2006-09-11

Ubriaco Perso


E’ una splendida mattina di aprile. Mi sveglio tardi e, mentre Massimiliano dorme, scendo in strada e vado al 24 hours di Sanlitun. La mia colazione, seduto in posizione del loto su un muretto, sotto i grandi pini, è un cornetto Algida (uguale a quello italiano, ma chiamato Ke’aiduo – 可爱多) e una bottiglia di tè verde freddo della Tongyi (统一绿茶). La gente passa e mi guarda come fossi un marziano, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.


Rientrando al Poachers, siedo sulla panca del Bookworm e scrivo note sul mio diario. E’ una giornata bellissima, una giornata di ozio, almeno fino a metà pomeriggio, quando Jingyi dovrà traslocare nella sua nuova casa. Andrò a darle una mano.


E’ mentre scrivo che mi si avvicina uno strano personaggio. Testa rapata, pizzetto biondo, occhio ceruleo e allegro, età sui trent’anni. Pantaloni della tuta e scarpe da tennis, giubbotto di pelle marrone e borsa da sport. Attacca bottone e dopo nemmeno mezzo minuto è già seduto a chiacchierare. Il nome non me lo ricordo proprio, ma credo di essere giustificato visto quello che succederà da lì a un’oretta.


Lo strano uomo parla con un’accento inglese strettissimo, e intercala “fuck”, “for fuck’s sake” e “fucking” ogni due o tre parole. Abita a Tianjin e, poco credibile a vedersi, fa l’insegnante di religione in una scuola internazionale. La passione del calcio lo porta a Pechino nel week-end, e appena scopre che sono italiano mi invita a Tianjin a giocare nella sua squadra, per distruggere gli avversari – coreani, giapponesi e cinesi, praticamente una farsa – e promette di concludere la serata con una cena di hot pot. E’ un tipo strano, ma decisamente simpatico, pare si ecciti per qualunque cosa.


Di lì a poco viene raggiunto da un secondo personaggio: un metro e ottanta per una novantina di chili, sui quarant’anni. Testa rasata anche lui, t-shirt di una squadra di rugby e kilt con scarpa da tennis sportiva. Deef, scozzese, si autoinvita alla nostra conversazione. Poco dopo anche Massimiliano scende a si unisce anche lui. Non sono passati nemmeno cinque minuti che l’inglese propone di andare tutti quanti a farsi una birretta da qualche parte.
“Perché no?” è la frase maledetta della giornata.
 


Venti minuti più tardi ci troviamo in un pub irlandese davanti alla stazione dei treni, e insieme a noi ci sono una coppia di australiani, lui rugbista biondo e abbronzantissimo, lei biondina di quelle che sembrano piccole e dolci, ma sono esattamente il contrario. Si attacca a offrire boccali da un litro a giri. Questo è mio, questo è tuo, eccetera eccetera. E’ l’inizio della fine. Il concetto inglese, scozzese e australiano per “una birretta” è molto diverso da quello italiano.

Deef racconta la storia della sua vita: sposato con una figlia adolescente, buon lavoro nel ramo finanziario. Dopo l’11 settembre 2001 la sua azienda entra in crisi e propone ad alcuni dipendenti di dare le dimissioni in cambio di una sostanziosa somma di denaro. Deef divorzia, molla la figlia alla moglie, si licenzia, incassa e comincia a girare il mondo a quarant’anni. Inizia dal Sudamerica; in Guatemala fa rafting, si ferisce un braccio su una roccia e, mentre sanguina, percorre con un braccio solo le due ore di torrente che lo separano dal primo luogo civilizzato, il tutto mentre gli avvoltoi gli volteggiano a cerchio sopra. Poi si sposta in Asia: comincia dalla Mongolia, si sposta in Cina, e la settimana seguente ha in programma il Vietnam, tutto da solo conoscendo eventualmente gente sul posto. Ha deciso che nella vita vuole fare l’avventuriero, almeno finché il corpo gli viene dietro. Non so quanto reggerà di questo passo, ma gli faccio tanto di cappello.


L’inglese si trasforma: prima comincia a ridere come un matto, quindi la faccia gli cambia, come se dieci anni di rughe gli fossero caduti addosso in una botta sola; la bocca si storta, gli occhi si spalancano come in preda alla pazzia. Invita di nuovo me e Massimiliano a giocare a calcio a Tianjin e mangiare l’hot pot. Poi a passar la notte in sacco a pelo sulla Grande Muraglia. Poi ci invita a casa sua a Manchester per la prima partita tra un squadra italiana e lo United: dice “Go to Manchester during the game, say ya’re Italian: the people will love ya!”. Quando i suoi inviti cominciano a cadere nel vuoto si sposta al biliardo, con magri risultati. Quindi attacca bottone con due vecchie signore russe, di vent’anni più vecchie di lui, e lo perdiamo.


I litri di birra aumentano: due, tre, quattro, cinque. La mia colazione è stata un cornetto Algida e una bottiglia di tè verde freddo. Il mio pranzo un cestello di patatine fritte. Jingyi mi chiama al cellulare, salvandomi. Devo andare.
Saluto tutti con grandi abbracci, scambi di e-mail e promesse di incontrarsi di nuovo. Abbandono Massimiliano al suo destino: lui saluta con la mano senza dire nulla. Chissà se si rende conto di quello che sta succedendo. “Bella gente gli inglesi” continua a ripetere.


Monto su un taxi e biascico l’indirizzo del Bihuju. Il tassista vede lo stato in cui sono e ride. Parte in quarta moltiplicando le curve, le frenate e le accelerate. Sto malissimo, mi sento come un materasso ad acqua pieno di birra, con cui qualcuno gioca a pallone. Il tassista ride come un matto. Smette di ridere quando, a cinquecento metri dal Bihuju, a novanta all’ora, sporgo la testa dal finestrino e do di stomaco.
Frena lentamente e con attenzione quando mi lascia davanti al Bihuju. Lo pago sperando che i soldi siano giusti ma con poca convinzione e scendo dalla macchina. Chiudendo la portiera ammiro la strisciata giallastra sulla carrozzeria rossa. Meglio far finta di nulla: supero la guardia all’ingresso e mi infilo nel giardino del compound.

Quando Jingyi apre la porta la saluto con la mano e mi fiondo in bagno, dove rimango per i quaranta minuti successivi. Fottuti inglesi, voi e la vostra birretta della domenica mattina. Quando emergo dal gabinetto Jingyi non è arrabbiata, è gelida. “Penso che tu sia abbastanza grande da giudicare da solo la situazione in cui sei”. Concisa e tagliente come sempre, Jingyi. Con una frase mi uccide. Bevo mezzo litro d’acqua e collasso sul divano per altri venti minuti, con lei che non mi degna nemmeno di attenzione, impacchettando la sua roba. Il senso di colpa mi divora.

Poi il citofono suona. E’ Alberto con la sua jeep. La necessità si salvare la mia faccia, e soprattutto quella di Jingyi, mi concede l’adrenalina necessaria a darmi una mossa. Non so se la mia farsa inganna l’occhio altrui, ma nessuno dice nulla. Trasportiamo gli averi di Jingyi nella nuova casa. La lascio così. Non propongo nemmeno di restare da lei, né lei me lo chiede.

Quando torno al Poachers, sono le nove. Le ciabatte di Massimiliano, che aveva le chiavi, sono davanti alla porta, ma le chiavi non ci sono. Busso. Dopo un minuto la porta si apre, e la faccia del mio compagno di camera non tradisce alcun segno di coscienza. Forse nemmeno mi vede. Torna sotto le coperte, dove giaceva poc’anzi. Ancora adesso, ad anni di distanza, non si ricorda d’essersi alzato e avermi aperto la porta, quella sera. Almeno è vivo.

Tra il tormento della mia colpa e la stanchezza fisica, vince la seconda. Nel momento in cui mi appoggio sul letto, entro nel mondo dei sogni. Fottuti inglesi e la loro birretta.


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