2006-09-26

Wang Jian


Ho bisogno di fare un’intervista a qualcuno di significativo per la mia tesi. Originariamente pensavo di farla sulle scelte di localizzazione delle aziende italiane in Cina. Dopo aver analizzato le risposte dei questionari compilati dagli intervistati, tuttavia, mi sono reso conto che la scelta in media non era affatto cosciente, ma piuttosto casuale o al più dettata dalla posizione di un partner conosciuto. Viva il Sistema-Italia… così ho deciso di fare la tesi sulle politiche del governo cinese per sviluppare le regioni occidentali del Paese. E ho bisogno di un cinese che risponda alle mie domande, meglio se immanicato col governo. Il mio capo me lo trova, e fa anche di più: mi fissa un appuntamento e mi fa accompagnare da Yao in funzione di interprete. E’ un angelo, il mio capo.
Dal Jingguang all’ufficio del mio intervistato sono 40 kuai di taxi, più o meno un’oretta di traffico. In un palazzo a quattro piani nel distretto di Haidian, non lontano dalla torre di CCTV, lavora il mio uomo. Wang Jian, professore presso la Chinese Academy of Sciences, una divisione della Commissione di Stato per la Pianificazione e lo Sviluppo.

Una premessa è doverosa. I cinesi sono in media persone estremamente gentili ed umili, ma questo è vero principalmente per la povera gente, ovvero la maggioranza. Quando un cinese ottiene un po’ di potere, di solito comincia a trattare tutti gli altri come sottoposti. Li guarda dall’alto in basso, si comporta in modo arrogante e offensivo, dà ordini e si aspetta che vengano eseguiti alla lettera. Tutto questo fa parte della concezione confuciana della gerarchia, beninteso. Per la verità Confucio insisteva sulla benevolenza dei superiori, ma poi la gente si dimentica i dettagli e semplicemente sottolinea la sua posizione in modo inequivocabile.

Wang Jian non è così. E’ ricco, è potente, è estremamente colto e immanicato nella tecnocrazia della capitale. E’ grasso come tutti quelli del suo rango, e mi accoglie nel suo ufficio che, da solo, fa metà dell’open space accanto dove stanno stipate trenta impiegate. Il suo ufficio ha pareti in legno scuro, mobili pesantissimi e istoriati, pianale della scrivania in marmo verde, poltrone in pelle nera, piante a entrambi i lati della scrivania e vari soprammobili in cristallo e bronzo dorato del peso di svariati chili. E’ un classico membro della sua classe.
Wang invita me e Yao a sedere sulle poltrone di pelle e si siede all’altro lato del tavolino, senza mettere tra noi la scrivania. Ci fa portare da una segretaria del tè al gelsomino rovente, servito in un bicchiere di carta con supporto in plastica che fa manico da tazza per non scottarsi. Estrae un pacchetto di Chunghwa – simbolo del suo status, e me ne allunga una. Risponde a tutte le domande senza remore, in modo diretto. Niente slogan, niente frasi fatte, niente negazioni dell’evidenza. Fa un sacco di battute. “Mongolia e Tibet? Come fanno a svilupparsi? Da una parte ci sono solo montagne, dall’altra non ci sono persone!”. Non pare nemmeno uno del governo. E’ gentile e disponibile, e parla in modo semplice ed efficace, senza perdersi in astrusi ragionamenti economici; è un tipo pragmatico. La sua testimonianza aggiunge preziose informazioni alla mia tesi e ne aumenta notevolmente la credibilità.

Anche a lui andrà una riga nei ringraziamenti della mia tesi. Mi insegna una grande lezione, Wang Jian. Mi insegna che si può essere colti e potenti senza perdere il “common touch”, che non occorre trattare con dei laureati per spiegare le proprie idee, e che la comunicazione può essere tarata sul livello di comprensione del pubblico senza necessariamente dover rinunciare a gran parte dei contenuti. Lui è un esempio di benevolenza confuciana nei confronti di chi sta gerarchicamente sotto. Io lo onoro, lui mi insegna, questa è l’armonia del nostro rapporto di disparità. Me ne vado dal suo ufficio con un blocco pieno di appunti e il cuore leggero. Ho avuto una conferma che questo sistema, almeno in parte, può funzionare.

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