2007-05-31

Disastro

Ritorno dal mio viaggio in Cina Occidentale, durato una decina abbondante di giorni, con uno strano presentimento di sciagura. Per qualche motivo, ancora mi frullano per la testa le bollette non arrivate e mai pagate. Speriamo che, in mia assenza, nulla di spiacevole sia accaduto in casa.

Ed eccomi davanti alla porta di casa, con il suo odore familiare, a tarda sera, con al seguito una valigia enorme e pesantissima di indumenti sporchi, uno strato di sudore innominabile che mi ricopre tutto il corpo, e una gran fame. Sulla porta c’è un foglio attaccato con lo scotch, scritto fitto in caratteri cinesi, con un numero di cellulare. L’ultima frase, abbondantemente rafforzata da numerosi punti esclamativi, è scritta in rosso, il colore del sangue e della mala sorte qui in Cina. Ancora il cattivo presentimento. Respiro ed apro la porta.

Vengo investito da un odore di marcio impossibile. Accendo la luce. O meglio, premo più volte l’interruttore, ma la luce non si accende. Buio completo, non brillano nemmeno le luci familiari della macchina dell’acqua e del frigorifero. Nel cassetto, cerco la torcia elettrica e l’accendo: sembra tutto in ordine. Accendo una candela ed ecco la casa illuminata in una luce fioca e sinistra. Lo sento, in questo posto così intimo c’è qualcosa che non va, e non capisco cosa sia. Coraggio.

Apro il frigo, e capisco da dove viene l’odore di marcio. E’ saltata la corrente, chissà quanti giorni fa, e tutto il suo contenuto, al bel caldo di settembre, ha cominciato ad andare a male. Il mio stomaco affamato brontola di frustrazione, mentre passo in rassegna gli alimenti perduti: latte, che significa niente colazione domani mattina; salame, pane, burro, succo di frutta, frutta, verdura, tutto da buttare, e dimentichiamoci anche la cena stasera; e soprattutto formaggio, due pezzi da un chilo di Grana Padano di quello buono, portati dall’Italia un paio di settimane prima, coperti da una spessa muffa blu che, una volta rimossa, lascia un bel pezzo di marmo buono appena per la grattugia! Noooo!

E’ tardi ormai per andare in qualsiasi ristorante o supermercato. Mi dovrò arrangiare a mangiare biscotti, per stasera. Amen, la prendo con fiosofia e vado in bagno, per darmi una lavata. Giro il rubinetto, non succede nulla. Tiro lo sciaquone: vuoto. Cazzo, questo è veramente grave. Le bollette non pagate mi tornano in mente e mi assale il dubbio che, in mia assenza, i pubblici servizi mi siano stati staccati... e quindi mi aspettano trafile impossibili e giorni di attesa prima di ottenerli.

Mi sento infinitamente triste e solo. Estraggo il cellulare: è finita la batteria, e senza corrente non posso nemmeno ricaricarla. Estraggo l’altro cellulare, mi rimangono solo pochi yuan di credito, buoni forse per un paio di telefonate. Ed ora è troppo tardi per comprare ricariche. Chiamo Irene, che abita vicino a me, per cercare aiuto, o almeno conforto, forse qualcosa da mangiare, magari l’utilizzo del bagno per darmi una lavata sommaria perché l’idea di andare a letto così mi uccide. Irene, come suo solito penso, non risponde. E’ in quel momento che mi chiama Dandan, per sincerarsi che sia arrivato sano e salvo a casa. Le racconto quel che è successo e lei va in panico, suggerendomi mille modi assolutamente impossibili di risolvere la situazione. Le dico che ho poca carica e che devo chiamare Irene quantomeno per capire cosa dice quel foglio con la formula di chiusura in rosso, che ancora mi inquieta, e che magari è la chiave di tutto il casino. Ecco, lo sapevo: scenata di gelosia di Dandan sul fatto che a tarda sera non le va che io veda un’altra ragazza. Intanto il cellulare, che riceve una telefonata da Chengdu, lentamente esaurisce il suo credito.

“Senti, Amore” le dico “scusa, ma questo non è proprio il momento!!!”

Anche questa ci voleva! E senza tanti preamboli chiudo la discussione e metto giù. Cerco le sigarette perché ho decisamente bisogno di calmarmi. Apro il pacchetto. E’ vuoto. Cazzo. Cazzo. Cazzo.

Scendo in strada e vado al 7 Eleven, benedizione per chi come me vive ad orari sbagliati. Guarda un po’, oggi hanno finito sia le sigarette che le ricariche del cellulare. Io non so se qualcuno mi abbia fatto una fattura o che, ma faccio fatica ad immaginare una situazione più sfigata di questa, in piena notte, stravolto, sporco, senza celluare, senza sigarette, senza elettricità né acqua in casa e senza una persona che sia in grado di dare una mano.

Poi Irene mi richiama. Per fortuna lei è comprensiva, e riesce a farmi ridere della mia situazione. Mi calma, mi fa ragionare un po’. Rimaniamo d’accordo che faccio un paio di tentativi ancora, poi le faccio sapere. Ritorno in casa. Con la torcia che sta morendo tra le mani, cerco il quadro elettrico e, con un po’ di smanettamenti, riattivo la corrente. Luce in casa, grazie al cielo: ora è il turno dell’acqua. So che c’è un rubinetto dell’acqua sul pianerottolo, vuoi vedere che quelli della società dell’acqua sono venuti e mi hanno chiuso quello? Controllo, è propro così. Giro la manopola, ed ecco l’acqua!

Sono al settimo cielo. Ricarico il cellulare di lavoro, che ha ancora credito, chiamo Irene e la ringrazio, dandole appuntamento al giorno successivo per la traduzione del foglio che, a questo punto sono quasi sicuro, contiene una maledizione di qualche mago taoista nero. Chiamo Dandan, le dico che non vedrò Irene stasera, lei si scusa per lo scarso supporto che mi ha offerto, facciamo pace e ci si dà la buonanotte.

Rovescio la valigia nel cestone della biancheria sporca, mi infilo in doccia, mi cambio, sgranocchio un po’ di merendine recuperate al 7 Eleven, e me ne vado a letto.

Il giorno dopo ricostruirò una parte degli eventi: Irene spiega che il foglio sulla mia porta è stato scritto dall’inquilino sotto di me, che lamenta macchie d’umidità enormi sul soffitto della cucina. Il tizio è salito, mi ha cercato per giorni non sapendo che ero fuori città, e quindi ha chiuso il mio rubinetto dell’acqua, e da allora le perdite si sono fermate. Faccio chiamare Wang Li da Dandan e ci diamo appuntamento a casa mia con il vicino. Il vicino, scopro, è un poliziotto, ma molto gentile: la sua richiesta semplice, non riattivare l’acqua finché non si scopre la perdita. Gli rispondo che gentilmente che la cosa non esiste, e comunque l'acqua l’ho riattivata il giorno prima e non mi risutano perdite. Wang Li si fa paciere: fa fare al poliziotto il giro dell’appartamento e gli indica con precisione tutte le tubature dell’acqua:

“Qui, come vede, niente perdite. Qui, nemmeno. Qui, neanche. Qui, vede perdite? No, perché non ce ne sono. Come facciamo a fermare delle perdite che non esistono?”. Lineare, e poi dicono che i cinesi non parlano mai chiaro. Wang Li, come sua abitudine, chiude il discorso con un bel "mei wenti!". Tutti amici come prima, il poliziotto si scusa e se ne va. Wang Li saluta e dice che se ho qualche altro problema ci parla lui con la polizia o con chicchessia. Rimango solo in casa, ma non sono tranquillo.

Sarà che anche se vivo in Cina da tanto, rimango comunque italiano, e nella logica della mia cultura tutti gli effetti hanno una causa. Da dove veniva la macchia d’umidità sul soffitto della cucina del vicino? E perché la corrente è saltata? E perché il parquet del salotto, nei pressi della cucina, è tutto deformato? Mei wenti il cazzo, vorrei dire, qua di wenti ne abbiamo uno bello grosso! Ma siccome nessuno sembra preoccuparsene, la psicologia di gruppo ancora una volta ha la meglo su di me e, per qualche settimana mi dimenticherò del problema. Poi finalmente scoprirò di cosa si trattava, con conseguenze a dir poco drammatiche.

2007-05-28

Presentazione in Famiglia

Ad agosto uno dei miei colleghi cinesi aveva buttato lì l’idea di fare un viaggio in Xinjiang. Ovviamente mi ero segnato la cosa e, a settembre, gliela ricordo. Da un paio di discorsi capisco che il collega ha cambiato idea, che secondo lui questo viaggio è veramente inutile. Invece, guarda un po’, secondo me il potenziale del salame nella regione musulmana della Cina è enorme, e con varie proposte, promesse e velate minacce riesco ad ottenere la partenza anche con la benedizione dei capi italiani, che una serie di report contenenti esclusivamente informazioni filtrate hanno convinto che solo invadendo i mercati inesplorati e controllandoli completamente potremo competere nel futuro della Cina.

E allora, una volta ottenuto il dito, mi prendo la mano. Il viaggio da Pechino al Xinjiang dura circa 4 ore di aereo. Il viaggio è costoso e, finché siam lì, sfruttiamo l’occasione e facciamo una tappa a Xi’an, che è di strada. Sì, Xi’an non è proprio di strada, mi fa notare il buon collega cinese che la geografia la conosce. Che vuoi che sia, mi inalbero, una deviazione di un po' più di mille chilometri, su un viaggio così? Approvato anche il detour, bene. Ora è il momento di prendersi il braccio: già che siamo a Xi’an, che ci vuole a fare un salto a Chengdu? E’ un’altra deviazione di un altro migliaio di chilometri, peraltro nella direzione opposta. Quisquilie, quisquilie, noi italiani non ci facciamo spaventare dalle distanze, dico ai cinesi, noi ci si da’ da fare. D’altra parte i cinesi stragiurano che ci sono opportunità di business grandiose, spiego agli italiani, quindi sarebbe una mancanza di fiducia rifiutarsi di andare.


E così, a fine settembre, mi ritrovo per qualche giorno, casualmente con weekend annesso, a Chengdu tra le braccia della mia bella Dandan. Oramai sono quattro mesi che ci frequentiamo: questa è la mia terza volta a Chengdu, e lei mi ha visitato sia a Shanghai che a Pechino. Il nostro rapporto matura, e quindi lei ha deciso che, se veramente ci tengo a farla venire un giorno a vivere a Pechino, sarebbe il caso quanto meno di far vedere ai suoi che faccia ho. E ha già fissato una cena in famiglia.

Sì, esattamente come state pensando. Una cena di presentazione ufficiale in famiglia è sempre una situazione stressante, specie se la famiglia non parla la tua stessa lingua, né una che mastichi con facilità. Mi preparo cercando di prevedere ogni situazione e minimizzare lo shock culturale reciproco. Me li immagino, i genitori di Dandan, classici genitori cinesi post-politica del figlio unico ovvero iperprotettivi, impiegati dell’amministrazione pubblica, di sinistra fedeli alla linea del PCC, che si vedono la figlia portare a casa un laowai e parlare di trasferirsi nella capitale a due ore e mezzo di aereo. Il che non è neanche il peggio, se consideriamo che la sera precedente, così a cena, Dandan ha deciso di comunicare ai suoi che non è più vergine, senza però specificare che non lo è più da molti anni prima di conoscermi. Per qualche motivo, io continuo a pensare al fatto che il padre di lei è stato campione del tiro a segno con fucile quand’era giovane e le sue vittorie gli sono valse una buona carica dirigenziale all’Assessorato per le Attività Sportive. Glom.

Capisco che è vero amore quando, invece di scappare all’aeroprto e prendere il primo volo verso casa, mi presento all’appuntamento. Dandan mi accompagna a casa dei suoi tenendomi la mano per tutto il tempo. Io sorrido e cerco di ostentare tranquillità, ma tremo come una foglia. Nell’ascensore siamo soli, vorrei darle un ultimo bacio prima di varcare quella porta, ma la telecamera mi mette a disagio. Le porte dell’ascensore si aprono su un pianerottolo tipico, col pavimento di cemento, vasi di fiori e biciclette ovunque, e una finestra minuscola a illuminare. E’ Dandan che mi bacia. “Andiamo”, e bussa alla porta di casa.


Quel che segue è una rappresentazione teatrale. I genitori mi accolgono vestiti a puntino non fosse per delle ciabatte rosa inguardabili. Tra mille sorrisi, ne danno due paia anche a me e Dandan. Sono gentilissimi. Da parte mia, sono gentilissimo. Non capisco nulla di quel che dicono, perché la madre mescola parole in dialetto ad altre in mandarino, e il padre ha l’accento del Sud, così Dandan traduce, opportunamente filtrando tutto in modo accettabile per entrambe le parti. E’ una commedia, loro si comportano come l’immagine dell’ospitalità, io mi comporto come l’immagine del ragazzo buono, umile e affidabile. Loro mi offrono continue cose da mangiare o da bere, io accetto tutto e faccio apprezzamenti stupiti sul té, sulla cucina della madre, sulla bellezza della loro casa – 好吃!好看!漂亮!真的,真的! E’ come stare a teatro, non mi sono mai trovato in una situazione dove la spontaneità fosse così assolutamente bandita. La tensione mi cala quando mi rendo conto che i genitori sono più tesi di me. Allora grazie al cielo mi riprendo, e mi fanno quasi tenerezza. Niente fucili in casa, niente jiaozi avvelenati, ma piuttosto una grande preoccupazione per il futuro della figlia, su cui comunque non vogliono forzare in alcun modo i loro preconcetti. Per certi versi li ammiro per la loro apertura mentale.

Cerco di intavolare discorsi vari, cui rispondono con gentilissimi monosillabi. Sono troppo emozionati. A cena finita, ci sediamo sul divano a mangiare frutta e bere té. Mi viene in mente che il padre di Dandan ha fatto un viaggio all’estero, in Russia ed Europa Orientale, anni prima, quindi quale migliore occasione di discorrere se non parlando della sua esperienza in un Paese straniero? Detto fatto, il signor Cheng produce un bel libro dalle pagine in bianco su cui, in ogni pagina, ha incollato una foto aggiungendo poi una didascalia scritta a computer, stampata, ritagliata e incollata anch’essa senza la minima sbavatura. Ha poi aggiunto ove occorreva varie linee e sottolineature esplicative o altro materiale come biglietti di musei o volantini sportivi. Un lavoro da certosino o, come direbbero appropriatamente gli spagnoli, un trabajo de chino. Il libro è un resoconto detagliatissimo del suo viaggio di lavoro in Russia, Ungheria e Cecoslovacchia, al seguito di una delegazione sportiva cinese. Praticamente tutte le foto sono identiche, e ritraggono il sig. Cheng in primo piano con un monumento, uno stadio, una casa o un paesaggio alle spalle. Lui spiega e Dandan traduce per quel buon quarto d’ora. Com’è ovvio mi dimostro interessatissimo alle sue storie di incontri di delegazioni e “quanto erano gentili gli ungheresi”. Il sig. Cheng è laureato in Storia, e anche se è stato il cecchino migliore del Sichuan non gli son mai piaciuti i fucili, e anche se ora è vicedirettore dell’Assessorato per le Attività Sportive né il lavoro d’ufficio, né gli incontri ufficiali gli interessano: la sua passione sono i libri, e quelli che non legge li crea. Ha una biblioteca intera di libri rilegati da lui con testo e figure incollate nella miglior tradizione artigianale cinese, su argomenti che per lo più sono storici. Quando lo scopro mi diventa improvvisamente simpatico. Sia lui che sua moglie sono persone modestissime, con una bella casa, un buon lavoro, una splendida figlia che li rispetta ma, al contrario della maggior parte dei cinesi che ho conosciuto finora, non gli interessa lavorare tanto, non gli interessa essere ricchi, non gli interessa essere influenti. Due cose contano, per loro: la famiglia e la dignità. Tanto di cappello, e grazie per aver cresciuto una figlia con questi valori.

Chiedo di vedere delle foto di Dandan da piccola, mossa diplomaticissima e ottima occasione per conoscerli meglio. Il mio amore è carinissima come tutti i bambini cinesi, con la testa tonda, occhi sottili, naso minuscolo e bocca a cui viene delegata tutta l’espressione facciale. Dalla storia dietro ciascuna foto ricostruisco una parte delle vicende della famiglia, che si snodano tra Chengdu, Pechino, lo Yunnan e il Xinjiang. Ci attardiamo ad ascoltare queste storie e finalmente anche i genitori si rilassano, compiaciuti del mio interesse.


Quando ci salutiamo, e consegno le mie ciabatte rosa per rimettermi le scarpe, è ancora una profusione di sorrisi, ringraziamenti e formule di cortesia. Poi la porta di casa si chiude, e sono ancora con Dandan, sul pianerottolo ingombro di vasi di fiori e biciclette, con lei che mi stringe la mano, e mi bacia ancora.

“Sei stato perfetto, bravissimo” mi sussurra.

Tiro un sospiro di sollievo. Esame passato. E ora che ho conosciuto la tua famiglia, mi sa tanto che non si torna più indietro facilmente. Ma in fondo non ho mai avuto il dubbio di doverlo fare.

Torniamo insieme al mio albergo, ancora mano nella mano, le strade alberate di Chengdu che scorrono e dappertutto odore di pepe verde. Sono felice, penso, che la mia ragazza abbia una famiglia così.

2007-05-25

Chaoyang Pop Festival 2006

Pechino è una città rock o meglio, yaogun (摇滚), come dicono qui, intendendo qualunque musica alternativa, che spazia dall’indie al metal al punk al hard rock. Naturalmente si tengono concerti continuamente, anche se la scena locale, pur essendo di gran lunga la migliore della Cina, non offre molto più che una ventina di band locali più qualche gruppo waidi in tour, per lo più dallo Xinjiang e dallo Yunnan, dove le minoranze etniche hanno la musica nel sangue molto più degli han. Per qualche ragione, forse la presenza di un’università per stranieri, o forse il cibo piccante, anche Chengdu roccheggia mica male. Il Sud della Cina lasciatelo perdere. Ma torniamo a Pechino.

A metà settembre si tiene il Chaoyang Pop Festival, il festival musicale ufficiale del governo, ovvero quello meglio organizzato, con gli artisti stranieri più famosi, con la sicurezza migliore, e con la location più comoda. Non tutti i festival sono organizzati dal governo, e vi garantisco che quelli indipendenti sono molto diversi, ma ne parleremo in un post diverso. Non è ben chiaro il perché sia stato chiamato “Pop” Festival, visto che c’è solo yaogun. Ma pazienza, questa è la Cina, e uno impara a non farsi troppe domande.

Decido ovviamente di andare a vedere il concerto, non solo perché sarebbe il mio primo festival in Cina, ma anche il primo in assoluto. Contatto quindi il buon Federico e, a bordo del suo scooter rosso fiammante che di lì a poche settimane tirerà le cuoia, sfrecciamo sulla Gongti Bei Lu in direzione del Parco Chaoyang.

Ora, i festival musicali organizzati dal governo cinese hanno parecchie caratteristiche che li differenziano, nel bene e nel male, dai festival che noi conosciamo nei paesi occidentali. Cominciamo con le caratteristiche buone:

1) Il festival si tiene in un parco esageratamente grande, verde e pulito che non sta mai a più di 20 minuti da casa tua.

2) Anche se arrivi il giorno stesso, a festival iniziato, trovi tranquillamente i biglietti per entrare e li acquisti all’entrata al prezzo originale, senza nemmeno il sovrapprezzo della pre-vendita o la percentuale da usurai dei bagarini. E raramente paghi più di 200 kuai per il multientrata.

3) C’è tanta gente, ma siccome gli spazi sono grandi, non c’è ressa e ci si muove tranquillamente senza dover lottare per dieci centimetri di spazio. Anche a festival iniziato si può trovare spazio per il telo e sedersi tranquillamente in dieci. E soprattutto, non c’è una fila di quaranta minuti per i cessi, che peraltro non sono nemmeno esageratamente zozzi.

4) La sicurezza è efficientissima ed è impossibile che qualcuno si faccia male. Siccome la gente già sa che è controllata, gli è permesso portare al concerto lattine di birra, bocce di vino, e coltelli per la frutta, che tanto non c’è pericolo.

Ci sono però anche lati negativi:

1) Per garantire la sicurezza, il governo ha stanziato poliziotti in un rapporto di venti a uno rispetto ai partecipanti. Il che significa che per diecimila partecipanti ci sono almeno 500 poliziotti. Ciascuno ha una sedia pieghevole e si diede beatamente sul prato, in fila con gli altri a dividere lo spazio in grandi quadrati, di cui metà sono dedicati allo stravacco del pubblico, e metà al passaggio. Per tutto il tempo, i poliziotti stanno seduti serissimi, perché evidentemente gli è stato proibito di divertirsi. Il che è noioso.

2) Davanti al palco non c’è uno spazio libero, ma una platea di sedie per gli ospiti VIP, ovvero media, case discografiche organizzatori, figli di gente importante o loro amici. Cosa che in un concerto di musica alternativa fa abbastanza ridere.

3) Non si fumano canne. Non si poga.


Non si può avere tutto nella vita, evidentemente, ma per ascoltare un po’ di buona musica e rilassarsi sul prato a un prezzo politico non c’è proprio da lamentarsi. Nel parco io e Federico troviamo parecchie facce conosciute, e io abbandono quasi subito il gruppo degli italiani e mi unisco a Jingyi, arrivata lì con un’amica, collega e vicina di casa, Kelly. Le due sono ovviamente combinate da raver e si divertono a giocolare con delle palline da tennis e nasti di seta legati a delle corde, seguendo il ritmo della musica, con aria di sfida alla polizia. Altrove, giovani cinesi e stranieri bivaccano tranquillamente e si scorgono anche parecchie famiglie espatriate con bambini che, ascoltando rock, rincorrono bolle di sapone. Butto la mia borsa verde con l’immagine di Mao sul telone delle due ed estraggo birre e panini. Presto a noi si unisce Simon, un tizio di Manchester che vive qui da una decina d’anni e parla un cinese sorprendente. Ha conosciuto Kelly dieci anni fa a Shenyang, e da allora, tra alti e bassi, sono stati assieme, per quanto lui abbia girato mezza Cina facendo il PR per aziende internazionali. Più tardi arrivano un paio di amici norvegesi di Simon e così, dopo l’ultima performance, che è quella dei Placebo (che per la cronaca dal vivo fanno pietà anche ai cinesi, e ho detto tutto), ci si sposta tutti altrove. Dove? Al Tango.

L’idea era di andare al Tango, una discoteca che sta vicino al Tempio dei Lama. Poi però compaiono una decina di altri norvegesi, amici dei primi, e per qualche motivo si finisce al Mango, che sta sopra al Tango ed è un locale lounge in stile indonesiano. I norvegesi, misti a delle ragazze svedesi, ordinano senza indugi champagne e offrono generosamente. Qualcuno lavora per la Ericsson, quacun’altro per un’altra multinazionale scandinava, e c’è persino un norvegese dai capelli e gli occhi neri che è qui per creare una joint venture per una catena di pizzerie sino-norvegese. Ma dai. Comunque lui è simpatico, si chiacchiera animatamente io, lui e Simon e, com’è come non è, alle due del mattino mi trovo a cantare “House of the Rising Sun” in una sala karaoke del Mango, ubriaco come uno schifo, insieme a Jingyi, Kelly, Simon, otto norvegesi, due svedesi e una coppia di cinquatenni arrivata sul tardi, di cui non ho mai chiesto la nazionalità ma certamente qualche paese dell’America Latina. Si finisce sempre così, badate, se si esce la sera con degli scandinavi.

Il secondo giorno di festival arriviamo tutti tardi. Qualcuno non arriva nemmeno. E’ una giornata più tranquilla della precedente, e all’improvviso, come sempre accade quando li incontro, mi trovo davanti Alberto e Yao, che non vedevo da un sacco di tempo. E c’è anche loro figlio, Giovanni, che sta imparando a parlare ed è alle prese con i conflitti logici tra italiano e cinese, confondendo “” e “dui ()”. In compenso viene coccolato abbondantemente da tutti. Si prende il sole, ci si racconta quello che è successo in tutto questo tempo, si sorseggia birra e si sgranocchiano biscotti al cioccolato.

Cala la sera, Jingyi tira fuori una boccia di vino Greatwall quasi decente, che finisce presto. Comincia l’ultima performance del secondo giorno, quella di chiusura. Un tizio sui quarant’anni, abiti stretti di cuoio nero e lunghi capelli biondi, sale sul palco, urla, si arrampica sulle transenne tra lo schitarrare distorto dei musicisti. Sebastian Bach, ex frontman degli Skid Row, un dinosauro venuto dall’era dell’hard rock anni ’80. Manda il pubblico, cinese e occidentale, in visibilio; mette in piedi uno show memorabile che conquisterà e copertine di tutti i giornali per giovani per il mese seguente; non stecca una volta, anzi stupisce la sua preparazione tecnica. Ma dove lo vedi un concerto di Sebastian Bach, nel 2006, in una situazione così? A un certo punto si presenta sul palco persino con un abito in seta gialla da imperatore Qing.

Yàogùn!!!” urla al pubblico. Silenzio.

Yào... gûn?” Sebastian Bach tenta timidamente un terzo tono. Ancora silenzio. Qualcuno, dalla platea, suggerisce:

Yáogûn!”

Sebastian Bach annuisce, si scosta i lunghi capelli biondi, avvicina il microfono alla bocca:

YAOGUN!!!”

Questa volta lo dice giusto. Pubblico in delirio. Migliaia mani a fare le corna del rock in aria. Ma guarda un po’, anche Sebastian Bach vittima dei toni. Ma che paese.

E’ domenica sera. Giovanni ha fame, e i suoi genitori lo portano a mangiare. Io e le due matte rimaniamo fino alla fine: poi, con calma, si segue la folla verso l’uscita, e si prende un taxi in comune per tornare ciascuno a casa sua. Domani si lavora. Sono stanco, ma felice di questo weekend all’insegna del rock. Davvero non male, questo Chaoyang Pop Festival.

2007-05-24

Yoga Party

Un giovedì sera di inizio settembre visito lo Yoga Yard, una centro Yoga co-fondato da una cinese e un’americana. Ho cercato un luogo così per non so quanto tempo, e finalmente ho trovato yogi professionisti che mi possano insegnare. Alla fine della mia prima lezione Jessica, una ragazza californiana che ricalca abbastanza fedelmente lo stereotipo della hippy americana peace and love, invita tutti alla festa del giorno dopo per inaugurare la nuova sede. Lo Yoga Yard, originariamente aperto in un siheyuan, si è ora trasferito al sesto piano in un palazzo sulla Gongti Beilu.

Arrivo alla festa solo, e mi trovo davanti un nugolo di persone, di cui gran parte bellissime ragazze. Per un momento mi pento di non essere single ma, cosa vuoi, è il destino. Jessica aveva promesso cibo e alcol: sull’alcol ci siamo, vino e sangria sono più che decenti; sul cibo ci siamo meno, perché si tratta di tipi diversi di pane e cracker da intingere in varie salsine vegetariane. E con il Red Rose restaurant dall’altra parte del muro, con i suoi odori di yangrouchuan’r e verdure saltate, si sente la mancanza di una cena degna di tale nome.

In cerca di persone da conoscere, incrocio la receptionist che mi appiccica tre sue amiche, tutte cinesi cesse in cerca di marito. Rispondo alle loro domande in cinglese in modo gentile, ma con un certo sforzo di comprensione. Il vento soffia forte e lascia il cielo blu e pieno di stelle, ma ruba anche le parole. Vengo salvato dal discorso inaugurale delle due proprietarie, Robyn e Mimi, che lasciano poi il posto a Jessica, con in mano una chitarra acustica, e un’altra insegnante americana, con un tamburo tra le gambe. Le due attaccano con una musica hippissima, ma in fondo perfetta per l’occasione. Per un attimo tutta la folla eterogenea di praticanti di yoga di ogni età e i loro amici rimangono ad ascoltare in silenzio la musica, poi piano piano ciascuno ritorna alla sua conversazione, ma con rispetto.

Avvicinandomi alle musiciste conosco Nicole, una ragazza di Hongkong interessata a tutto ciò che è danza ed espressione artistica fisica, e Valeria, una sinologa trentina in cerca di lavoro. Nicole è il mio genere di ragazza: bella, distaccata e con una grande passione artistica; ha vissuto per molto tempo negli States per studiare e ora si è trasferita da un po’ di tempo a Pechino per lavoro. Valeria è vegetariana, ed ha visitato il Sud dell’India seguendo più o meno il mio percorso, e condividendo le mie impressioni sulle differenze tra Tamil e Malayalam. Finalmente un po’ di gente simpatica da conoscere, penso. Come al solito, bisogna andarla a cercare nei posti più impensati e nascosti. E’ questa una delle costanti di Pechino.

L’ultima conoscenza della serata viene fatta al banco dei drink. Alto, faccia di cuoio, capello biondo sabbia con basettoni e cappellino da yankee, giubbotto di jeans e numerosi bicchieri di vino vuoti davanti a sé. Dom. Australiano, una sagoma di uomo con un inglese di cui si riesce a capire ogni singola parola, cosa non comune tra i madrelingua. Dom attacca bottone chiedendoci informazioni sulla festa e sullo yoga. Lui non sa nulla perché si è imbucato: passava per la strada, ha visto gente, e si è infilato. Fa morir dal ridere e offre una conversazione interessante. Io, lui e Valeria ci spostiamo al Red Rose per una cena a lungo agognata, poi Valeria scappa per incontrare la sua coinquilina che non vede da tempo. Io e Dom ci guardiamo. Lui sta a Wudaokou e il vero motivo per cui è venuto in Sanlitun era per comprare dagli spacciatori neri. Poi per caso ha trovato la festa dello Yoga Yard.

Un quarto d’ora dopo siamo nella piazza delle Torri della Campana e del Tamburo, un luogo nuovo e magico di Pechino. Dom è come me, lui si butta negli angoli più impensati e trova i luoghi più interessanti. E’ questo il modo di vivere l’anima di Pechino, beninteso. L’australiano mi conduce ad un piccolo bar e su per le scale ripide del terrazzo che guarda sugli hutong e sulla torre campanaria. Mentre prepara lo svuotino, e poi mentre ci godiamo gli effetti dell’erba, Dom mi racconta la storia della sua vita. Nato e cresciuto nel quartiere italiano di Melbourne, lascia l’Australia per studiare a Jakarta, dove rimane cinque anni. Quando torna si porta dietro la sua fidanzata indonesiana, che sposa e con cui fa due figlie. Ma le ragazze indonesiane, per quando belle, dolci, generose e creative, mancano della scintilla intellettuale che cerca lui. Non riesce a parlarci, a discuterci, a condividere pensieri, solo emozioni. Sicché dopo otto anni di matrimonio Dom divorzia e viene in Cina, libero ancora una volta. Con alle spalle una laurea in legge e una conoscenza quasi perfetta dell’indonesiano, si mette a studiare cinese in una scuola coreana sgarrupata di Wudaokou, condividendo un appartamento con una coppia, lui africano, lei cinese di Singapore. Non rimpiange il suo passato, Dom, anzi ci si trova molto bene nella sua libertà ritrovata nel culo del mondo. Ma, mi confessa, “I wouldn’t mind being married again, once or twice”. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, e secondo lui cinesi e coreane sono intellettualmente più interessanti delle indonesiane.

Si parla di tutto e di niente con Dom, si fanno quei discorsi che partono bene, ispirati dalla coscienza alterata, ma che nessuno riesce mai a finire per mancanza di concentrazione. Si parla di donne asiatiche, di monumenti storici, della pericolosità di donne e alcol, dell’immigrazione italiana in Australia, e di altri mille argomenti. Un sacco di “food for thought”, comunque. Le conclusioni, poi, le trarrà ciascuno da sé nella settimana seguente. Ci si saluta scambiandosi il numero di telefono. Può darsi che ci si vedrà ancora.

2007-05-20

Zhajiangmian

Uno dei piatti più tipici e buoni di Pechino sono i zhajiangmian. Si sa che i piatti più buoni sono sempre quelli semplici, appartenenti alla tradizione popolare – come la pizza a Napoli, o le tagliatelle in Emilia, o i weisswurstel a Monaco. I zhajiangmian non fanno eccezione, preparati e mangiati dalla gente della strada di Pechino da epoca immemorabile, e sempre affinati per renderli più buoni.

Zhanjiangmian (炸酱面) significa letteralmente “tagliatelle in salsa fritta”. Si tratta di una pasta fatta con farina di cereali, lunga e spessa esattamente come le “tagliatelle della nonna” in Italia. Dette tagliatelle sono prima bollite e poi condite con un selezione di verdure crude e tagliate a listarelle, che di solito comprendono cetriolo, germogli di soia, fagiolini verdi e marroni, più la famosa “salsa fritta”. Tale salsa è preparata con carne di maiale tagliata a dadi, aglio e cipolla tritati e una salsa dolce tipica del Nord della Cina a base di fagioli, il tutto fritto del wok e quindi versato insiem agli altri ingredienti in una ciotola da insalata formato famiglia, per servire una singola porzione. A piacere si può aggiungere dell’aceto, secondo la tradizione della capitale.

Si tratta di un piatto a dir poco crasto, di quelli adatti a una gelida giornata d’inverno in cui si lavora faticando, e che corroborano con una dose inusitata di calorie. Da gustare insieme a una tazza bollente di té al gelsomino.

Per quanto piatto tradizionale, i zhajiangmian si trovano oggi in mille versioni diverse, anche nei ristoranti. C’è chi usa la carne di maiale tritata che costa meno, c’è chi usa solo il cetriolo e nessun’altra verdura, quasi nessuno serve l’aceto in una scodella a parte, qualche sito web addirittura offre ricette vegetariane senza il maiale. E’ difficile ormai trovare luoghi dove si può gustare questa specialità quasi sconosciuta ai waidi (外地, forestieri), ingiustamente adombrata dalla fama dell’anatra laccata (烤鸭) che spesso viene presentata come l’unico piatto di Pechino, e invece viene dalla tradizione del palazzo imperiale.

I luogo migliore che io conosca per mangiare dei zhajiangmian degni di tale nome si trova di fianco al mercato di Hongqiao, ex mercato dei ladri in epoca imperiale, nel cuore della vecchia città han. Ai piedi di un ponte pedonale, dall’altra parte della strada rispetto al muro del Tempio del Cielo, si trova il “Grande Re dei Zhajiangmian della Vecchia Pechino” (老北京炸酱面大王). Apparentemente il ristorante è estremamente antico, originariamente situato in un siheyuan in seguito allargato con pareti di mattoni e brillanti insegne cartonate. L’interno conserva ancora, tuttavia, l’atmosfera tipica dell’osteria pechinese che non si trova da nessun’altra parte in Cina: tavoli quadrati di legno, piccole panche monoposto, teiere in vera porcellana coloratissima, e un’esercito di giovani camerieri in divisa grigia tradizionale che scostano il tendone alla porta e, in coro, salutano l’avventore che entra e quello che esce. Siccome nella grande sala regna un gran renao (热闹), che in cinese significa “divertimento” ma letteralmente significa “fa un gran caldo e c’è caciara” – il che la dice tutta sul concetto cinese di divertimento – i camerieri per farsi sentire urlano come forsennati, cosa che di solito tende a intimorire chi non è abituato. Mi rendo conto che entrare in una bolgia del genere, strapiena di pechinesi che mangiano e ringhiano ad alta voce, e vedere improvvisamente tutti i camerieri girarsi verso di voi e sbraitare in coro qualcosa in una linga sconosciuta possa non mettere a proprio agio. Ma tant’è, una volta fatta l’abitudine diventa un piacere. Voi semplicemente ringhiate in pechinese il numero delle persone al vostro tavolo, ovviamente ad alta voce se no non vi sentiranno mai, e godetevi il renao. Garantito che i zhajiangmian che vi verranno serviti varranno tutti gli 8 kuai che costano.

Liaaang weeeiiii!!!!

2007-05-15

I lavori inutili

In Cina, e soprattutto nella sua capitale, il Partito è ben deciso a combattere la disoccupazione, causa attiva di disagio sociale ed economico, ed è per questo che da sempre promuove il lavoro per tutti. Se il lavoro nobilita l’uomo, sia esso coltivare la terra o sudare in una fabbrica, una forte suspension of disbelief è stata necessaria da quando la sinistra maoista ha ceduto il posto al capitalismo di Deng Xiaoping.

Una volta certi lavori erano vietati, perché degradanti: nell’ottica maoista, ciascun cittadino doveva essere autonomo e indipendente nell’attendere ai propri bisogni. Niente facchini, niente domestici, niente servitori in generale: se qualcuno poteva fare da sé, doveva farlo in nome dell’eguaglianza.

Dal 1978 le cose sono cambiate: sono ricomparse le aiyi, i risciò, i facchini, e questo ha permesso di chiudere le danwei (单位) che da sempre operavano in perdita e trovare ai loro dipendenti nuove occupazioni. Molte di esse, tuttavia, non appaiono particolarmente utili o efficienti.

Cominciamo dai portieri: ragazzi in divisa che stanno sull’attenti alle porte di ogni palazzo di un certo livello, e in particolare negli hotel, nei ristoranti, negi uffici, nei mall, nei negozi e nei compounds residenziali. Tipicamente ragazzi giovani dalle campagne alla prima esperienza di lavoro. Sempre distratti, a tarda ora li trovi quasi sempre addormentati sulla poltrona per gli ospiti, ma se sono svegli non provate ad aprire la porta da soli: ci rimarrebbero malissimo.

Poi ci sono le ascensoriste, di solito ragazze anch’esse appena arrivate dalla campagna, ma a volte anche donne sui trent’anni. Chiuse in una scatola di metallo per dodici ore al giorno, sedute su uno sgabellino di legno altro trenta centimetri, tentano di combattere la noia con un libro, una rivista, un lettore mp3. Anche loro, dalla decima ora in poi di turno, le si trova addormentate in posizioni improbabili e scomodissime.

Gli spazzini: in Cina non ci sono i cestini dell’immondizia, tutti buttano i loro scarti per terra, ed ecco un esercito di contadini, anche di una certa età, con giubbotto arancio fluorescente, scopa, spatola e cappello di paglia, che raccolgono carte, cicche, bottiglie di plastica, anche loro con turni fino a 18 ore.

Gli spazzaneve: orde di omini armati di scope di saggina che rimuovono i fiocchi ghiacciati e levigano il ghiaccio sul marciapiede, rendendolo mortale.

I pulisci-strade: armate di poveracci con giubbotto fluorescente che, al centro di una strada a dodici corsie, con mezzi che sfrecciano in traiettorie imprevedibili, lavano il guardrail con secchio e spugna.

Ma qualunque cosa si veda, non si è mai preparati al peggio. Ogni giorno in questo posto stupisce: ed è così che una mattina, camminando per il Terzo Anello, vedo al SOHO Jianwai delle signore di mezza età in tuta da manutentrici, con secchio, sapone e spugna, sedute sotto un albero. Cosa fanno? E’ difficile crederlo, senza averlo visto. Sotto l’albero il management del mall ha collocato delle belle pietre bianche, in un’aiuola quadrata di un metro di lato. Belle pietre bianche che, a causa dell’inquinamento e della polvere, si sono ingrigite. Ed ecco allora il compito delle signore: lavare i sassi uno per uno con acqua e sapone. Guardando meglio, mi accorgo peraltro che i sassi sono comunissime pietre grigie pitturate a vernice, il che mi fa sospettare che qualcuno sia pagato per verniciarle una per una col pennello.

Non ci si abitua, mai. La maggior parte dei giorni si riesce a mantenere un certo distacco che permette di ironizzare sulla cosa. Ma poi ti capita di prendere l’ascensore in una casa di periferia, e trovarci una ragazzina di quindici anni, imprigionata per tutto il tempo in cui non dorme in una gabbia senza finestre che va su e giù senza posa. E accorgerti che assomiglia in maniera inquietante alla tua ragazza, quando era bambina. Allora non riesci a mantenere un distacco, quell’ascensorista non è più una dei milioni e milioni di cinesi che fanno lavori inutili; ti trovi davanti un altro essere umano come la ragazza con cui stai, come te. E senti il peso della sua vita come un macigno. E ti chiedi se, tutto sommato, queste persone non sarebbe meglio impiegarle altrove, in altro modo, o non impiegarle affatto, per evitare di ledere la loro umanità. Nella Repubblica Popolare Cinese succede anche questo, trent’anni dopo la morte di Mao Zedong.

2007-05-09

Poeti Sotterranei

Al mio ritorno a Pechino ricevo l’invito di Federico e Joe, i due strani tipi conosciuti al ristorante brasiliano, per partecipare a un circolo di poeti che si riunisce il mercoledì sera al Bookworm. Mi sembra bello che a Pechino i giovani siano così intellettualmente attivi, e non sentano tutte le sere il bisogno di ubriacarsi e portarsi in camera un partner per la notte, che è invece il leit motif della vita in molti altri luoghi della Cina e del Mondo.

Ed eccoci qui, al nuovo Bookworm, terza incarnazione del luogo che frequentavo le sere di primavera del 2003, io e Massimiliano a giocare a biliardo e bere caffé dalla moca fumante. E’ cambiato tanto, a cominciare dal soffitto trasparente, dal menù che è quintuplicato come offerta, dalla possibilità di comprare libri e pubblicazioni, e soprattutto per il fatto che ora è un luogo frequentato.

Il circolo dei poeti si riunisce nella sala in fondo, attorno a un circolo di poltrone e sedie, con gente di ogni colore ed età che beve té o caffé, fuma, commenta sottovoce e soprattutto ascolta chi sta al centro, e declama la sua composizione. Il frontman della serata è Bob, organizzatore, presentatore e introduttore. A ogni incontro dedica un tema, e ogni serata la apre leggendo un passaggio da un libro, con la sua voce musicale e ipnotica. Solo alla fine rivela il titolo e l’autore del libro, e dà il via alla lettura degli altri volontari. Lui, insieme a Joe, si occupa anche di mantenere il sito web del circolo, dove sono registrate tutte le poesie (http://subterraneanpoets.googlepages.com). Bob è americano, ma il suo cognome Marcacci la dice tutta sulla sua origine: insegna in una scuola elementare, e anche la sua ragazza è insegnante, lei italiana. Sono una bella coppia, entrambi sveglissimi, entrambi con un livello di cinese ottimo, eppure entrambi non interessati ad entrare nel mondo del business: sono contenti di coltivare la loro semplicità materiale e la loro libertà intellettuale. E per questo gadagnano il mio rispetto.

A parte Federico, che legge in italiano poesie di Rodari, e Joe, che declama lamenti romantici di pessimismo cosmico, ci sono tantissimi altri strani personaggi di cui faccio la conoscenza. C’è Amani, una ragazza di Chengdu che insieme al fidanzato Jeff vive nel palazzo di fronte al mio: lavora in radio, e per un motivo che lì per lì mi sfugge, legge poesie in siriano, che apparentemente legge con facilità. C’è Jack, capello e barba lunghi, che sembra uscito dalla perferia di una città degli Stati Uniti, e le sue poesie le rappa, urlandole, metà in slang yankee infarcito di “fuck” e “fuckin’” e metà in spagnolo infarcito di “puta de madre”. D’effetto. C’è un altro americano grande e grosso e sui quarant’anni che racconta storie, ed è anche bravo, se non fosse che sembrano tutte tratte da fumetti di supereroi. C’è una cinese tonda tonda che legge poesie per bambini in inglese, ma la sua pronuncia è talmente atroce che nessuno riesce a seguirla, e a fine lettura tutti battono le mani con le stesse facce perplesse. C’è Ben, biondissimo ragazzo del Minnesota, che legge in inglese e si fa tradurre in mandarino da Sheila, la sua ragazza, modella diciannovenne perdutamente innamorata di lui. C’è Cindy, l’immagine dell’intellettuale, alta magrissima e con i capelli stralunghi: ha un sito chiamato Literocracy e traduce in inglese poeti contemporanei cinesi. E poi c’è Deep Sleep, il poeta maledetto di questa generazione di cinesi.

La prima volta che si presenta è vestito alternativo, pantaloni militari, t-shirt, capelli legati con una coda corta, un po’ timido. Joe lo presenta come una grande promessa che ha alle spalle già molte opere. Timidamente Deep Sleep, che non parla mezza parola di inglese, estrae dallo zaino un mattone impossibile di poesie scritte da lui, e comincia a declamare, con una voce da tenore. La poesia inizia con una serie di domande retoriche:

我们是谁?我们去哪里?我们从哪里来?

Chi siamo noi? Dove andiamo? Da dove veniamo?

Mentre Joe traduce in sottofondo, mi accorgo che in effetti la poesia è una serie infinita di domande retoriche senza risposta. Interessante, la gente batte le mani. E’ così che la volta successiva Deep Sleep ricompare: scarpe di pelle nera, pantaloni attillati, una maglia lunga che fa tanto abito da palcoscenico, capelli perfettamente stirati e pettinati. Anche l’atteggiamento è cambiato, tratta tutti come un grande artista, ogni parola che dice sembra sia un incoraggiamento alla poesia da parte di uno che ormai ha segnato il suo nome nella storia. Serata dopo serata, le sue poesie sono tutte uguali, tutte inziano con il tormentone 我们是谁?e sono solo costituite da sole domande senza risposta. Io e Federico ci guardiamo, chiedendoci se siamo noi gli sciocchi che non capiscono l’arte di Deep Sleep, oppure se tutti gli altri applaudano per gentilezza o paura di brutte figure, e se in effetti il nome Deep Sleep non sia il più appropriato al nostro augusto poeta.

Un po’ per curiosità, un po’ per divertimento puro, mi trovo a frequentare spesso i poeti del mercoledì sera, ed è così che faccio la conoscenza di moltissimi nuovi amici, strambi personaggi capitati nella Pechino di inizio millennio.

2007-05-07

Milano, non è mica sempre agosto

Milano d’agosto è un sogno. Col cielo azzurro, l’aria pulita, il traffico scomparso e la gente in vacanza altrove, la città torna ad essere lo splendore che potrebbe essere ogni giorno. Si gira in biciletta tranquillamente, percorrendo strade conosciute da sempre, e incrociando una mamma con un bambino, o scorgendo un pensionato che ammira la strada dal suo balcone, all’ombra di una tenda e circondato da fiori, accanto a lui la gabbia d’un canarino. Quando è troppo caldo, ci si ferma a una vedovella a bere dell’acqua buona e pulita, che in altre parti del mondo non la trovi nemmeno a comprarla imbottigliata.

Ma agosto è una parentesi breve. Già dall’ultimo fine settimana l’orda dei cittadini torna ad occupare la città con le sue auto rumorose e l’ansia cronica degli impiegati, che troppo spesso sfocia in pura isteria. Ma c’è dell’altro.

Quando la mattina apro la finestra, invece di trovare una skyline che il giorno prima era diversa, vedo la solita via in cui sono nato, sei metri di larghezza di cui quattro presi dalle auto parcheggiate; marciapiedi coperti di merda di cane oppure di auto, perché i posti sulla strada non bastavano. In fondo, uno spazio vuoto, un prato cementato dove cresce qualche erbaccia, immutato almeno dal 1979, senza che in questi anni qualche stronzo abbia deciso di costruire un parco, un parcheggio, un palazzo. No, nulla, un’inutilissima distesa cementata senza accessi, chiusa tra quattro condomini. La strada è percorsa da gente ansiosa che cerca e non trova parcheggio, e se solo sosta cinque minuti c’è già uno strnzo dietro che suona il clacson irritato. La sera passano i tamarri, in motorino o macchina, a novanta all’ora, che c’è da aver paura a circolare i bici o a far scendere i bambini da soli.

I problemi sono quelli di sempre, non cambia nulla. Semmai peggiora: il traffico, la criminalità, il costo della vita e della casa. Tutto peggiora di anno in anno, né qualcuno si preoccupa di offrire soluzioni. La politica parla solo di partiti e tasse. Abbasso i comunisti, abbasso i fascisti, abbasso Berlusconi. Giù le tasse, su le regole. Tutti si lamentano e nessuno fa nulla. E’ una situazione kafkiana, come stare su una nave che affonda lentamente e i passeggeri, invece di mettersi assieme e cercare una soluzione al danno, si fregano i salvagenti e piuttosto che lasciarli ad altri li rompono o li gettano lontano così che nessuno li usi. Tutti a pensare malignamente al proprio interesse piccino piccino, tutti a criticare chi fa qualcosa di buono ma non reca a loro profitto, e tutti a fregare il prossimo alla prima occasione.

Ho capito, me ne vado. Anzi, scappo, come sempre. Questo posto non è per me. Si ritorna a d nuovo a casa.

2007-05-05

Ritorno in patria

Pechino – Parigi, dieci ore di volo senza mai vedere il sole tramontare. Volo Air France, passeggeri cinesi rumorosi e incivili, hostess francesi stronze e indisponenti, la peggiore combinazione. Almeno si mangia bene, gliene devo dare atto, e colgo l’occasione per distruggermi di vino di Linguadoca, syrah a pranzo e sauvignon blanc a cena, che è un secondo pranzo dato il fuso. A Parigi arriviamo in ritardo, e ho un quarto d’ora prima dell’inizio dell’imbarco sul volo Parigi – Milano, in un terminale dall’altra parte del Charles De Gaulle. Prima che l’aereo sia fermo, i cinesi sono tutti in piedi e davanti a me. Prima della fila, una francese che gode da morire nell’andare piano e rallentare tutti. Mi trattengo perché sono in suolo straniero, ma la voglia di far partire una fila di insulti in italiano è forte. Corro, corro, corro. Arrivo in ritardo ma comunque l’imbarco non è ancora iniziato. Turisti italiani e spagnoli ovunque, perché imbarcano anche il volo Parigi – Barcellona dallo stesso gate. Folla di sud-europei al ritorno dalle vacanze con bambini al seguito. Fine agosto. A Malpensa i bagagli arrivano con venti minuti di ritardo, in assenza di qualunque inserviente che fornisca informazioni.

Arrivo in patria distrutto, con un jet lag di 6 ore e un’odissea alle spalle. I miei genitori sono venuti a prendermi all’aeroporto; siccome ci tenevano sono arrivati con un anticipo esagerato, che combinato con i vari ritardi del volo fa sì che abbiano speso uno stipendio in parcheggio, Mio padre, dopo avermi abbracciato, mi mette fretta: “Sono 80 centesimi al quarto d’ora”. E mi ricordo che la vita qui costa di più. Mia madre ha le lacrime agli occhi, e nonostante sia alta la metà di me e malata d’artrite, mi prende la valigia e vorrebbe anche portarmela.

E’ agosto, ci sono venticinque gradi e ventilato, cielo blu, verde ovunque, pulito, e strade semivuote. Sono le sei e mezza e il sole è ancora luminoso. L’aria è pulita. Mi guardo attorno come se non vedessi l’Italia da anni, e in effetti non passo un’estate qui da due anni. Avevo dimenticato quanto si stesse bene.

Casa è bella, accogliente. Piccola, però. A Pechino ho una casa grande quasi quanto questa, e ci vivo solo. Un bagno per me, solo per me. E niente persone che vivono a ritmi diversi dai miei; niente vicini, se è per questo, quindi casino a volontà a qualunque ora. D’altra parte, niente muratori che trapanano alle sette di domenica mattina. E le lenzuola l’aiyi non me le stira come le stira mamma.

Sono davanti al rubinetto. Lo apro. Bevo. Bevo ancora. E’ un sogno. Nel frigo di sono salumi e formaggi freschi. Frutta che sa di frutta. Nell’armadietto ci sono biscotti, merendine umane e pane fresco. Il latte, il latte non sa di chimico; è un sogno.

Si sta talmente bene che decido di smettere di fumare, almeno finché sono qui. So che non resisterò a lungo, ma finché dura questa sensazione me la voglio godere.

2007-05-02

Changjiang 750

Per le strade di Pechino gira ogni genere di veicolo, dalla Xiali alla Ferrari, dal triciclo alla Hummer, dalla bicicletta elettrica a una strana sorta di apecar con un posto davanti e uno dietro, verde e corazzato che pare un mezzo militare, con la serratura della portiera che è diversa da quella dell’accensione e uguale a quella di una comunissima porta di casa.

Ma il mezzo pechinese per antonomasia, quello che tutti devono avere se vogliono ruleggiare sulla Chang’an Jie e ispirare rispetto anche alle auto blu dei dirigenti di partito, è il sidecar della Changjiang. Il venerabile, perché la sua è una storia lunga e sorpredente.

La storia del sidecar Changjiang 750 comincia in Germania l’anno prima della Seconda Guerra Mondiale, il 1938, quando la BMW comincia a produrre la BMW R-71. Il principale cliente della BMW è l’esercito, che con quel gioiello all’avanguardia equipaggia le SS: uno alla guida, uno in carrozzina con la mitragliatrice. L’avete vista tutti la BMW R-71, in qualunque rappresentazione delle SS: nera e con la croce di ferro in bella vista. Eterna.

Quando il Reich cadde gli americani presero tutti gli scienzati e i tecnici balistici e li portarono negli Stati Uniti. I Russi, non potendo prendere di meglio, decisero comunque di prendersi la fabbrica delle moto BMW e, progetti macchine e personale, spostarla sugli Urali. Cominciò così la produzione della “Ural” e della “Dnepr”, due sidecar sovietici che erano la copia spudorata della BMW R-71, il mezzo più veloce, maneggevole e affidabile conosciuto a quel tempo per un campo di battaglia.

Correva l’anno 1957 quando il Partito Comunista Cinese lanciò il Grande Balzo in Avanti, cercando di modernizzare il Paese con l’aiuto di tecnici sovietici e tanta buona volontà. Avendo la necessità di modernizzare, tra le altre cose, anche l’esercito, i cinesi premettero l’URSS per la concessone di tecnologie militari, e il Soviet Supremo decise di passar loro il progetto dei sidecar. Fu così che, lo stesso anno, le prime Changjiang 750 furono sfornate dalle fabbriche di Nanchang e diventarono effettive da subito nell’Esercito di Liberazione Popolare. Visto che funzionava bene e Deng Xiaoping premeva per entrare nella logica di mercato, negli anni ‘80 la fabbrica delle Changjiang rimosse i supporti per la mitragliatrice e il resto degli pparcchi specificatamente atta alla guerra e cominciò a vendere la Changjiang 750 sul mercato, e il mezzo prese immediatamente piede a Pechino.

Al giorno d’oggi, la Changjiang 750 è ancora in uso presso i reparti locali dell’ELP e di polizia, oltre che per vari addestramenti. I modelli privati sono ancora in vendita. Ed è così che un modello di sidecar inventato dai nazisti nel 1938, copiato dai russi nel 1944, e di nuovo copiato dai cinesi nel 1957, nel 2007 è ancora in produzione sia in versione militare che civile. E più di 60 anni dopo la sua invenzione è ancora strafigo. Secondo il China Daily, solo nel 2003 a Pechino c’erano 2000 Changjiang 750 che giravano su strada legalmente. Trecento di esse appartenevano a stranieri.

Le Changjiang 750 si vendono, sul mercato della capitale, per un prezzo che varia dai 3.000 yuan, per i modelli più vecchi, scassati e corrosi dalle tempeste di sabbia, fino ai 30.000 yuan per quelli nuovi e truccati con motore BMW moderno. Dalle parti di Shunyi c’è un tizio che ha messo su un’officina dove vende e ripara solo sidecar, e ha anche clienti dall’estero, che si fanno spedire le Changjiang in Finlandia e negli Stati Uniti. Se poi uno vuole, il meccanico può anche “pimpare il vostro mezzo” con fiamme e altre tamarrate impossibili, il tutto per poche centinaia di kuai.

Basta guardarlo, quel mostro nero, per capire che non esiste un mezzo più fottutamente rozzo, robusto e pechinese. E immaginarsi alla guida, stivali di cuoio, giacca di pelle, occhialini da motociclista da Seconda Guerra Mondiale, con il rombo del motore che sfida l’ululato del vento sabbioso, a sfilare tra i grattacieli della Chang’an Jie o tra le colline ai piedi della Grande Muraglia. E in sottofondo, una canzone:

Get your motor runnin'
Head out on the highway

Lookin' for adventure

And whatever comes our way...