coccolato abbondantemente da tutti. Si prende il sole, ci si racconta quello che è successo in tutto questo tempo, si sorseggia birra e si sgranocchiano biscotti al cioccolato.

Cala la sera, Jingyi tira fuori una boccia di vino Greatwall quasi decente, che finisce presto. Comincia l’ultima performance del secondo giorno, quella di chiusura. Un tizio sui quarant’anni, abiti stretti di cuoio nero e lunghi capelli biondi, sale sul palco, urla, si arrampica sulle transenne tra lo schitarrare distorto dei musicisti. Sebastian Bach, ex frontman degli Skid Row, un dinosauro venuto dall’era dell’hard rock anni ’80. Manda il pubblico, cinese e occidentale, in visibilio; mette in piedi uno show memorabile che conquisterà e copertine di tutti i giornali per giovani per il mese seguente; non stecca una volta, anzi stupisce la sua preparazione tecnica. Ma dove lo vedi un concerto di Sebastian Bach, nel 2006, in una situazione così? A un certo punto si presenta sul palco persino con un abito in seta gialla da imperatore Qing.

Yàogùn!!!” urla al pubblico. Silenzio.

Yào... gûn?” Sebastian Bach tenta timidamente un terzo tono. Ancora silenzio. Qualcuno, dalla platea, suggerisce:

Yáogûn!”

Sebastian Bach annuisce, si scosta i lunghi capelli biondi, avvicina il microfono alla bocca:

YAOGUN!!!”

Questa volta lo dice giusto. Pubblico in delirio. Migliaia mani a fare le corna del rock in aria. Ma guarda un po’, anche Sebastian Bach vittima dei toni. Ma che paese.

E’ domenica sera. Giovanni ha fame, e i suoi genitori lo portano a mangiare. Io e le due matte rimaniamo fino alla fine: poi, con calma, si segue la folla verso l’uscita, e si prende un taxi in comune per tornare ciascuno a casa sua. Domani si lavora. Sono stanco, ma felice di questo weekend all’insegna del rock. Davvero non male, questo Chaoyang Pop Festival.