2006-09-29

La SARS


A febbraio la notizia l’aveva data Christian, sempre informato sugli eventi attorno a noi tramite i giornali internazionali. “A Hongkong pare sia scoppiata un’epidemia di una malattia sconosciuta. Pensa se arriva anche qui”. Ne ridevamo, a febbraio. Poi la malattia si è spostata in giro per l’Asia, ed è arrivata anche a Pechino.

Il governo non ha detto nulla, ma le voci hanno cominciato a girare. Ogni giorno, la notizia di qualche ammalato in più, non verificabile. Uno spettro, quello della SARS, che incombeva ogni giorno su di noi. All’inizio non le si dava peso, e come dargliene? I cinesi non ne avevano mai sentito parlare. Leggevi i quotidiani stranieri con titoli da prima pagina, e poi ti guardavi attorno e vedevi la vita di tutti i giorni. La gente che sputa, quella che starnutisce senza mettere la mano davanti, quella che ti tossisce addosso. “Loro vivono qui, ne sapranno più di noi. Se loro non hanno paura, perché dovremmo averne noi?”


Ad aprile i titoli nei giornali sono diventati seri, le notizie più gravi. In Italia è scoppiata la paranoia. Telefonate quotidiane negli uffici, da parte delle famiglie di chi vive qui, per riportare notizie sconcertanti su quella che pare essere la Peste bubbonica portata ai nostri giorni. Guardi fuori dalla finestra e non vedi nulla di diverso dal solito. Ma cominci a sentire lo spettro più vicino.


Poi i nervi di qualche straniero cedono, e comincia a indossare la mascherina, a lavarsi le mani ossessionatamente, ad aprire le porte con i gomiti. Le voci diventano più insistenti, e prendono la forma di leggende metropolitane. Qualcuno dice che ci sono migliaia di ammalati tenuti nascosti chissà dove. Sasha sostiene che il cibo piccante, l’alcol e le sigarette disinfettano lo stomaco, i polmoni e il sangue. Qualcuno dice che hanno trovato degli ammalati proprio nel palazzo in cui tu hai l’ufficio, o che hanno messo in quarantena un palazzo nell’isolato in cui vivi. E’ allora che lo spettro ti cade addosso, e ti senti nella Milano del Manzoni. Chiunque tossisce o si soffia il naso diventa un potenziale untore. Chiunque sia pallido e con le occhiaie un potenziale nemico. La paranoia diventa pian piano isteria.


Massimiliano, che passa troppo tempo con gli italiani, comincia a preoccuparsi. Io invece mi fido dei cinesi, e comincio a vedere con fastidio gli stranieri spaventati. Li evito. Vado in giro da solo o con i cinesi, per non dover avere qualcuno che mi mette ansia vicino. Nego a me stesso l’esistenza dello spettro, non ci credo.
 




Manca ormai meno di una settimana alla partenza, e una sera sono a casa di Jingyi. Nonostante abbiamo discusso, mi invita per la prima volta a restare per la notte, ma rifiuto per puro orgoglio. Prendo un taxi e, alle due del mattino, torno verso il Poachers. Per la prima volta il cancello è chiuso; il cuore comincia a battermi, e considero l’opportunità di ritornare da Jingyi, ma l’orgoglio vince ancora, e scavalco la cancellata polverosa. In reception non c’è nessuno; dovrebbe sempre esserci qualcuno. La paura striscia, ma ancora non voglio credere agli spettri.


Salgo le scale, recupero la chiave nelle ciabatte di Massimiliano e apro la porta. La camera è buia, lui dorme. Mi metto anch’io a letto e prendo sonno piuttosto in fretta, ma non faccio dei bei sogni.





Vengo svegliato dal cellulare di Massimiliano che vibra come ogni mattina, ma la luce di fuori è ancora grigia. L’orologio segna le sei e mezza. Ancora assonnato, il mio compagno risponde. Sento la voce di sua madre che piange, e Massimiliano che cerca di calmarla, ma è pallidissimo. Lo guardo attonito mentre discute con l'Italia. Poi mette giù e mi guarda: “Pare che all’ospedale di Sanlitun abbiano trovato mille ammalati di SARS abbandonati a sé stessi”.
 



L’ospedale di Sanlitun starà a cinquecento metri dal Poachers. Chiudo gli occhi. Cazzo.

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