Un giovedì sera di inizio settembre visito lo Yoga Yard, una centro Yoga co-fondato da una cinese e un’americana. Ho cercato un luogo così per non so quanto tempo, e finalmente ho trovato yogi professionisti che mi possano insegnare. Alla fine della mia prima lezione Jessica, una ragazza californiana che ricalca abbastanza fedelmente lo stereotipo della hippy americana peace and love, invita tutti alla festa del giorno dopo per inaugurare la nuova sede. Lo Yoga Yard, originariamente aperto in un siheyuan, si è ora trasferito al sesto piano in un palazzo sulla Gongti Beilu.
Arrivo alla festa solo, e mi trovo davanti un nugolo di persone, di cui gran parte bellissime ragazze. Per un momento mi pento di non essere single ma, cosa vuoi, è il destino. Jessica aveva promesso cibo e alcol: sull’alcol ci siamo, vino e sangria sono più che decenti; sul cibo ci siamo meno, perché si tratta di tipi diversi di pane e cracker da intingere in varie salsine vegetariane. E con il Red Rose restaurant dall’altra parte del muro, con i suoi odori di yangrouchuan’r e verdure saltate, si sente la mancanza di una cena degna di tale nome.
In cerca di persone da conoscere, incrocio la receptionist che mi appiccica tre sue amiche, tutte cinesi cesse in cerca di marito. Rispondo alle loro domande in cinglese in modo gentile, ma con un certo sforzo di comprensione. Il vento soffia forte e lascia il cielo blu e pieno di stelle, ma ruba anche le parole. Vengo salvato dal discorso inaugurale delle due proprietarie, Robyn e Mimi, che lasciano poi il posto a Jessica, con in mano una chitarra acustica, e un’altra insegnante americana, con un tamburo tra le gambe. Le due attaccano con una musica hippissima, ma in fondo perfetta per l’occasione. Per un attimo tutta la folla eterogenea di praticanti di yoga di ogni età e i loro amici rimangono ad ascoltare in silenzio la musica, poi piano piano ciascuno ritorna alla sua conversazione, ma con rispetto.
Avvicinandomi alle musiciste conosco Nicole, una ragazza di Hongkong interessata a tutto ciò che è danza ed espressione artistica fisica, e Valeria, una sinologa trentina in cerca di lavoro. Nicole è il mio genere di ragazza: bella, distaccata e con una grande passione artistica; ha vissuto per molto tempo negli States per studiare e ora si è trasferita da un po’ di tempo a Pechino per lavoro. Valeria è vegetariana, ed ha visitato il Sud dell’India seguendo più o meno il mio percorso, e condividendo le mie impressioni sulle differenze tra Tamil e Malayalam. Finalmente un po’ di gente simpatica da conoscere, penso. Come al solito, bisogna andarla a cercare nei posti più impensati e nascosti. E’ questa una delle costanti di Pechino.
L’ultima conoscenza della serata viene fatta al banco dei drink. Alto, faccia di cuoio, capello biondo sabbia con basettoni e cappellino da yankee, giubbotto di jeans e numerosi bicchieri di vino vuoti davanti a sé. Dom. Australiano, una sagoma di uomo con un inglese di cui si riesce a capire ogni singola parola, cosa non comune tra i madrelingua. Dom attacca bottone chiedendoci informazioni sulla festa e sullo yoga. Lui non sa nulla perché si è imbucato: passava per la strada, ha visto gente, e si è infilato. Fa morir dal ridere e offre una conversazione interessante. Io, lui e Valeria ci spostiamo al Red Rose per una cena a lungo agognata, poi Valeria scappa per incontrare la sua coinquilina che non vede da tempo. Io e Dom ci guardiamo. Lui sta a Wudaokou e il vero motivo per cui è venuto in Sanlitun era per comprare dagli spacciatori neri. Poi per caso ha trovato la festa dello Yoga Yard.
Un quarto d’ora dopo siamo nella piazza delle Torri della Campana e del Tamburo, un luogo nuovo e magico di Pechino. Dom è come me, lui si butta negli angoli più impensati e trova i luoghi più interessanti. E’ questo il modo di vivere l’anima di Pechino, beninteso. L’australiano mi conduce ad un piccolo bar e su per le scale ripide del terrazzo che guarda sugli hutong e sulla torre campanaria. Mentre prepara lo svuotino, e poi mentre ci godiamo gli effetti dell’erba, Dom mi racconta la storia della sua vita. Nato e cresciuto nel quartiere italiano di Melbourne, lascia l’Australia per studiare a Jakarta, dove rimane cinque anni. Quando torna si porta dietro la sua fidanzata indonesiana, che sposa e con cui fa due figlie. Ma le ragazze indonesiane, per quando belle, dolci, generose e creative, mancano della scintilla intellettuale che cerca lui. Non riesce a parlarci, a discuterci, a condividere pensieri, solo emozioni. Sicché dopo otto anni di matrimonio Dom divorzia e viene in Cina, libero ancora una volta. Con alle spalle una laurea in legge e una conoscenza quasi perfetta dell’indonesiano, si mette a studiare cinese in una scuola coreana sgarrupata di Wudaokou, condividendo un appartamento con una coppia, lui africano, lei cinese di Singapore. Non rimpiange il suo passato, Dom, anzi ci si trova molto bene nella sua libertà ritrovata nel culo del mondo. Ma, mi confessa, “I wouldn’t mind being married again, once or twice”. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, e secondo lui cinesi e coreane sono intellettualmente più interessanti delle indonesiane.
Si parla di tutto e di niente con Dom, si fanno quei discorsi che partono bene, ispirati dalla coscienza alterata, ma che nessuno riesce mai a finire per mancanza di concentrazione. Si parla di donne asiatiche, di monumenti storici, della pericolosità di donne e alcol, dell’immigrazione italiana in Australia, e di altri mille argomenti. Un sacco di “food for thought”, comunque. Le conclusioni, poi, le trarrà ciascuno da sé nella settimana seguente. Ci si saluta scambiandosi il numero di telefono. Può darsi che ci si vedrà ancora.
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