Chi ha letto i post precedenti si ricorderà della disastro accaduto durante il mio viaggio in Cina occidentale, del foglio appeso alla porta dal vicino poliziotto per lamentare le macchie d’acqua sul soffitto, e dell’incontro tra me, lui e Wang Li in cui, siccome il problema non s’era trovato, la conclusione era stata mei wenti, nessun problema, e quindi tutti felici. Maledetti stronzi.
Tutto in effetti sembra funzionare bene fino a quando, un mese dopo, torno a casa un sabato sera e incontro uno dei miei vicini che legge un avviso all’entrata. Con lungimiranza, e anche un po’ preoccupato perché vivo qui da tre mesi e ancora non ho ricevuto la bolletta dell’acqua, chiedo informazioni, e scopro che l’indomani dovrebbe venire qualcuno a un’ora imprecisata a fare qualche cosa che ha a che fare con l’acqua, ma non quella del rubinetto, quella dei caloriferi. Speriamo in bene.
E’ domenica mattina e vengo svegliato dal suono del campanello che trilla con insistenza. Striscio dal letto verso la porta, nel gelo dell’appartamento, e mi trovo davanti un cinese giovane, scarpe di vernice e atteggiamento strafottente. “Ce l’hai l’acqua dei caloriferi?” mi chiede.
“E io che ne so, vai a guardare” rispondo, altrettanto strafottente.
“Ce l’hai o non ce l’hai?”
“Non lo so, perché non controlli tu che ne capisci di più?”
“Non dovresti averla”
Come sempre, mi prendono per sfinimento.
“E allora vuol dire che non ce l’ho”
“Va bene, firma qui”
Appongo la firma su una lista tutta in cinese, dove già altri inquilini hanno firmato, e chiudo la porta. Torno a letto.
Qualcuno sta martellando, qualcun altro sta trapanando, ma c’è un rumore nuovo. Pazienza, dormiamo. Questo rumore potrebbe essere un trapano, ma va avanti da parecchi minuti, che sarà? Sembra acqua… forse uno scarico. Magari stanno facendo lavori nel bagno dell’appartamento di fianco. Dormiamo. No, non ci si riesce, troppo rumore. Acqua, acqua, acqua…
Aspetta, mi sorge un dubbio.
Mi alzo faticosamente e striscio in salotto. Il rumore è più distinto, e viene dalla cucina. Affacciandomi alla porta vedo una macchia d’acqua marrone che si allarga velocemente sul pavimento. Panico misto a sonnolenza, mi getto nella pozzanghera, chiudo il rubinetto dell’acqua che va allo scaldabagno. Niente. Chiudo il rubinetto del gas dello scaldabagno. Niente, non è lo scaldabagno. Chiudo il rubinetto del gas centrale, ma non succede niente, ovvio. Calma, guardati attorno. Cazzo, eccolo lì.
Il calorifero, e che altro poteva essere: stanno dando l’acqua. Solo che quando gli operai hanno montano i caloriferi nel mio appartamento, uno di loro ha dimenticato di mettere un tappo al buco di scarico di quello della cucina, che emette un getto sottile ma fortissimo diretto nell’angolo sotto lo scaldabagno e il lavandino, da cui il rumore che mi aveva disorientato. Provo a tapparlo con un dito: troppo forte. Provo con uno straccio: diventa fradicio in una manciata di secondi. La macchia d’acqua color della bile ormai copre quasi tutta la cucina.
Metto un paio di scarpe e corro fuori, sul pianerottolo chiudo il rubinetto centrale dell’acqua. Torno: no, il sistema dei caloriferi è indipendente, cazzo. E’ ovvio, sveglia! Chi può aiutarmi? Gli operai dell’appartamento di fianco, quelli sono sempre qui alle sei del mattino a martellare e trapanare, sapranno cosa fare, avranno qualche attrezzo. Bum, bum! Busso alla porta, prima piano, poi con violenza. Niente. Campanello: staccato. L’unica volta che sareste utili non ci siete, maledetti stronzi! Va bene, altro vicino, nell’appartamento speculare al mio mi pare abiti una coppia di attempati signori cinesi, molto gentili. Busso, nulla, busso ancora, nulla. Proviamone un altro. E proprio mentre mi giro, la porta a spioncino si apre, e dietro la grata mi trovo la faccia una ragazza occidentale che mi guarda confusa. Sbadiglia. “Yes?”
E’ così che conosco Inna, una ragazza russa della mia età che si vanta di essere stata la prima inquilina del palazzo. Lavora in un ristorante, il Flambé, fa spesso tardi la sera e soffre degli operai più di me, poverina. Appena le spiego il mio problema si allarma, spalanca la porta, esce in pigiama e bussa ai suoi vicini, la famiglia cinese che ricordavo. Quella che dev’essere la figlia, una bella ragazza della nostra età, chiama il padre, il prototipo dell’uomo pechinese. Scuro di pelle, grosso, vestito pesante, bonaccione.
In tre – io, la bella Inna e il forte uomo di Pechino – varchiamo l’antro del drago, attenti a ogni rumore. Sbircio la cucina: l’acqua ora si sta alzando e tra poco arriverà nel salotto dove c’è il parquet. “E’ là” indico. I miei compagni guardano, terrorizzati. E’ peggio di quanto si aspettassero. L’uomo di Pechino si lancia in avanti, prova a combattere col mostro a mani nude, ma il suo dito non ferma l’acqua. E’ una battaglia persa. Ma poi ha un’idea. Corre indietro sul pianerottolo, e da terra raccoglie un pezzo di legno lasciato lì dagli operai, un pezzo d’asse di legno d’abete, polveroso e sbeccato. L’uomo di Pechino brandisce la sua arma, la punta rivolta al mostro, e con la morte nello sguardo lo carica e lo affronta, penetrando il nemico con la sua spada. Il rumore cessa, il guerriero stremato si ritira. Il drago-calorifero, la sua pelle color del metallo sporco, giace immobile, il pezzo di legno infisso nel buco da cui perdeva. Non una goccia d’acqua ne esce più.
“Sarà il caso di chiamare la manutenzione” commenta il vicino.
“E magari anche il padrone di casa” aggiunge Inna.
“E chiamiamoli” dico io.
Il vicino si presta gentilmente e le telefonate in cinese le fa lui. Il numero del padrone di casa glielo do io, ma quello della manutenzione non ce l’ho, volevo appunto chiederlo a lui. Nessun problema – l’uomo di Pechino corre al suo appartamento e dopo un minuto ne ritorna con un numero di telefono scritto a biro sulla mano, e tenendola alzata per leggere, con l’altra schiaccia i tasti del mio telefono. Parla con la manutenzione e la fa venire subito. Poi ci ripensa, chiama ancora il mio padrone di casa e gli dice che non c’è bisogno che venga da lontano, che il guaio è risolto, che se n’è occupato lui.
Lo ringrazio infinitamente, ma quello dice “Per favore, non è nulla” e se ne va. Da questo si vede la stoffa dell’eroe. Inna sta bevendo una bottiglia d’acqua minerale Laoshan, di quelle che si trovano solo nei ristoranti. Sbadiglia ancora, e mi saluta pigramente, con i suoi capelli arruffatissimi, il pigiama e due occhi da russa che, nel buio del pianerottolo, se non sono azzurri sono sicuramente verdi.
“Scusa se ti ho svegliata… ma era un problema abbastanza grosso”
Lei sorride: “Se ti serve altro, non hai che da bussare”.
“Vale lo stesso per te”
E capisco da dove era venuta la macchia sul soffitto del poliziotto sotto di me: test dei caloriferi. Probabilmente non mi ero accorto di nulla perché l’aiyi aveva asciugato ben bene e al mio ritorno mi aveva fatto trovare la casa perfetta. E chiaramente non mi aveva detto nulla. Mei wenti, no? Vado ad asciugare il lago oscuro, e apro la finestra per far uscire l’umidità.
E anche per oggi, il drago è sconfitto e il mondo è salvo. Me ne torno a letto anch’io.
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