2007-12-29

La Liberazione dei Pesci

E’ un pomeriggio di dicembre, e il Grande Freddo è arrivato da un paio di giorni. I laghi di Shichahai sono ghiacciati, e io cammino sulle sponde di Houhai con i miei, quando mi trovo davanti una scena curiosa: nella strada si raccoglie una piccola folla, fatta di adulti ma anche numerosi bambini che rovistano chinati in una pozzanghera non ghiacciata, bloccando il traffico di auto che inutilmente suonano il clacson.

Avvicinandomi noto nella pozzanghera una miriade di piccole creature: all’inizio mi sembrano grossi vermi neri, oppure girini, ma mio padre li riconosce al volo. Sono piccole anguille che sguazzano nel gelo invernale. Poco lontano, un triciclo carico di sacche d’acqua contenenti pesci d’ogni genere, grandi e piccoli. Una delle sacche è caduta, e il suo contenuto si è sparso sulla strada. La gente si congela le mani cercando a fatica di raccogliere una a una le anguille, e le getta nel lago che, ghiacciato com’è, non offre l’ambiente ideale per dei pesci. Un ragazzo cinese sui vent’anni ha un’idea brillante: prese due scope, di quelle cinesi corte, le lega con uno straccio ottenendone uno strano oggetto contundente che ricorda un nunchaku di dimensioni sbagliate. Lo solleva e, dal bordo del lago, ne colpisce la superficie bucando lo strato di ghiaccio e permettendo alle sfortunate creature di tornare all’elemento che più si confarebbe a loro, non fosse per la temperatura. I piccoli serpenti nuotano verso il basso fino a scomparire nell’acqua nera. Nel frattempo, la folla è cresciuta alimentandosi di curiosi: turisti stranieri, abitanti del vicinato, semplici passanti.

Quando l’ultima anguilla è stata salvata, le macchine possono riprendere a circolare, e la folla si accalca sulla balaustra del lungolago. E’ allora che noto altri due tricicli carichi di pesci insaccati, che altri ragazzotti scaricano con ben poca grazia sulle rive formando una lunga fila. In quel momento alla folla si aggiunge la figura più di nota – non intabarrata in una giaccavento, ma in una semplice veste arancione, stivaletti gialli e cranio rasato. E’ un monaco buddhista.

La gente gli fa spazio, e questo si avvicina alla balaustra. In molti gli fanno gesti di reverenza. Il monaco estrae un libro scritto in tibetano e comincia a recitare mantra. La folla abbassa il capo, e una vecchia signora con un pezzo di carta in mano, una pagina plastificata con un’immagine di un buddha d’oro e svariate scritte cinesi, prende a girare qua e là benedicendo prima le sacche dei pesci, poi la gente.

Allora tutto assume più chiarezza. Il Buddhismo si basa sulla legge del karma, che insegna che ogni causa ha un effetto, e ogni effetto ha la sua radice in una causa. Poiché le buone azioni portano buone conseguenze, da millenni in Cina si pratica il rito della liberazione dei pesci: la gente compra un pesce al mercato e, invece di cucinarlo, lo fa ritornare alle sue acque facendogli dono della vita. La stessa legge di causa effetto, tuttavia, fa anche sì che a seguito del rito frequente nasca un giro d’affari notevole di gente che cattura i pesci per poterli vendere a chi li vuole liberare, vanificando le buone intenzioni. Ma questo la chiesa buddhista solitamente se lo dimentica. Ma torniamo a noi.

Il monaco recita i mantra tibetani a ruota, nel silenzio della folla immersa in riverenza dell’occasione solenne. Molti stanno a capo chino a seguire la voce monotona del religioso, altri semplicemente osservano aspettando di vedere i pesci liberati. Il tutto si protrae a lungo, finché molti dei curiosi se ne vanno. Tra di essi ci siamo anche noi. Giungo le mani in segno di rispetto per il monaco, la sua comunità e il suo rito, e me ne vado per la strada insieme ai miei.

Abbiamo percorso una cinquantina di metri quando un clamore attira la nostra attenzione. Dalla folla immersa in meditazione un attimo prima si alzano grida, qualcuno è visibilmente alterato, altri ridono imbarazzati alla maniera asiatica. Un uomo se ne va di fretta, sul suo viso si legge un misto di rabbia e vergogna. Mentre cammina veloce verso di noi, le grida continuano. Lo osservo bene, mentre ogni tanto si volta a dare un’occhiata alla folla che lo insulta. E poi attraverso il riverbero del sole al tramonto colgo il dettaglio fondamentale: l’uomo regge sulla spalla una canna da pesca. Si ferma a un centinaio di metri, con l’aria di chi si sente offeso senza ragione, e getta la sua lenza, sempre lanciando occhiate furtive verso la folla, che riprende il rito.

Per ogni causa c’è una conseguenza. Per ogni conseguenza, una causa. Questa è la legge universale rivelata dal buddha. Curiosamente, in Cina, questa legge sembra funzionare in maniera meno ovvia e prevedibile che altrove, o forse è la gente che la interpreta in modo diverso. Cosa commenterebbe il buddha? Forse farebbe finta di niente, proprio come i suoi fedeli che recitano imperterriti i mantra sacri; come il pescatore, che guarda ora la lenza ora i fedeli; o come me, che scuoto la testa, ormai quasi abituato ad essere stupito ogni giorno, e riprendo il mio cammino con uno strano sorriso.

2007-12-23

Uomini e Bestie

I pechinesi hanno una particolare predilezione per gli animali, ma non come quella dei cantonesi, che gli animali li cucinano: ai pechinesi piace tenerli in casa, come compagni. E’ una tradizione antichissima, su cui sono stati scritti anche dei libri – su come meglio allevare e selezionare le varie bestiole da compagnia.

I pesci sono scontati – praticamente tutti hanno i pesci rossi, ma qui non sono semplici come da noi: ci sono diverse razze di pesci rossi che variano per dimensioni e forma, e i più ricercati sono grossi quanto un pugno, tondi tondi, con gli occhi sporgenti e delle lughe pinne. Un po’ simili ai leoni o ai draghi cinesi se volete, corrispondono perfettamente ai canoni estetici locali, che noi definiremmo “sproporzionati”. Poi ci sono vari altri pesci bianchi, neri, colorati, sempre selezionati per gli occhi enormi e bulbosi e le lunghe pinne simili a strascichi. Wang Li per esempio ha un acquario professionale lungo un metro con dentro almeno una trentina di pesciolini, che ciba scientificamente per averli più sani e colorati.

Poi ci sono i cani, i pechinesi appunto, quelle strane bestiole grassocce, sgraziate, con il muso piatto e le orecchie pendule. Per l’appunto, agli occhi dei cinesi meravigliosi. Il cane pechinese più famoso era Peonia, il cucciolo dell’Imperatrice Vedova Ci Xi che la seguiva ovunque, e cui veniva tributato lo stesso onore che alla padrona dagli eunuchi di palazzo. Ci sono varie classificazioni dei pechinesi che variano per lo più a seconda del colore – bianco puro, chiazzato, bianco con le zampe e le orecchie brune, ecc. Recentemente la moda ha fatto anche apparire gran quantità di volpini, abbondantemente cotonati in modo da divenire tremanti palle di pelo con un musetto che spunta, e chihuahua, grossi come ratti, ma sempre con queste orecchie puntute e gli occhi sporgenti. Adorati dai loro padroni, in inverno tutti hanno il loro cappottino in tela cerata contro il vento, appena cacano subito il padrone è pronto a raccogliere il tutto con il sacchetto di plastica, e mai che li si veda sporchi o arruffati: non avete idea del tempo che viene speso per lavarli e pettinarli.

I gatti riscuotono indubbiamente meno successo, sarà per l’eleganza, anche se in media i gatti di Pechino sono grossi una volta e mezza quelli italiani, col pelo lungo e arruffato e stra-aggressivi. Non si possono considerare al livello degli altri animali, ovvero non c’è una vera tradizione dell’allevamento dei gatti, sono più animali che si tengono per cacciare i topi che per compagnia e piacere. C’è chi li tiene negli hutong, in modo che vaghino liberi, e chi li tiene in appartamenti, nascosti agli occhi del mondo.

Decisamente più tradizionali e tipicamente cinesi sono invece i grilli. Si comprano d’estate, e li si tiene tutto l’inverno in casa, per godere del loro canto. Sono grossi grossi, costano poco e si trovano in piccole gabbie tonde di paglia intrecciata, ma chi ci tiene prende loro apposite e costosissime gabbie ricavate da zucche cave o legno pregiato, e in taluni casi anche osso; ce n’è di intarsiate e bellissime, veri pezzi d’arte. Il bello dei grilli è che uno li può portare con sé, tenendoli in tasca o dentro la giacca, e poi li può far combattere. Il combattimento dei grilli è un divertimento antico e ancora oggi onorato, c’è gente che ci esce di testa, e spende tutto il suo tempo ad allevare e addestrare grilli per la lotta.

Infine gli uccelli, di ogni varietà. I più comuni sono simili ai canarini, solo di colori diversi: anche qui sulle gabbie ci si sbizzarrisce, e ce n’è di veramente belle e preziose. Soprattutto i vecchi amano gli uccelli, e la mattina o al tramonto li si vede camminare con le loro gabbie (c’è chi ne ha fino a quattro) in mano, coperte con una tela blu in modo da non innervosire la bestia. Si dice che il movimento della gabbia stimoli le gambe dell’uccello, rafforzandole, e al tempo stesso tenga in esercizio i polsi del vecchio. I pensionati si trovano al parco, o nell’hutong, o in qualunque angolo della città, attaccano la gabbia a un ramo, un tubo, una partica, rimuovono la tela blu e si godono il concerto. Quelli più bravi tengono i piccioni: il bello dei piccioni è che, anche se non cantano, volano in stormo e si possono addestrare. Si attacca una specie di fischietto alle zampe dei più svegli, così gli altri li seguono, e tante volte li si sente da lontano, come un rombo, e i si vede volare in cerchio attorno alla piccionaia. C’è gente che fa le gare con i piccioni viaggiatori, per vedere chi ha i più veloci e intelligenti, quelli che per primi raggiungono un certo luogo a decine di chilometri di distanza e tornano indietro. E poi ci sono i fenomeni con le rondini ammaestrate – la rondine è l’uccello simbolo di Pechino: li si vede con dei bastoni a cui è legato il volatile. Il vecchio lancia in aria briciole o semi, ed ecco che la rondine spicca il volo, afferra il cibo, tora sul trespolo e ingoia; fenomenali.

I pechinesi hanno davvero un amore particolare per gli animali domestici, e ovunque a Pechino si può ammirare la convivenza non utilitaria dell’uomo con la bestia. Eppure, eppure... non può essere così semplice e lineare in Cina, ci deve essere un eppure...

Eppure col tempo ci si accorge che l’amore dei pechinesi per le loro bestie è un amore da dominatori. L’animale è un gioco e al tempo stesso un modo per farsi vedere, motivo di vanto. I pechinesi non sono schiavi dei loro animali, ma tengono bene a mente la gerarchia, così importante per tutti i cinesi. Il padrone ordina, l’animale esegue come gli è stato insegnato: se fa bene è premiato, se no viene punito. Animali grassi e viziati non se ne vede, gli uccelli che non cantano hanno vita breve, e nessuno vuole un cane vecchio e spelacchiato.

Basta pensare al destino di Peonia, per capire la natura dell’amore dei cinesi per i loro animali. Morta la sua padrona, l’Imperatrice Vedova, pare che anche Peonia si sia intristito e sia morto di lì a pochi giorni, fedele fino alla fine alla vecchia che rovinò la dinastia Qing. Ma i pechinesi raccontano che fu il capo eunuco a fare uno scambio di cani, che quello morto non era l’originale, e che il buon Peonia fu invece venduto sottobanco, per una somma ingente, a un facoltoso mandarino che voleva pavoneggiarsi nell’avere il cane appartenuto all’Imperatrice.

Non so cosa sia meglio, il cane-schiavo che c’è qui, o il cane-imperatore al cui servizio è tutta la famiglia, in Occidente. Francamente devo ammettere di odiare l’idea di avere un animale in casa, che dipende da me per sopravvivere, che non è libero di uscire né del resto autosufficiente per sopravvivere alla libertà. I gatti son felice di sentirli miagolar la notte sui tetti, i grilli cantare tra le fronde, le rondini volare libere nel cielo a primavera, e i cani... be’ quelli che li tenga chi abita in campagna, o al massimo chi ha il cortile per lasciarli correre e saltare. A ognuno il suo, immagino, e in casa mia... solo umani!

2007-12-15

Vecchi in strada

Secondo la cultura confuciana, la relazione più importante tra gli uomini è quella tra genitore e figlio, e l’anzianità è un criterio generale che misura la dignità di cose e persone. Ne viene da sé che in Cina gli anziani sono sempre stati venerati, e ancora oggi, in barba alla Rivoluzione e alla civiltà socialista, i vecchi comandano a bacchetta e i giovani subiscono. Al di là delle molte implicazioni sociali di questa caratteristica, la prima cosa che uno straniero nota è proprio la quantità di anziani che passeggiano per strada e in generale se la spassano. Non come da noi che sono chiusi in casa e attaccati alla TV, e hanno paura ad andare a ritirare la posta – qua i vecchi escono, fanno amicizia, viaggiano, giocano, formano club, intrecciano anche relazioni amorose, con una vtalità che da noi sarebbe impensabile per settantenni e ottantenni.

Gli attrezzi pubblici sono il segnale più lampante: li si vede un po’ dappertutto, sia nei compound più fichi che negli hutong più stretti, in qualche angolo ci sono questi attrezzi gialli e blu. Le prime volte che li vedevo pensavo che fossero per gli sportivi, ma poi mi sono accorto che ci vanno solo i pensionati: all’alba e alla sera sono lì, in gruppi, che chiacchierano e fanno stretching, qualcuno pratica il qigong, se avete la pazienza di svegliarvi all’alba vedrete gruppi che ballano o che fanno taijichuang, alcuni con tanto di spade. Attivissimi, si può dire che in questi orari strambi, quando la gente come noi dorme o guarda la TV o il DVD, loro diventano i padroni della città, e guai a disturbarli, son subito pronti a fare gruppo davanti a un giovinastro che invade il loro territorio. “Gli attezzi sono per gli anziani, mica per i giovani, smamma” oppure “Le sigarette vai a fumarle a casa tua, mascalzone, che il parco è nostro”. Bullissimi.

Un luogo di ritrovo meno facile da individuare sono i club di majiang, comunissimi anche quelli, e anche quelli gratuiti offerti dal comune o anche dal management di un palazzo. Da me ce n’è uno, di cui pago la manutenzione con le spese condominiali, dove gli anziani si trovano ogni sera al suono caratteristico delle tesserine di quel gioco strano che solo i cinesi sanno giocare, e al cui tavolo si concordano affari, matrimoni, decisioni politiche. Non è raro, specialmente d’estate, trovare gruppi di settantenni che alle cinque del mattino sono ancora al tavolo, con una tazza di té, qualcuno con la sigaretta, e giocano come forsennati, puntando biglietti da 1 kuai alla volta. Non si gioca solo a majiang, in questi posti: ci sono anche gli scacchi e le carte, l’importante è far passare il tempo e vedersi con gli amici. Ai giovani chiaramente non è concesso di entrare, guai a mettere un piede dentro per sbaglio. “Fuori, questo posto è riservato agli anziani, non ti vergogni di abusare così dei vecchi? Delinquente!”

Negli hutong più sgarruppati non ci sono le sale da majiang, così la gente in estate si piazza banalmente per strada: un tavolino da campeggio e qualche sgabello, a volte un divano – con i cucini che vengono portati dentro e fuori a seconda dell’orario e del tempo, mentre il divano è fisso tutto l’anno nel vicolo.

I pensionati più intraprendenti fondano associazioni e club, con attività quantomai varie, tipo “Rappresentazione dell’Opera di Pechino” piuttosto che “Studio della musica tradizionale”. Altri si dedicano all’addestramento di animali – cani e uccelli per lo più – a cui dedicano la maggior parte del loro tempo, e che tengono lindi e disciplinatissimi, manco fossero nipoti.

Come si possono permettere uno stile di vita del genere? Quasi tutti hanno pensioni misere, ma sono mantenuti dai figli che non osano fiatare: la nonna ordina, il figlio paga. Ma non è che la loro vita abbia costi così alti. E allora perché da noi i vecchi son tutti isterici e chiusi in casa, e se si ritrovano a chiacchierare una volta la settimana è dopo la messa, in piedi sui gradini della chiesa?

Non lo so, ma la cosa mi fa pensare. Forse se ci fossero più posti di ritrovo per gli anziani, se il governo onorasse i pensionati in modo più esplicito, anche da noi si vedrebbero settantenni che ballano al parco e ottantenni che si toccano le punte dei piedi in cortile, non più soli e abbandonati, non più inutili come si sentono troppo spesso, e avremmo risolto un bel problema della nostra società.

2007-12-08

Il Grande Freddo

Pechino, contrariamente a quanto si creda, non è una città fredda. La sua latitudine è la stessa di Napoli, Barcellona, Istanbul, e se è per questo ache di New York. Per la maggior parte dell’anno Pechino è più calda che un qualsiasi posto in Italia, con primavere precoci e autunni tardivi. Essendo però affetta da un clima continentale, ed essendo direttamente confinante a Nord con il deserto del Gobi, e oltre con la Siberia, senza quasi nessuna barriera naturale del mezzo, c’è un momento in cui il Freddo arriva, e quando arriva, arriva duro. Quel che rende Pechino fredda è il vento. Arriva da Nord, come un rasoio, portando spesso con sé della sabbia, e in una notte abbassa la temperatura di dieci gradi. Ci si sveglia una mattina, e fuori c’è un sole meraviglioso; gli alberi però sono piegati, e le finestre, tutte le finestre di Pechino apparentemente, ululano come banshee, vuoi per superficialità nella costruzione, vuoi perché il vento che c’è qui non è un vento comune.

Ci si accorge della differenza, comunque, solo nel momento in cui si varca la porta di casa, e una folata ci sposta di mezzo metro congelandoci una metà del corpo. Fa freddo, ma tanto freddo. Così freddo, che uno non ci crederebbe nemmeno. Eppure è così. La temperatura normalmente è sui -5 gradi, ma spesso e volentieri dopo il tramonto scende a -10, con punte di -15 e -20 nelle nottate più fredde. Non è un freddo che vedi, perché la totale mancanza di umidità impedisce alla brina di imbiancare i prati e ai ghiaccioli di formarsi sui rami degli alberi. Sembra una normalissima giornata, a vederla. Il Freddo pechinese è un freddo che si sente e basta.

Camminando per strada, provi pietà per quei poverini costretti a stare all’aperto, come i bao’an, i guardiani, intabarrati nei loro giacconi imbottiti color verde militare o grigio scuro; o i venditori ambulanti, con i loro colbacchi in testa, le falde tirate giù a coprire le orecchie. Cammini e fai fatica, spinto dall’aria inclemente e appesantito dal montone, dai guanti, dal cappello, dagli scarponi, e dalla maglia di lana e da quell’indumento che mai avreste pensato di indossare, il maoku, una calzamaglia di lana pesantissima che è l’unica possibilità di sopravvivenza in un clima del genere. I pechinesi la portano da ottobre a marzo, voi giurate a voi stessi di metterla solo se necessario, ma meno di 30 giorni non ne potrete fare a meno, se dovete stare all’aperto più di dieci minuti per volta. Ed è allora, con questo sforzo sovrumano nel deambluare, che ci si rende conto che la lotta dell’uomo contro la natura non è ancora finita, e che l’Inverno può far paura.

E’ in quei momenti in cui la consapevolezza della propria fragilità davanti al mondo fa capolino che, stranamente, ci si sente vivi. E anche questo è uno dei motivi per cui amo Pechino.

2007-12-04

I genitori in visita

Viene un momento a lungo atteso e temuto per tutti coloro che abitano all’estero per lungo tempo, ovvero la visita della famiglia. E’ un esame, in un certo senso, perché toccherà dimostrare che la loro vita ha un senso nel posto in cui vivono, che ci sono delle ragioni credibili per cui costoro hanno deciso di porre la loro dimora dall’altra parte del mondo rispetto al luogo dove vivono i propri genitori.

E’ questa la promessa doverosa per raccontare l’arrivo dei miei genitori all’aeroporto di Pechino una mattina di dicembre. Ragione ufficiale: passare il Natale con il figlio cui un’azienda di stronzi non ha concesso le ferie. Ragione non detta: farsi un’idea del perché quel disgraziato d’un figlio si ostina a vivere nel Paese di Mezzo invece che nel Bel Paese che, anche solo dal nome, suonerebbe meglio come luogo di residenza.

I miei genitori hanno preso l’ultima volta l’aereo nel 1978, un anno prima della mia nascita. Destinazione: Malta. Mezzo: per una serie di tremendi imprevisti e problemi tecnici del velivolo originale che non poteva decollare, un bimotore operato dalla Air Pakistan. Da quel viaggio di nozze maledetto, nessuno dei due ha mai sentito il bisogno di mettere piede su un aereo, almeno, fino al dicembre del 2006.

La Cina non è Malta, il 2006 non è il 1978, né i velivoli della Air Pakistan sono gli stessi della KLM. Sta di fatto che il viaggio dei due signori italiani comincia con un’attesa di sei ore - dalle 18 alle 24 – all’aeroporto di Amsterdam per “problemi tecnici”. Il che non è neanche male, considerato che al ritorno la KLM non proverà nemmeno a decollare, piuttosto preferendo dirottare i passeggeri su un volo China Southern in partenza due sole ore dopo. Il tutto in un aeroporto incasinatissimo in cui nessuno pare parlar lingue intelligibili ai due signori italiani.

Il figlio non se la vede meglio, poiché è ben cosciente della sua situazione da esaminando e suda freddo ad ogni disguido. Suda anche perché i suoi non sono mai usciti dall’Europa, non viaggiano all’estero da più anni di quelli che ha lui, non parlano lingue straniere se non qualche frase di circostanza in francese e inglese, e sono anche abbastanza anzianotti.

Le tre settimane che seguono vedono i genitori accamparsi nell’appartamento del giovine, mettendo in riga la gestione casalinga – calcolo delle entrate e delle uscite mensili, pulizia di ogni singolo angolo dell’abitazione, training alla aiyi su cosa deve fare e come deve farlo (con conseguente stress anche della aiyi), ridefinizione totale della dieta del figlio sulle basi della cucina casalinga dell’Italia di una volta, planning della spesa per supportare meglio ordine e pulizia della casa e sanità della dieta.

Da parte sua, il figlio cerca di tirare i genitori fuori di casa e portarli a vedere le bellezze di questo Paese, nonostante fuori la temperatura sia svariati gradi sotto lo zero. Si comincia dalle attrazioni turistiche, con il figlio che si improvvisa guida turistica, storico dell’arte e archeologo. Poi il giro per le strade, con analisi socio-economica del contrasti tra i grattacieli di Chaoyang con gli hutong di Dongcheng. Poi i ristoranti, sia quelli di specialità cinesi (jiaozi, baozi, anatra laccata, zhajiangmian) che quelli internazionali (indiano, russo, tailandese, turco). Alla fine del tour, peraltro pianificato con attenzione machiavellica dal figlio, i genitori rimangono a bocca aperta dalle meraviglie di cui sono stati spettatori, considerato che già consideravano un’esperienza incredibile il caffè ricevuto ad Amsterdam, mezzo litro di brodaglia nera servito in un bicchiere di carta da Coca-Cola.

La visita dei genitori è uno stress per tutti, uno stress fisico e mentale per i genitori in visita nel Paese più insensato del Mondo; per il figlio che deve fare bella figura o almeno evitare che i suoi ritornino in patria evitando lavande gastriche, esaurimenti nervosi o arresti da parte della polizia locale; e per tutte le persone coinvolte nella loro relazione – aiyi, amici, fidanzata, parenti, ecc.

Niente comunque prepara al confronto finale, che capita più o meno il giorno prima della partenza dei genitori. Il tutto può cominciare con una frase detta distrattamente tipo “Allora, figliolo, quand’è che torni a casa definitivamente?”. Ne segue una discussione serratissima e snervante fatta di frasi diplomatiche il meno possibili offensive verso la parte avversa, ma al tempo stesso unilaterali nella loro presa di posizione.

“Ma alla fine cosa ci fai qui?

Non ti piacerà mica vivere dall’altra parte del Mondo?

Ma ti ricordi che a casa hai una famiglia che ti pensa?”

“Stare qui mi piace, ed effettivamente pensavo di fermarmici per un po’ ancora, diciamo qualche mese… o anno.

In Italia non troverei una posizione lavorativa così istruttiva e al tempo stesso remunerata.

In Italia? Ma state scherzando?”

La discussione, come sempre, si conclude quando entrambe le parti si autoconvincono di aver avuto la resa dell’altra. Il dibattito termina con sorrisi tirati e frasi diplomatiche, qualche abbraccio e gesto d’affetto. Nessuno dice nulla per paura di riaccendere la lotta. I genitori aspettano il figlio a casa a breve. Il figlio sa che ha l’approvazione dei suoi a stare quanto vuole. E allora, si vogliono tutti un gran bene, si perdonano i torti passati e si sta più attenti a quelli futuri.

E poi, c’è la partenza.

2007-11-29

I was doin’ time in the universal mind


Era tanto che cercavo un locale a Pechino di quelli che piacciono a me, lurido, grezzo e rocchettaro. Un bel giorno lo trovo, tramite suggerimento di un amico: si chiama Jiangjinjiu (疆进酒), un bar gestito da dei xinjianesi che prende il nome da un verso di una celebre poesia: alla fine del lungo viaggio verso il Xinjiang (新疆), la “Nuova Frontiera”, era tradizione bere un sorso di vino per celebrare la fine dell’impresa. Per l’appunto: 疆进酒.

Il bar è stato aperto nella piazza tra le Torri del Tamburo e della Campana, nella città vecchia, un luogo certo spettacolare. Il locale in sé è minuscolo, perennemente pieno, con tavolini e sgabelli spaiati uno attaccato all’altro, e un piccolo palco su cui, venerdì sabato e domenica, suonano musicisti d’ogni tipo, dai rocchettari ai punk, dai xinjianesi ai mongoli, dai chitarristi da flamenco a quelli da musica gitana. Come nella miglior tradizione, quando il gruppo ha terminato, chi vuole può continuare – c’è chi si è portato il tamburo, chi impugna il microfono, chi semplicemente batte l’anello sulla bottiglia di Qingdao. Al piano di sopra, alla fine di una scala ripida, c’è uno stanzino con tre divani circondati da cuscini, per l’afterparty. Un bancone sulla destra, e il cesso è quello pubblico di fuori, a una cinquantina di metri che d’inverno diventano mafan ma in fondo anche veramente caratteristici per un posto così.

La serata di gran lunga più indimenticabile al Jiangjinjiu capita con lo spettacolo di poesia organizzato dai quei fulminati dei Subterranean Poets. Ci sono tutti, il buon Federico con un cappello da gangster, il vecchio Ben con la sua fidanzata Sheila, c’è Zhou con i suoi occhiali dalla montatura pesante e la sua polo rossa da nerd, e Deep Sleep, il vate di pechino, vestito come lo sarebbe Jim Morrison se fosse nato cinese: lunga camicia di cotone blue troppo grande, con draghi bianchi disegnati ai lati, pantaloni neri attillati tipo Toreador, stivali di cuoio e sciarpa di seta nera drappeggiata attorno alle spalle. Lo spettacolo viene bene, al termine c’è una band di ragazzi dello Yunnan che suona unplugged e poi, quando la gente comincia a defluire, finalmente lo zoccolo duro comincia a darsi da fare. Va detto che a quell’ora siamo già quasi tutti alticci. Ben si impadronisce del bongo, e dimostra subito di padroneggiarlo bene. Uno dei ragazzi dello Yunnan jamma con la chitarra acustica. Zhou e Deep Sleep vocalizzano al microfono, poi Zhou tenta un maldestro approccio al tamburo. La gente batte le mani, Deep Sleep mi invita e io, credo in preda a mio animale guida, indosso una delle corde di perline di legno, caduta da una finestra, e la indosso al collo a mo’ di rosario buddhista, dandoci di vocalizzo con il vate che nemmeno in un monastero buddhista l’Om suona così intensa. L’atmosfera cresce. Zhou si alza e prende il microfono, io il tamburo e, schiena alla colonna, comincio a battere con le dita sul cuoio, mentre Ben passa il suo strumento a una ragazza del Suriname appena conosciuta, che si siede accanto a me. Non sono sicuro di quello che faccio, ma probabilmente il mio ritmo suona lo stesso di “In a Gadda da Vida” degli Iron Butterfly. La ragazza sorride, e mi segue. Il ragazzo xinjianese comincia con le variazioni sul tema e qualche assolo per rompere la monotonia, ed ecco che Zhou si fa possedere dagli déi del rock e dalla sua bocca esce il loro soffio.

“Beijing... “ sussurra con una voce che non è la sua, e sembra provenire dall’Inferno dei musicisti blues. La gente rimasta applaude o batte le bottiglie di birra sui tavoli. Zhou comincia un monologo da animale da palco, con la gente che urla risposte, chiede cos’è Pechino, chi sono i Pechinesi, chi sono i cinesi. Che cosa vogliono i cinesi. Zhou urla che vuole rispetto, e che vuole dire quello che vuole, e che vuole una donna per sé, perché non ce ne sono abbastanza per tutti. Chiede chi è che decide cosa sono i cinesi, e su questa domanda politicamente scorretta il pubblico esulta. Zhou segue l’onda, anche se si lascia trasportare dalla sua intellettualità, e si lancia in un’esecrazione dell’università e dell’educazione. Chi decide cosa è vero e cosa non lo è? Chi decide cosa va studiato e cosa no, cos’è la cultura?

“Fuck Aristotle!” grida Zhou “Fuck Confucius too!”

In quel momento lo adoro. Metà del pubblico è perplessa, ma dà fiducia al suo fuck e lo acclama. La voce di Zhou sale di tono, diventando confusa, roca e sempre più simile a quella di Kurt Cobain. Non c’è più dubbio, è il sacerdote e il dio della nostra cerimonia. Le mie dita battono sul cuoio del tamburo con una foga incosciente, in un crescendo mistico, le note della chitarra sempre più isteriche sgorgano dalle dita sottili del xinjianese, che non capisce una parola di inglese ma interpreta perfettamente il mood.

Zhou raggiunge il climax mandando affanculo tutti, ma proprio tutti senza risparmiare nessuno, né in cielo né in terra, né i vivo né i morti. La Rivoluzione vive tra noi, quella forza la cui essenza è il cambiamento tramite la distruzione del vecchio. Il pubblico è ipnotizzato.

“Fuck! Fuck! Fuck you!” urla lo sciamano prima di abbandonare il microfono. La musica si affievolisce. Deep Sleep prende lo scettro offertogli come un chierichetto, sorridente ma ovviamente offeso per essere stato escluso dal rito. La gente comincia a scuotersi dalla trance.

Niente più musica per stasera: abbandoniamo gli strumenti, e indossiamo le giacche a vento, con strette di mano e pacche sulla spalla sia tra amici che tra sconosciuti. Stasera s’è fatto rock, di quello vero, puro e duro. Ecco, questo era il posto che cercavo. Era anche ora che lo trovassi.

2007-11-24

Inverno negli Hutong


E' il 28 novembre 2006, ed è una di quelle giornate in cui uno è solo e, non sapendo che fare, fa una passeggiata nel freddo. Camminare per gli hutong è sempre un piacere, per la pace che se ne gode. Quando uno penetra nel labirinto delle vie, la densità degli edifici blocca immediatamente tutti i rumori esterni, e ci si trova chiusi tra due muri grigi, una strada pure grigia, e il cielo blu che sfuma nei colori di un lungo e pigro tramonto. E' in una giornata così che a uno viene voglia di scrivere poesie, o perlomeno qualcosa che si avvicini all'idea di poesia. E infatti io scrivevo:

"La fragranza dell’aria gelida nella strada mi penetra le narici. E’ aria secca, tagliente, che porta l’odore sottile del carbone bruciato. Il carbone che tricicli cigolanti ancora portano di casa in casa, per alimentare le stufe negli hutong. La gente cammina veloce, pensando alla propria casa, e percorre ignara la strada grigia, mentre l’Oriente rosa si fonde al blu dell’Occidente. Nella luce della sera che allunga le ombre, vecchi alberi ormai spogli pare pieghino i rami, come vecchi stanchi il cui capo cade sul petto mentre scivolano nell’incoscienza del riposo. Per mesi dormiranno, prima d’esser destati dal tepore primaverile venuto a interrompere il loro sonno sereno.

Le luci della case si accendono, vecchie lampade dalla luce tremolante, insegne colorate per attirar clienti. Da un forno di metallo sbatacchiato dal vento giunge odore di yangrouchuan’r. Le mani intirizzite scostano pesanti strisce di plastica che separano la strada dal ristorante, e attendono il contatto d’una tazza di tè caldo, in cui fiori secchi di gelsomino riprendan vita, infondendo l’aria tiepida nella stanza del loro profumo.


2007-11-17

Ipermercato

A Pechino non ci sono solo supermercati scrausi come il Jingkelong, ma anche ipermercati, alcuni appartenenti a catene straniere, che servono clienti più ad alto livello. Lavorando nel campo alimentare, ormai mi sono fatto una discreta cultura in termini di grande distribuzione, tuttavia non mi sono ancora abituato all’ipermercato cinese.

Di diverso da un normale iper italiano ci sono tante cose: anzitutto gli odori. Il cibo fresco sfuso la fa da padrone: grandi cassoni pieni di riso, di ravioli cinesi, di frutta e verdura. Banco carne titanico con macellaio intutato, guanti e mascherina che dà di mannaia su una carcassa d’animale, poi pesa il pezzo ancora sanguinolento e lo infila nel sacchetto per la sciura di turno. Banco rosticceria altrettanto titanico che serve qualunque xiaochi possibile, anche qui ragazzi e ragazze sui vent’anni o meno che servono una marea di clienti, e alle spalle gli impiegati un po’ più maturi che fanno le preparazioni. Pure qui guanti, cappello, mascherina. Il dubbio che la mascherina non sia solo per evitare che gli inservienti starnutiscono e scaracchino sulla merce, o ravanino nel proprio naso, è legittimo: probabilmente il maggior beneficio della maschera bianca è trattenere una parte degli odori del supermercato, che attaccano alle radici del naso e nella gola appena si entra.

Un secondo elemento di differenza sono le mosche. Sì, non si sa perché la sezione cibi freschi della maggior parte dei supermercati è il regno delle mosche, che volano liberamente per il punto vendita posandosi su tutto quello che riescono a trovare, mentre la gente fa finta di non vederle, per abitudine o semplice negazione tipicamente asiatica dell’imbarazzante evidenza.

Terza differenza sono gli scaffali pieni: non come in Italia, dove ogni prodotto ha il suo spazio, e ogni tanto se è esaurito lascia un buchetto triste nella parete fatta di scatole e pacchetti. Qui lo spazio è poco e va sfruttato al cento per cento, il che significa accatastare tutti i prodotti possibili uno sopra l’altro, con gran confusione rispetto alle etichette dei prezzi. La confusione è tra l’altro aumentata sia dai clienti che prendono il prodotto, lo esaminano curiosi per dieci minuti, poi lo rimettono a posto ma in un posto diverso da quello in cui era prima; sia dai cosiddetti merchandiser, quelli che vanno a controllare il prodotto della loro azienda sullo scaffale, risistemano i pacchetti se sono in disordine, e già che ci sono fanno in modo di riempire lo scaffale della loro merce coprendo quella dei concorrenti, acutamente spostata nei recessi meno raggiungibili al cliente; almeno fino a quando il merchandiser concorrente arriva e inverte le posizioni dei prodotti.

La differenza che però risulta più fastidiosa è la presenza dei promoter. Merchandiser e promoter ci sono anche in Italia, sono un’invenzione del marketing americano esportata poi in tutto il mondo. Ma mentre nei Paesi occidentali costoro sono relativamente rari, magari uno o due per punto vendita, in Cina ce ne sono a squadre, uno di fianco all’altro a farsi la concorrenza. Solitamente davanti ai bancali, dove il corridoio è più largo, ce n’è una fila interminabile. Quelli fortunati stanno in piedi davanti allo scaffale dove sono i loro prodotti; quelli meno fortunati hanno mascherina e guanti di plastica trasparente scomodissimi, un banchetto largo quaranta centimetri col logo dell’azienda e un’uniforme fuori misura con i colori e i loghi aziendali, spesso fatta in plastica così costa e si usura meno. Sul banchetto c’è alternativamente un piatto di plastica con un vasetto di stuzzicadenti, e il prodotto solido da far assaggiare tagliato a dadini talmente minuscoli che è impossibile capire il gusto; oppure il prodotto liquido servito in bicchieri di plastica da caffè, i più piccoli sul mercato, riempiti a un quarto della loro capacità.

Il comportamento tipico del consumatore cinese è quella di lanciarsi sul cibo o sulla bevanda appena entra nel suo raggio di visuale, strafogarsi il più possibile, non fare neanche finta di ascoltare il promoter, sgomitare per un po’ con i concorrenti nell’abbuffata e poi smettere di lottare, in modo da essere naturalmente trascinato dalla folla lontano dal banchetto.

La vita del promoter non è facile in Cina, e probabilmente per questo motivo gran parte dei promoter decide di rendere la vita impossibile a tutti gli altri esseri umani presenti nel punto vendita. E qui viene la grande differenza tra Occidente e Asia: perché il promoter, o più spesso la promoter, comincia a gridare a pieni polmoni una cantilena atta ad attrarre il cliente, con un tono il più possibilmente acuto, spesso puntando direttamente alle orecchie della vittima più vicina che si pente di aver girato la testa presentando scioccamente il padiglione auricolare al nemico. La reazione istintiva dello straniero, non abituato a questo genere di marketing, è quella si sferrare un pugno il più forte possibile verso la sorgente del fastidiosissimo rumore, ovvero la bocca della promoter; se ha la mascherina a coprire la bocca, colpire la mascherina, che comunque anche il mento o il naso come bersagli vanno benissimo.

Se uno non c’è mai stato, non può immaginare cosa significhi stare nel corridoio di fronte ai banchi, circondato da ragazze intutate in plastica che gridano acutissime una tiritera incomprensibile, magari in cinque che presentano cinque diversi prodotti, e due di esse dotate di microfono, mentre davanti le sciure cinesi col carrello si fermano ad assaggiare o ravanare nella cesta dei jiaozi freschi, dietro altre sciure cinesi spingono e si lamentano, e nel frattempo al di là del banco un tizio che pare in tenuta anti-guerra batteriologica maneggia la mannaia a mo’ di taglialegna per staccare un bel pezzo di carne rossa da una mezzena bovina che, a giudicare dall’odore, non è stata mai conservata a temperature più alte di dieci gradi, oppure discute ad alta voce, per sovrastare le promoter, con una sciura infuriatissima sul peso del pesce da lei ordinato che, per la cronaca, nel frattempo viene assalito da un nugolo di mosche.

Chi sopravvive a questo tipo di supermercato, senza cedere alle pulsioni violente, pur giustificatissime, può sopravvivere a tutto. C’è chi dice che la pace interiore si raggiunga isolandosi dal mondo sulla vetta di una montagna inaccessibile, recitando mantra su mantra. Ma sappiate che per raggiungere la pace interiore, la vera scuola è questa. Se potete uscire dal punto vendita con il sorriso, allora siete veramente vicini alla buddhità.

2007-11-13

Mantrastordite

Un bel giorno un mio amico, che chiameremo Alessio, mi racconta che è stato invitato da alcuni buddhisti a partecipare a un incontro, e mi estende l’invito per vedere se posso essere interessato a unirmi a questa piccola comunità di stranieri che praticano la via dell’Illuminato. Accetto subito, interessato come sono a vedere quali strane vie prende il misticismo in questo Paese.

Ho conosciuto Alessio tramite altri amici italiani, e la cosa che per prima mi viene in mente di lui è che possiede un fantastico Changjiang 750 di seconda o terza mano, corroso dai venti del deserto e con davanti una bella bandiera italiana e quattro stelle, le stelle dei Mondiali di Calcio vinti, a eterno scorno dei francesi che altro del resto non meritano. Se lo volete vedere di persona, lo trovate parcheggiato sotto l’Oriental Kenzo falso di Dongzhimen quasi tutti i giorni, visto che il mio amico lavora lì.

Orbene, io Alessio e un’altra sua amica sino-italiana ci troviamo un giovedì sera in Jianchang Hutong, nei pressi della vecchia Accademia Imperiale (国子监), in un complesso residenziale che ben conosco. Si tratta di obbrobriose villette a schiera costruite negli anni’60-’70 all’interno della Jianchang (箭厂), l’area di Pechino dove si concentravano i fabbricanti d’archi e si esercitavano i rampolli candidati al mandarinato e i guerrieri manciù. La grande piazza era già stata trasformata in Santa Barbara dai Giapponesi, e qualcuno poco dopo il 1953 decise di destinare lo spazio per la costruzione di case per i dipendenti della Biblioteca della Capitale, trasferita appunto in quell’anno entro le mura della vecchia Accademia feudale. All’inizio le case non erano altro che pingfang rancidissimi, poi vennero su le villette a schiera, che ben presto si ricoprirono di crepe, muffe, gabbie anti-ladro ed estensioni in mattoni, legno e plexiglass come nelle peggiori periferie del mondo. Quindi nel 1999 qualcuno decise di comprare gli schifi, demolire le parti aggiunte dai vecchi inquilini, restaurare le villette a schiera, aggiungere edera, bonsai e porte tonde e farle passare per case tradizionali restaurante chiamate “Yonghe Villa” (雍和别墅), una residenza moderna all’interno degli hutong di Pechino.

Non mi stupisce scoprire che all’interno vivono solo stranieri danarosi e non sinoparlanti, classici espatriati in cerca della “China Experience”, ma con piscina e TV via cavo. Il gruppo buddhista si riunisce appunto in una di queste villette a schiera, appartenente al membro più anziano, che scopro essere un’italiana sui quarant’anni. Insieme a lei altre due italiane più giovani, sui trenta, il che immediatamente mi mette in guardia – mi aspettavo buddhisti cinesi, e trovo un circolo di buddhiste all’amatriciana, tanto più che tutte hanno marcato accento romano, laziale, o comunque del Sud Italia. In qualche modo la calata con cui parlano mi porta immediatamente alla mente quel personaggio di Verdone, l’hippie che diceva “Cioè, tu non capisci che flash” con una canna in mano.

Quando arriviamo stanno sedute davanti a un altarino posizionato dentro un armadio, recitando il mantra “Namu Myoho Renge Kyo”. Siamo intimiditi, imbarazzati dall’interrompere la loro solenne meditazione. Una delle ragazze ci fa segno di sederci e seguire su un libretto che ha lo stesso aspetto dei libretti ecumenici che si trovano in chiesa, con la messa scritta. La meditazione finisce in un quarto d’ora, e quindi ci si siede attorno a un tavolo, con le tre buddhiste che ci danno il benvenuto con un’aria saputella che decisamente mi da’ ai nervi, insieme alla loro sciocca calata centro-italica che di solenne non ha nulla. Domande? chiedono. No, magari cominciate voi a parlare di questa cosa, diciamo noi.

Viene fuori che la scuola buddhista che le ragazze seguono è di ispirazione giapponese. Il membro anziano comunque la prende alla larga, assumendo che non sappiamo nulla di buddhismo, e la sua spiegazione suona più o meno così.

“Cioè. Molto molto prima di Gesù Cristo c’era Buddha, no? Buddha, che poi era solo uno dei Buddha, che si chiamava Sakyamuni, perché ce ne sono tantissimi, ricevette l’illuminazione, e diffuse il Buddhismo, che poi è la religione della pace interiore. In pratica Sakyamuni diceva che per raggiungere l’illuminazione bisogna farsi monaci, rinunciare a un sacco di cose, eccetera. Poi però è venuto questo Nichiren, che era un monaco giapponese, e lui meditava tantissimo. E in pratica, secoli dopo Sakyamuni, lui ha capito una cosa che nessun altro aveva capito prima: che per raggiungere l’illuminazione e avere la pace interiore non serve fare tutte queste cose, basta recitare un mantra, il Namu Myoho Renge Kyo, e questo è quello che facciamo. Cioé in pratica Nichiren ha rivoluzionato il Buddhismo e adesso non serve più farsi monaci, noi abbiamo provato e funziona”

Sorriso tirato. Loro si rendono conto del mio scetticismo, che si taglia col coltello nell’aria della stanza, ma non del fatto che forse ne so un po’ più di loro della materia. Apro con una domanda semplice per rompere il ghiaccio: “Che significa il mantra?”

“Beh, cioé, letteralmente significa “dedico la mia vita alla Legge del Sutra del Loto”... ma il significato non è importante, quello che conta è la concentrazione, bisogna recitarlo a lungo per capirlo”

Poche idee, ma confuse. Seconda domanda: “Quando meditate, a cosa pensate? Fate vuoto nella mente o vi concentrate su qualcosa?”

Le buddhiste si guardano, una dice “Ecco, questo vuole la ricetta subito”

“Quindi?” la incalzo io, impassibile.

“Cioè. Non devi pensare a cosa pensare, puoi pensare a quello che vuoi, basta che reciti il mantra”

“Mi stai dicendo che lasci la mente libera, che so, pensi al lavoro, ai tuoi problemi, a qualunque cosa?” sono confuso io, ora.

“Ma pensa a quello che vuoi, non la devi fare difficile! Puoi anche pregare per avere qualcosa. Cioè sei troppo prigioniero dei pensieri!”.

La donna è in difficoltà, e cerca di uscirne con un “Guarda, facciamo prima a farti degli esempi che a parlare di teorie”

Bella, a questo punto sono già rassegnato a sentire una serie di luoghi comuni da convertite, anche se nulla in effetti può prepararmi alle loro storie.

“Tipo, io volevo un aumento di stipendio. E pregavo ogni giorno per averlo”

Scusa, un aumento di stipendio? Vuoi un aumento di stipendio e ogni giorno preghi per quello? E saresti Buddhista?!?

“Beh, non l’ho avuto, allora dopo molti mantra sono andata dal mio capo e gli ho detto, o mi dai un aumento o me ne vado! Cioé il mantra mi ha dato fiducia, e mi ha fatto concentrare su quello che volevo veramente”

“Hai avuto l’aumento?” chiedo educatamente.

“No, sono stata licenziata” dice secca “Ma poi ho trovato un altro lavoro dove mi pagavano di più. Cioé, funziona!”

Sono basito.

“Questa casa, io l’ho vista su internet e mi sono innamorata. Mi sono impuntata e alla fine la mia azienda me l’ha pagata, anche se l’affitto era più alto di altre”

Complimenti, vorrei dire, è proprio la residenza che ti definisce come individuo. E tutto grazie al Buddhismo! Dov’è che devo firmare?

Un’altra le viene in aiuto: “Io ho cominciato a recitare Namu Myoho Renge Kyo, e ho capito che il mio lavoro non era quello volevo. Quindi mi sono licenziata e ho deciso di unirmi per un anno a un circo itinerante. All’inizio i miei genitori non l’hanno presa bene, loro sono del Sud e molto cristiani, ma poi hanno capito che il Buddhismo mi faceva felice”

Vorrei sbattere la testa contro il muro, a sentirle parlare. Queste non capiscono nulla del Buddhismo, si stordiscono recitando il mantra ogni sera, si danno coraggio a vicenda al solo di fine di essere ribelli e fare quel cazzo che vogliono, in un modo decisamente punk, che di punk ha tutto tranne lo stile, che invece è quello dei figli dei fiori arricchiti. Brave, pregate il Buddha per arricchirvi ed essere più soddisfatte della vita materiale. Ma che dico Buddha, tutto il loro misticismo si racchiude in una filastrocca giapponese il cui senso “non è importante”!

C’è tensione, provo ad essere educato ma credo che il mio scetticismo crei scariche eletriche random attorno al mio corpo modello “nube tempestosa”. Mi invitano a tornare. Vorrei rispondere che sì, sarei molto felice di stordirmi con loro cantando Namu Myoho Renge Kyo, o Hare Krsna, o anche Sheena is a Punk Rocker, perché comunque siamo lì, il concetto di fondo è lo stesso.

Ce ne andiamo. I miei compagni non dicono nulla, anche se è lampante che non ci credono. Ma è come se avessero un briciolo di rispetto per queste persone un po’ pazze ma spirituali. Io le manderei a imparare dai contadini come il buon vecchio Mao faceva. Se questo è Buddhismo ragazzi, io domani fondo una nuova religione.

Che dire? Paese che vai, scoppiati che trovi, quasi sempre italiani.

Sing Hare Krsna and Be Happy… ah, no, ho sbagliato. Whatever.

2007-10-18

Tassisti d'ogni genere

I tassisti sono una delle figure portanti di Pechino. Ne abbiamo già parlato (qui, qui e in tanti altri post), ma non ne parleremo mai abbastanza. Esiste certamente uno stereotipo di tassista pechinese, ovvero sporco, puzzolente, umorale al punto da cambiare gentile a scorbutico a seconda della luna, lamentoso, pettegolo, ma onesto e dal cuore d’oro. Nella realtà però le versioni del tassista pechinese iperuranico sono quantomai varie, e oggi racconteremo di due di esse, diverse come il giorno e la notte.

Incontro il signor Fan una bella mattina d’inverno, nei pressi del Landao. La prima cosa che noto è il suo numero di serie, che comincia con due zeri seguiti da un due. Mi sorride, poi alza la mano per salutare una persona che vede per strada, che contraccambia il saluto. “Da quanto tempo guidi il taxi?” gli chiedo. “Sedici anni” risponde candidamente. Il signor Fan, laobeijingren (
老北京人), ovvero pechinese DOC, di quelli veri, ha cominciato a guidare il taxi nel 1990. Vive a Chaowai, dove apparentemente conosce tutti, e tutti conoscono lui. Per non annoiarsi, ascolta le notizie del radiogiornale, e ama commentarle con i passeggeri. Infatti propone subito come argomento l’accordo tra Cina e Francia per l’acquisto di Airbus, e mi racconta orgoglioso che proprio quel giorno c’è il volo inaugurale del primo velivolo, il più grande aereo di linea al mondo, tra Pechino e Parigi. Personaggio singolare il signor Fan, pulito ed educato. Vedendomi in difficoltà con il mio mandarino, mi chiede come me la cavo con il Beijinghua, e senza indugi tenta di insegnarmi alcune espressioni tipiche. Manco a dirlo, conosce le strade della città come le sue tasche, comprese le scorciatoie più impensate attraverso i xiaoqu. Il tassista ideale.

Tutto il contrario di Zhang, il tassista che incrocio qualche giorno dopo, sulla via per un hotel nella zona olimpica. Zhang sembra appena uscito di prigione: è nero, grasso, sporco, con occhi pallati da maniaco e apparentemente incapace di parlare, ma solo di grugnire. Per circa cinque minuti mi studia, spostando gli occhi folli dalla strada a me. Poi sorprendentemente articola alcune parole in uno strano dialetto fatto di erre arrotate, impossibile da intendere. Anche se comprendessi del resto, farei finta di non parlare cinese. Senza smettere di guidare su Anwai, zigzagando tra le quattro corsie del nostro senso, Zhang apre un cassetto della macchina e ne estrae un fagottino, che svolge con una mano sporca e con le unghie del mignolo e del pollice lunghe un centimetro. Dentro c’è un anello in oro giallo, con al centro un pezzo di plastica in finta madreperla circondato da brillanti a go go, la cosa più pacchiana del mondo. Me la mostra con atteggiamento losco: so benissimo che è rubato, e se non è rubato è totalmente falso. Probabilmente tutti e due. Scuoto la testa, pretendendo di non capire, ma quello equivoca e pensa che metta in dubbio l’autenticità dei brillanti. Quindi per provarmela, sfrega l’anello sul parabrezza, creandovi una bella riga obliqua di una trentina di centimetri. Poi mi mostra di nuovo l’anello, come dire “Lo vedi che sono diamanti veri?”. Io contino a guardare incredulo il parabrezza sfregiato dall’interno. Adamantino io alla sua offerta d’acquisto, Zhang mette via la patacca e si mette a ravanare in un altro scomparto, cavandone un bel biglietto da visita rosa con la foto di una ragazza mezza nuda. Ammicca. “OK?”. Perfetto, sono le due del pomeriggio e questo vuole portarmi a troie. Continua a guidare, va’, Zhang, che se no ci andiamo a schiantare. Mi molla al mio hotel visibilmente deluso, e guida via, in cerca di un altro pollo. Ma guarda te che gente che prendono al giorno d’oggi per guidare i taxi.

Ogni volta che salite su un taxi a Pechino potrebbe essere l’inizio di un’avventura. Come tale prendetela, inutile fare i seri e i distaccati. Non saprete mai con quale strano personaggio state condividendo il veicolo. Se avete esperienze del genere e vi va, postate pure nei commenti la vostra avventura a bordo di Beijing Taxi. Pu-er-yi-si wei-le-ka-mu tu Bei-jing Ta-ke-xi... a-gei-ne.

2007-10-13

Passeggiando nella Storia

Il progetto Friends of Old Beijing è cominciato, e in qualche modo sono anche riuscito a farmi assegnare alla zona di fianco a casa, che era quella che più mi interessava – il cosiddetto “vicinato” del Tempio dei Lama e dell’Accademia Imperiale. Nel mio gruppo ci sono altre sei persone: Rory è un architetto irlandese, alto grosso e torvo, molto pignolo ma tutto sommato simpatico e bonaccione; sua moglie Varvara è russa e fa l’artista, e con i due figli vivono in un siheyuan non molto lontano; una seconda coppia che vive in un siheyuan sono Yann, ingegnere informatico francese e Helja, finlandese, che lavora per un progetto dell’Unione Europea. Infine ci sono due studenti di finanza cinesi, Aaron dal Liaoning e la piccola Isa da Urumqi. Il gruppo è eterogeneo sia come origini che età, e anche gli interessi sono i più disparati. Non sempre è face riuscire a coordinarsi su cosa fare, e del resto il CHP ci ha detto di guardarci attorno e raccogliere informazioni interessanti, proponendo un piano mensile e revisionandolo totalmente il mese dopo, come è costume tra i cinesi, nel processo buttando via metà del lavoro già fatto.

Tuttavia girare per il vicinato è interessantissimo, specie perché ciascun membro condivide le sue inormazioni con gli altri, io la storia, Rory l’architettura, Isa chiacchierando con la gente che vive negli hutong, e via così. Scopro una dimensione prima ignota negli hutong, non solo mi lascio andare al ritmo pigro e sereno dei vicoli, ma ora comunico con i loro abitanti, e comprendo la natura dei simboli nelle strade, la loro economia, il loro sviluppo nella storia, è un nuovo mondo che si svela ai miei occhi. Due sabati mattina al mese si cammina, scattando fotografie e raccogliendo informazioni di ogni tipo sull’area di nostra competenza. E’ così che scopro l’inaspettato – che il Tempio della Macchia di Cipressi, e in seguito il Tempio dei Lama, in passato costituivano il cuore di un complesso religioso buddhista enorme, fatto di dormitori per monaci e lama, magazzini, stalle, ostelli per i pellegrini, templi minori, negozi di incensi e amuleti, ristoranti vegetariani, senza contare lo sciame di ambulanti che il passaggio dei fedeli attirava, dai veggenti ai cercatori di nomi (quelli che danno i nomi ai bambini secondo l’oroscopo e l’Yijing), dagli acrobati ai venditori ambulanti, dai mendicanti ai tagliaborse. L’immenso movimento che si creava attorno a questa zona di Pechino veniva tenuto a bada da numerose guardie che, la sera, buttavano fuori dalle mura tutti gli indesiderati, e imponevano il coprifuoco alla città dell’Imperatore. Tutto questo, fino a poco più di cent’anni fa, a meno di un chilometro da casa mia.

La fine dell’Impero segna la decadenza del quartiere buddhista, considerato feudale, e la vittoria dei Comunisti pone fine in modo brutale a qualcosa che ormai, per gli abitanti di Pechino, era già quasi dimenticato. Nell’agosto del 1966 le Guardie Rosse rastrellano il vicinato, deportano lama e monaci in campagna, e li sostituiscono con uno sciame di famiglie contadine, infilate una per stanza in tutta la zona.

Troviamo un dormitorio di lama fatiscente, con ormai una sola famiglia anziana che ci vive. I muri rosa scrostati, il cancello murato e i leoni di pietra dimenticati in un angolo. Metà del complesso ha i vetri rotti, le pareti posticce di mattoni, edificate all’arrivo dei nuovi inquilini, ormai cadono a pezzi. Una signora anziana ci racconta che le altre famiglie hanno venduto il loro diritto alla stanza e si sono trasferiti in grandi palazzi in periferia, oltre il Quarto Anello. Lei vorrebbe rimanere, ma la proprietà è stata comprata da un’azienda edilizia i cui piani sono piuttosto oscuri: se non vende, sarà buttata fuori a calci, e allora tanto vale uscire con le buone e intascare qualche soldo di risarcimento. Alle spalle del dormitorio, con i suoi tetti ricurvi e fregiati di piccoli animali di pietra modellati secoli fa, troneggia un moderno palazzo di vetro a 15 piani, che proietta la sua ombra minacciosa sul bene culturale ormai forse spacciato.

Alle spalle del Tempio della Macchia di Cipressi un signore, originario dello Shanxi, ci racconta che sulle pareti di casa sua, costruita su una predella circondata da vecchi scalini, ci sono iscrizioni che identificano l’edificio come un Tempio al Dio dei Cavalli, dove si benedicevano le cavalcature dei viaggiatori prima e dopo un viaggio, un punto di sosta importante per tutti i pellegrini abbienti; ricostruisco a fatica la pianta del tempio, cercando di separare pareti originali e aggiunte posteriori, fino a scoprire una bella struttura simmetrica, con l’asse in linea con il Tempio più a sud; ora però una strada passa dove fino a 50 anni fa sorgeva l’ala orientale; l’entrata posteriore è stata murata, e ciò che rimane è stato occupato da circa sei famiglie, che hanno riempito il cortile di baracche costruite a ridosso di alberi secolari.

Nei pressi di Andingmen ci intrufoliamo senza chiedere in un cortile ingombro di detriti – tricicli, banchi di scuola, scaffali distrutti a copi d’ascia. Sulle pareti interne si vedono ancora slogan sbiaditi della Rivoluzione Culturale, nelle stanze il pavimento di legno scricchiola e alcune assi sono sfondate. L’edificio, dove ora dormono dei lavoratori migranti in condizioni inumane, una volta era la casa di qualche personaggio importante, ma ora il complesso è tagliato a metà da un muro di cemento, oltre il quale sorge un palazzo di 10 piani, orribile parallelepipedo grigio con finestre unte, panni stesi e grate ovunque. Pare già in rovina, pieno di crepe e annerito dallo smog, eppure i passanti ci assicurano che non è stato ultimato più di tre anni fa.

E’ una Pechino nuova quella che scopro, grattando sotto lo strato di storia pesante che ricopre tutto. La gente non parla di quello che avveniva prima di 30 anni fa, nessuno ne scrive, e così la memoria si perde. Ma ancora certe pagine si conservano, e i vecchi amano raccontare agli stranieri che chiedono, seduti all’ombra di un muro sotto il sole di dicembre. E’ così che trovo il filo che unisce la Pechino antica, città degli Imperatori, e quella moderna, in cui vivo io.

2007-09-20

Ti-la-mi-su

Il Maestro Kuang, grazie alla sua lunga esperienza nell’ambito agro-alimentare, ha per passione approcciato il mondo della cucina, e sebbene non si possa certo dire che sia un buon cuoco, ci sono delle ricette che conosce benino. La più famosa di esse, che ha sciolto numerosi flirt e reso estatici molti amici, è il Tiramisù. I cinesi vanno matti per il Tiramisù, lo conoscono tutti, il Ti-la-mi-su, qualunque ristorante un po’ trendy, anche quelli cinesi ma di classe, lo tengono in lista tra i dessert. E’ IL dessert per eccellenza, in Cina, insieme alla cheesecake americana.

Fare il Tiramisù in Cina non è cosa semplice: la cucina italiana si basa sugli ingredienti, e se questi non sono disponibili, oppure non sono quelli originali, il gusto necessariamente cambierà. Ecco la lista di tali ingredienti per 4 persone:

Crema:

Mascarpone 250g – lo so che lavoravo per loro e suona falso, ma ora non ci lavoro più e lo posso dire: il Mascarpone Galbani spacca. E’ più giallo e più cremoso, e non fa mai sorprese. In alternativa potete usare altri Mascarponi disponibili qui, come il Ciresa o quello della Metro. Attenzione a usare il Kapiti e altri mascarponi australiani e neozelandesi, non garantisco che abbiano stesso gusto e consistenza, quindi le dosi dovrete aggiustarle da voi. In ogni caso il 90% dei ristoranti/bar qui pensa che il Mascarpone sia troppo costoso, e quindi lo sostituisce con panna da montare.

2 Uova – Auguri. Chiunque è stato in un Paese normale ha capito che la catena del freddo è una grande invenzione che appartiene alla modernità recente. Chi lavora nel settore sa anche che tale catena è spesso un mito, perché pure in Italia col cazzo che le temperature giuste vengono rispettate dalla produzione alla vendita del prodotto. In ogni caso, attenzione alle uova in Cina: le trovate ovunque tranne che nel frigo, e non c’è verso di sapere da dove vengono e quanti giorni hanno. Una volta ci si doveva votare ai santi, ed è significativo che comunque in Cina anche le verdure crude siano guardate con sospetto, figuriamoci le uova; i cinesi cuociono tutto quello che mangiano. Ma oggi i tempi sono cambiati: siate intelligenti e affidatevi al popolo più anale del pianeta, i giapponesi, che nei supermercati di loro proprietà, 7/11 e Ito Yokado, hanno le uova marchiate con data e stoccate in frigo. Esistono, credeteci! Poi se provate il Tiramisù in un ristorante qualunque vi accorgerete che è sempre bianco, e non è solo per la panna invece del Mascarpone. Le uova a crudo sono illegali in Cina. Qualche chef italiano illuminato se ne frega e usa uova pastorizzate, qualcuno le pastorizza da sé (no, in cucina voi non potete farlo!), ma tutti gli altri si dimenticano allegramente l’ingrediente ingiallente.

Una bella cucchiaiata di Zucchero – andate a piacere, ricordatevi che il Tiramisù non deve essere mai, MAI troppo dolce. Nel dubbio addolcite di meno, assaggiate, e aggiungete se occorre. Manco a dirlo il Tiramisù alla cinese è maledettamente stucchevole.

Un goccio di Marsala Dolce – originariamente il Marsala si aggiungeva alla crema per disinfettarla da eventuali germi presenti nelle uova. Ora, lo so che il Marsala Dolce non si trova facilmente in Cina (lo vende solo la mia attuale azienda, haha!), per cui o chiamate il Maestro Kuang che vi fa avere una bottiglia, oppure vi arrangiate. Potete usare il Marsala Secco (ma il gusto è un po’ più forte), lo Zibibbo o la Malvasia Dolce (vanno benissimo), con molta fantasia anche qualunque vino liquoroso bianco, tipo Tokaij o Vin Santo (non ho mai provato, ma potrebbe essere interessante). In un momento di disperazione un giorno senza Marsala ho usato il brandy della Changyu, RMB 18 a bottiglia, e ragazzi non era male! Siate creativi, l’importante è che sia alcolico e dolce, non modificher il gusto generale più di tanto. Siccome in Cina non si usano le uova, non si usa nemmeno un alcolico per disinfettare.

Struttura

Savoiardi – finché ne riuscite ad usare. Il vantaggio dei savoiardi è che sono spugnosi, e quindi assorbono il caffé da Dio, sono croccanti, e quindi non diventano troppo molli, e che sono zuccherati, e quindi bilanciano bene la dolcezza del Tiramisù. Si trovano quasi ovunque, al Jenny Lou, al Carrefour, al Freshmart se siete a Shanghai. Molti usano la “sponge cake”, ma le mancano croccantezza e zucchero, e andrebbe usata per il pan di spagna e altre preparazioni. Ho conosciuto gente che, in mancanza d’altro, ha usato plum cake alla banana. Quel Tiramisù, quasi subito gettato nella spazzatura, credo che ancora ululi sul fondo di un pozzo in quel di Shanghai, gridando vendetta al cospetto di Dio.

Caffé – che sia espresso, per Dio. Il caffé espresso è il sangue del Tiramisù, senza quello nulla ha più senso. Eppure qui nessuno apparentemente collega espresso e Tiramisù. Chi usa il caffé usa quello americano. Se no semplicemente non lo usano, come la mia ex collega franco-vietnamita, che spacciava sé stessa come Marketing Director nel settore alimentare, e sosteneva che il Tiramisù si può fare con Mascarpone e Savoiardi e basta, il resto – caffé, cacao, ecc - è accessorio. Tralasciando che ho anche conosciuto italiani che usavano il caffelatte, fate un favore a voi stessi e difendete la vostra cultura. Se poi uno che ha sangue francese apre bocca tirategli un pugno.

Copertura

Cacao in polvere – confesso, non l’ho mai trovato. Uso il Nesquik, che è già zuccherato e contiene conservanti e porcherie a go-go. Se sapete dove trovare il cacao in polvere a Pechino lasciatemi un commento. Comunque il Nesquik va bene, se ben dosato non pesa troppo sull’armonia del dolce.

Una volta procurati gli ingredienti la ricetta è semplice: per la crema, montate a parte l’albume dell’uovo, e in una bacinella mescolate tuorlo, mascarpone, zucchero e marsala. Unitevi l’albume montato fino ad ottenere una crema giallo paglierino, omogenea e leggermente dolce. Intingete i saviardi in un piatto fondo pieno di caffé, in modo che si inzuppino ma non si sfaldino, e disponeteli in fila. Coprite con la crema, e via così, uno strato di biscotti e uno di crema. Coprite spolverando il cacao il polvere, mettete in frigo e consumate il giorno seguente.

Oppure andate in un bar, ordinate un Tiramisù, e mangiatevi il pan di spagna ripieno di panna montata, guarnito con del cacao e spesso con della crema al cioccolato e frutta, che vi hanno portato. E guardate i cinesi attorno a voi annuire gravi: “Ahh, Tilamisu, wery Italian dessert!”.


2007-09-16

Nuove Prospettive

Cerco un lavoro decente da mesi, un po’ come la maggior parte delle persone a Pechino. E’ strano che le posizioni disponibili siano package da espatriato strapagato con rimborso totale di ogni spesa, oppure contratto cinese da schiavo, senza vie di mezzo. Solitamente il package da espatriato si ottiene solo con la fiducia dell’azienda, che non si costruisce in Cina da zero.

Ma c’è un altro problema, più importante della paga: il modo di lavorare. Le aziende italiane sono piccole e caute, non rischiano mai. Per invadere il “mercato da un miliardo e mezzo di consumatori” loro investono in una persona neolaureata che lanciano dall’altra parte del mondo, solitamente con l’ordine “guardati attorno”. La persona non capisce nulla, vuoi perché la Cina è una Paese difficile, vuoi perché non ha esperienza, vuoi perché nessuno gli ha spiegato bene cosa deve guardare, forse perché nemmeno l’azienda lo ha be chiaro in mente. Il ragazzo scrive report su report, che nessuno legge. Alle aziende italiane interessano numeri, poi se la Cina ha una cultura diversa chissene, se si vende in Francia e Svizzera perché non in Cina? Il ragazzo scrive e-mail, a cui nessuno risponde. Fa telefonate, in cui di solito non trova la persona che sta cercando e che non lo richiamerà mai. Quando la trova, la persona in Italia non lo ascolta, non lo vuole capire, e per paura di quello che sta scoprendo sulle difficoltà del mercato cinese rimuove il tutto dalla memoria e si dà tempo. Magari tra sei mesi se ne capisce di più, tutto diventa più semplice. Ah, la proattività delle aziende italiane!

Di tanto in tanto il management italiano, ovvero il proprietario provinciale e ignorante e il suo manager “venuto su dal niente”, che ha cominciato da magazziniere e ora, dopo trent’anni, ha guadagnato la fiducia del capo ed è stato promosso ad “export manager” senza sapere nulla né di export, né di management, né di inglese, vengono a vedere di persona. Cosa? Nell’ordine: il mercato dei falsi, i ristoranti italiani, le troie. Può capitare che poi in tre giorni di visita sati fuori mezz’ora per un meeting, in cui gli italiani non fanno parlare il ragazzo ma si limitano a dare disposizioni unilaterali tipo “trova dei clienti” oppure “vediamo se qualcuno vuole fare una joint venture”. Poi ripartono, e si ridimenticano del mercato cinese.

Poi succede che la TV italiana lodi le aziende locali che invadono il mercato cinese, anche se, si ricorda un minuto dopo, la Cina illegalmente importa oni tipo di merce costruita da bambini e operai sfruttati e distrugge l’economia italiana. Eh, il presidente Hu incontra Bush e gli dice che non abbasserà lo “juan” o il “remmìmbi”, e comunque sono degli stronzi con il Falungong e i tibetani, arrestano i giornalisti (ma magari lo facessero in Italia!) e non c’è libertà. Questo in sitesi il rapporto dell’Italia con la Cina.

Mi capita però di ricevere una telefonata di Santo, un amico che lavorava al Bookworm ed ora si è riciclato come manager del Courtyard, il ristorante più elegante della città. Pare che possa saltare fuori un lavoro, un amico gli ha presentato uno che forse vuole aprire un’azienda, e Santo a sua volta me lo vuole far conoscere. Tentar non nuoce.

Eccomi davanti al Courtyard, in versione presentabile, giacca cravatta e camicia stirata. Salgo le scale fino alla porta di vetro, entro nella sala bianchissima, coperta di dipinti d’arte moderna più che gradevole, raffiguranti donne cinesi in tensione tra modernità e tradizione, guardo oltre la parete a vetri da cui si ammirano il fossato e il muro della Città Proibita, e poi chiedo di Santo. Lo vedo affacciarsi da una scala a chiocciola di legno, e lo seguo al piano superiore dove, oltre una porta in legno, c’è la Cigar Room, un salotto in stile coloniale con poltrone in pelle di almeno trent’anni, vecchi quadri di pittori cinesi e una bella testa di buddha in pietra. Tutta la parete a sinistra è una vetrata che dà sulla Donghuamen.

Davanti a me, seduto su uno dei divani, un uomo sulla cinquantina. Pacato, elegante, gentile, si presenta e presenta il suo progetto. Lo ascolto a lungo, e tutto quello che sento sembra stranamente avere un senso. Che si tratti veramente di un imprenditore illuminato? Uno che non viene in Cina con tre lire per arricchirsi in sei mesi, per conquistare il Paese, per invadere il mercato, e poi tornarsene a casa con un fallimento alle spalle? Uno che ha capito che gli italiani in Cina possono solo lavorare sulla qualità, e non sul prezzo? Uno che ha capito che per lavorare bene bisogna stare bene, rispettare le persone e trattarle con dignità? Pare proprio di sì. Il mio uomo denota pazienza, acume, cognizione di causa. Quando ha finito la sua presentazione e io la mia, il mio commento è molto franco. “Offrimi le stesse condizioni che mi danno al momento, e sono con te”. Accetta senza troppa esitazione. La simpatia e la stima sono reciproche.

Io, Santo e il mio futuro capo brindiamo all’incontro con un bicchiere di vino. Se nelle prossime settimane non succedono disastri, dirò addio al business della carne suina, che francamente cominciava a disgustarmi, e comincierò quello del succo di Bacco.

Allora, alla Salute!

2007-09-08

Day day up

Uno dei rischi di vivere in un Paese alieno è quello di adattarsi troppo e perdere la propria identità, quello che la CIA, in riferimento ai propri agenti, chiama “going native”. Qualcuno ci casca anche qui, e non è bello.

Mi capita di rivedere Dom, l’australiano conosciuto alla festa dello Yoga Yard, una sera di novembre. Sta sempre studiando cinese in scuole coreane, e per mantenersi insegna inglese ai cinesi. Vive sempre nel suo appartamento di Wudaokou con la coppia afro-singaporeana. Ma le cose non vanno bene.

Dom è una macchina: studia, insegna, studia, insegna, mangia, dorme, ricomincia. Esce, quando capita, una volta ogni tre mesi, se no sta a casa con un dabao e un libro di grammatica cinese. Con la sparizione dei neri in Sanlitun non riesce nemmeno a reperire hashish, così affoga la sua stanchezza in una lattina di Yanjing.

Sarà per questo che non sta bene. Mi racconta di come sia cotto per una ragazza coreana, e di come tutta la sua scuola lo veda come un nemico pubblico, di come chiunque gli parli alle spalle, di come anche il professore lo umili pubblicamente per un qualche scopo misterioso. Anche a casa la situazione diventa pesante, e la coppia con cui vive parla sempre meno con lui e sempre più di lui. E’ come se qualcosa stia succendendo, qualcosa riguardante lui di cui tutti sanno tranne il diretto interessato. Non si sente a suo agio.

Gli consiglio di uscire di più – studia troppo, esce troppo poco, non ha amici stretti e non vede la sua famiglia da mesi, è normale che il suo cervello reagisca con complessi di persecuzione. No, non è possibile, mi dice, deve assolutamente passare l’esame di cinese – vuole una votazione alta per trovare un buon lavoro, per poter essere ricco e godere finalmente di un buon stato sociale, non essere più lo straniero strano e squattrinato ma il rispettabile avvocato australiano, e allora anche la ragazza coreana, che lo ama ma non può sbilanciarsi con lui, non avrà più remore sociali a mettersi con lui e insieme coroneranno la loro storia d’amore. L’unica è studiare, studiare, studiare, e interrompere solo per insegnare, e in tal modo pagare l’affitto e il dabao. Se uscisse di più sprecherebbe tempo per studiare e soldi, che dovrebbe recuperare insegnando. 好好学习,天天向上, cita uno slogan di Mao Zedong, “Studiare bene, migliorare ogni giorno”. La frase ha una ritmica tipica da Rivoluzione Culturale, nella mia mente evoca immagini di oceani di ragazzini con il fazzoletto rosso, tutti uguali, che ballando scattosi e marziali, inneggiano alla perdita dell’individualità nel Grande Conformismo Totalitario.

L’ho detto, è una macchina. Lo guardo, non riesco a commentare il delirio di monologo che ha appena effettuato. Forse se avessi davanti un asiatico potrei compatirlo, ma qui parliamo di Dom, Cristo.

“Forse a furia di stare con i coreani sto diventando coreano anche io” ammette, per rompere il mio silenzio.

Mi viene in mente una canzone dei No Use For A Name, appropriatamente intitolata “I’m Turning Japanese”

No sex, no drugs, no wine, no women

No fun, no sin, no you

No wonder it's dark

Everyone around me's a total stranger

Everyone avoids me like a cyclone ranger

Everyone


“Sì, caro mio” gli dico infine “non sei coreano; non sei cinese e nemmeno giapponese. Non è che devi per forza vivere nel lusso degli espatriati, sorseggiando champagne in un completo da ufficio. Ma nemmeno degradarti così – è inumano”

Dom intuisce che ho ragione, annuisce. “Va bene” decide infine “finito l’esame, basta con questa vita”

“Quando hai l’esame?” chiedo.

“Tra otto mesi” risponde candido.

Oooocchei.

That's why i'm turning Japanese, I think I'm turning Japanese

I really think so

I'm turning Japanese, I think I'm turning Japanese

I really think so

I'm turning Japanese, I think I'm turning Japanese

I really think so

I'm turning Japanese, I think I'm turning Japanese

I really think so