2007-06-24

Il signor Chen

I miliardari sono tutti un po’ strani, e quando sono cinesi sono ancora più singolari. Mi capita di conoscerne uno presentandomi a un ristorante italiano per vendere i prodotti della mia azienda. Il signor Chen, titolare una catena di ristorazione italiana, mi risponde al telefono in un misto stentato di inglese e italiano, e mi dà appuntamento in uno dei locali per l’ora di cena.

Rotondo e sorridente, di un’eleganza molto semplice, capello corto, sbarbato e occhialini tondi, Chen siede al tavolo di questo ristorante che vorrebbe essere la trattoria italiana nella mente di una persona che ci è stata forse un paio di volte tanti anni fa. Pavimento e soffitto di legno, tovaglie a quadri bianchi e rossi, curiosi affreschi tipo Trecento sulle pareti, fila di vini con scritto “Chianti” sull’etichetta e, ciliegina sulla torta, una torre di Pisa in plastica posizionata al centro del tavolo da display, alta almento un metro e mezzo.

Chen mi fa accomodare gentilissimo, accetta il mio biglietto da visita e mi offre il suo: una carta bianca con la sua caricatura sorridente, e sotto scritto dal disegnatore “开心的小陈”, “il piccolo Chen felice”. Dopo poche battute è evidente che il mio cinese è meglio del suo italiano: chiacchieriamo amabilmente senza che nessuno accenni agli affari. Mi chiede di me, e poi a turno io gli chiedo di lui. Il signor Chen è il cinese andato all’estero ed arricchitosi, una storia comune, quasi un modello di vita per una generazione di suoi compatrioti, soprattutto nel Sud del Paese dove la tradizione dell’emigrazione e del commercio è antica. Chen è stato in Italia, ma non è di Wenzhou come tutti gli altri, ci tiene a precisarlo: viene da un paese vicino, sempre nel Zhejiang, ma guai a dire che è di Wenzhou. Tra le altre cose, è stato in Italia per poco tempo, un anno solo a Jesolo, prima di andare a lavorare in Germania come lavapiatti. Parla tedesco correntemente, ma questo non aiuta la nostra comunicazione. Come mai non ha aperto un ristorante tedesco, gli chiedo, e la sua risposta è molto diretta: “Perché il cibo tedesco fa schifo”. Si ride.

Nel frattempo Chen fa segno ai camerieri, che mi portano un menù. Uno di loro porta una boccia di vino in tavola. “Ti piace il vino?” chiede Chen, con ostentata premura. Salute, dico io, e tracanno il Chianti da supermercato che mi viene gentilmente offerto. Chen va avanti con la sua storia: l’Italia era bella, sì, ma in Germania c’era da guadagnare di più: è lì che ha fatto i soldi. Poi un giorno è venuto a Pechino, ha visto che non c’erano ristoranti italiani, e ne ha aperto uno, facendo venire uno chef dall’Italia. Tredici anni dopo di ristoranti ne ha cinque. Ordina ai camerieri una bottiglia di Prosecco, e mi chiede che ne penso. “Non male” dico. In Germania Chen viaggia ancora per affari, facendo trading. Oltre ai cinque ristoranti italiani ha anche un piccolo agriturismo finto toscano, un ristorante cinese in campagna e ha appena ottenuto l’appalto per la vendita dei beni sequestrati all’aeroporto di Pechino. Tutto quello che le guardie tolgono ai passeggeri in transito – bottiglie di vino, birra, superalcolici, accendini, coltellini, ricariche dello Zippo, forbici – lui compra a un prezzo fisso settimanale, e le rivende in un suo supermercato che sta lì nei pressi. Ordina un’altra bottiglia e me la mostra orgoglioso: un liquore con un nome tedesco scritto in caratteri gotici, di colore ambrato e con della foglia d’oro che galleggia dentro. E’ foglia d’oro vera, ci tiene a specificare Chen. Gli credo. Il liquore ha uno strano sapore dolciastro, un misto di pesca e mela, con questa foglia d’oro che galleggia dentro ma non si sente. Il cameriere mesce. Oltre ai ristoranti, al commercio all’ingrosso, al trading con la Germania, Chen ha senza dubbio un sacco di altre attività. Me le elencherebbe tutte se potesse, probabilmente. Mi chiede di dove sono, e scoprendolo dice con gioia che anche lui è stato a Milano, una volta, all’hotel Principe di Savoia, che è un buon hotel sottolinea, come se uno di Milano non lo conoscesse. Ma, mi dice, in quel posto non ci torna più: servizio splendido, sì, ma pieno zeppo di fantasmi. Fantasmi?, chiedo. Sì, dappertutto, la notte non c’era verso di dormire, continuavano a tormentarlo. Gli chiedo se li ha visti e che aspetto avevano. Chen si fa serio: “Non li ho visti... ma so che c’erano”. Mi chiede se voglio altro da bere, magari un amaro. Averna? Ramazzotti? No, perché lui li ha tutti, anche quelli che non si trovano normalmente in Cina, lui comunque riesce ad averli.

La conversazione finisce ad ora tarda. Si parla d’affari distrattamente, presento la lista dei miei prodotti, li commenta entusiasta atteggiandosi a profondo conoscitore della cucina italiana. Io chiedo il conto. Per carità, per carità, dice, sei mio ospite. Torna quando vuoi. Ma guarda un po’, che gentile il signor Chen, certamente con le persone ci sa fare. D’altra parte, se non fosse così non sarebbe quello che è ora.

Andandomene e salutandolo, mi viene una domanda: se lui è stato a Jesolo, perché il suo ristorante l’ha chiamato con il nome di un’altra città più piccola, non molto lontana, che comincia per “A”? La risposta è tanto semplice quanto spiazzante: “Ho pensato che così il nome del ristorante sarebbe venuto primo in tutti gli elenchi”. Sempre pragmatico, il signor Chen. Lo ringrazio a profusione prima di andarmene e cercare un taxi. Sarà quel che sarà, ma devo dire che mi sta davvero simpatico, ed è questo, saper essere simpatico a tante persone, quello che fatto la sua fortuna. Sono contento di scoprire che si può essere arricchiti e pieni di sé senza essere antipatici e arroganti. Pechino riserva sempre un sacco di sorprese.

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