2007-09-16

Nuove Prospettive

Cerco un lavoro decente da mesi, un po’ come la maggior parte delle persone a Pechino. E’ strano che le posizioni disponibili siano package da espatriato strapagato con rimborso totale di ogni spesa, oppure contratto cinese da schiavo, senza vie di mezzo. Solitamente il package da espatriato si ottiene solo con la fiducia dell’azienda, che non si costruisce in Cina da zero.

Ma c’è un altro problema, più importante della paga: il modo di lavorare. Le aziende italiane sono piccole e caute, non rischiano mai. Per invadere il “mercato da un miliardo e mezzo di consumatori” loro investono in una persona neolaureata che lanciano dall’altra parte del mondo, solitamente con l’ordine “guardati attorno”. La persona non capisce nulla, vuoi perché la Cina è una Paese difficile, vuoi perché non ha esperienza, vuoi perché nessuno gli ha spiegato bene cosa deve guardare, forse perché nemmeno l’azienda lo ha be chiaro in mente. Il ragazzo scrive report su report, che nessuno legge. Alle aziende italiane interessano numeri, poi se la Cina ha una cultura diversa chissene, se si vende in Francia e Svizzera perché non in Cina? Il ragazzo scrive e-mail, a cui nessuno risponde. Fa telefonate, in cui di solito non trova la persona che sta cercando e che non lo richiamerà mai. Quando la trova, la persona in Italia non lo ascolta, non lo vuole capire, e per paura di quello che sta scoprendo sulle difficoltà del mercato cinese rimuove il tutto dalla memoria e si dà tempo. Magari tra sei mesi se ne capisce di più, tutto diventa più semplice. Ah, la proattività delle aziende italiane!

Di tanto in tanto il management italiano, ovvero il proprietario provinciale e ignorante e il suo manager “venuto su dal niente”, che ha cominciato da magazziniere e ora, dopo trent’anni, ha guadagnato la fiducia del capo ed è stato promosso ad “export manager” senza sapere nulla né di export, né di management, né di inglese, vengono a vedere di persona. Cosa? Nell’ordine: il mercato dei falsi, i ristoranti italiani, le troie. Può capitare che poi in tre giorni di visita sati fuori mezz’ora per un meeting, in cui gli italiani non fanno parlare il ragazzo ma si limitano a dare disposizioni unilaterali tipo “trova dei clienti” oppure “vediamo se qualcuno vuole fare una joint venture”. Poi ripartono, e si ridimenticano del mercato cinese.

Poi succede che la TV italiana lodi le aziende locali che invadono il mercato cinese, anche se, si ricorda un minuto dopo, la Cina illegalmente importa oni tipo di merce costruita da bambini e operai sfruttati e distrugge l’economia italiana. Eh, il presidente Hu incontra Bush e gli dice che non abbasserà lo “juan” o il “remmìmbi”, e comunque sono degli stronzi con il Falungong e i tibetani, arrestano i giornalisti (ma magari lo facessero in Italia!) e non c’è libertà. Questo in sitesi il rapporto dell’Italia con la Cina.

Mi capita però di ricevere una telefonata di Santo, un amico che lavorava al Bookworm ed ora si è riciclato come manager del Courtyard, il ristorante più elegante della città. Pare che possa saltare fuori un lavoro, un amico gli ha presentato uno che forse vuole aprire un’azienda, e Santo a sua volta me lo vuole far conoscere. Tentar non nuoce.

Eccomi davanti al Courtyard, in versione presentabile, giacca cravatta e camicia stirata. Salgo le scale fino alla porta di vetro, entro nella sala bianchissima, coperta di dipinti d’arte moderna più che gradevole, raffiguranti donne cinesi in tensione tra modernità e tradizione, guardo oltre la parete a vetri da cui si ammirano il fossato e il muro della Città Proibita, e poi chiedo di Santo. Lo vedo affacciarsi da una scala a chiocciola di legno, e lo seguo al piano superiore dove, oltre una porta in legno, c’è la Cigar Room, un salotto in stile coloniale con poltrone in pelle di almeno trent’anni, vecchi quadri di pittori cinesi e una bella testa di buddha in pietra. Tutta la parete a sinistra è una vetrata che dà sulla Donghuamen.

Davanti a me, seduto su uno dei divani, un uomo sulla cinquantina. Pacato, elegante, gentile, si presenta e presenta il suo progetto. Lo ascolto a lungo, e tutto quello che sento sembra stranamente avere un senso. Che si tratti veramente di un imprenditore illuminato? Uno che non viene in Cina con tre lire per arricchirsi in sei mesi, per conquistare il Paese, per invadere il mercato, e poi tornarsene a casa con un fallimento alle spalle? Uno che ha capito che gli italiani in Cina possono solo lavorare sulla qualità, e non sul prezzo? Uno che ha capito che per lavorare bene bisogna stare bene, rispettare le persone e trattarle con dignità? Pare proprio di sì. Il mio uomo denota pazienza, acume, cognizione di causa. Quando ha finito la sua presentazione e io la mia, il mio commento è molto franco. “Offrimi le stesse condizioni che mi danno al momento, e sono con te”. Accetta senza troppa esitazione. La simpatia e la stima sono reciproche.

Io, Santo e il mio futuro capo brindiamo all’incontro con un bicchiere di vino. Se nelle prossime settimane non succedono disastri, dirò addio al business della carne suina, che francamente cominciava a disgustarmi, e comincierò quello del succo di Bacco.

Allora, alla Salute!

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