2007-12-29

La Liberazione dei Pesci

E’ un pomeriggio di dicembre, e il Grande Freddo è arrivato da un paio di giorni. I laghi di Shichahai sono ghiacciati, e io cammino sulle sponde di Houhai con i miei, quando mi trovo davanti una scena curiosa: nella strada si raccoglie una piccola folla, fatta di adulti ma anche numerosi bambini che rovistano chinati in una pozzanghera non ghiacciata, bloccando il traffico di auto che inutilmente suonano il clacson.

Avvicinandomi noto nella pozzanghera una miriade di piccole creature: all’inizio mi sembrano grossi vermi neri, oppure girini, ma mio padre li riconosce al volo. Sono piccole anguille che sguazzano nel gelo invernale. Poco lontano, un triciclo carico di sacche d’acqua contenenti pesci d’ogni genere, grandi e piccoli. Una delle sacche è caduta, e il suo contenuto si è sparso sulla strada. La gente si congela le mani cercando a fatica di raccogliere una a una le anguille, e le getta nel lago che, ghiacciato com’è, non offre l’ambiente ideale per dei pesci. Un ragazzo cinese sui vent’anni ha un’idea brillante: prese due scope, di quelle cinesi corte, le lega con uno straccio ottenendone uno strano oggetto contundente che ricorda un nunchaku di dimensioni sbagliate. Lo solleva e, dal bordo del lago, ne colpisce la superficie bucando lo strato di ghiaccio e permettendo alle sfortunate creature di tornare all’elemento che più si confarebbe a loro, non fosse per la temperatura. I piccoli serpenti nuotano verso il basso fino a scomparire nell’acqua nera. Nel frattempo, la folla è cresciuta alimentandosi di curiosi: turisti stranieri, abitanti del vicinato, semplici passanti.

Quando l’ultima anguilla è stata salvata, le macchine possono riprendere a circolare, e la folla si accalca sulla balaustra del lungolago. E’ allora che noto altri due tricicli carichi di pesci insaccati, che altri ragazzotti scaricano con ben poca grazia sulle rive formando una lunga fila. In quel momento alla folla si aggiunge la figura più di nota – non intabarrata in una giaccavento, ma in una semplice veste arancione, stivaletti gialli e cranio rasato. E’ un monaco buddhista.

La gente gli fa spazio, e questo si avvicina alla balaustra. In molti gli fanno gesti di reverenza. Il monaco estrae un libro scritto in tibetano e comincia a recitare mantra. La folla abbassa il capo, e una vecchia signora con un pezzo di carta in mano, una pagina plastificata con un’immagine di un buddha d’oro e svariate scritte cinesi, prende a girare qua e là benedicendo prima le sacche dei pesci, poi la gente.

Allora tutto assume più chiarezza. Il Buddhismo si basa sulla legge del karma, che insegna che ogni causa ha un effetto, e ogni effetto ha la sua radice in una causa. Poiché le buone azioni portano buone conseguenze, da millenni in Cina si pratica il rito della liberazione dei pesci: la gente compra un pesce al mercato e, invece di cucinarlo, lo fa ritornare alle sue acque facendogli dono della vita. La stessa legge di causa effetto, tuttavia, fa anche sì che a seguito del rito frequente nasca un giro d’affari notevole di gente che cattura i pesci per poterli vendere a chi li vuole liberare, vanificando le buone intenzioni. Ma questo la chiesa buddhista solitamente se lo dimentica. Ma torniamo a noi.

Il monaco recita i mantra tibetani a ruota, nel silenzio della folla immersa in riverenza dell’occasione solenne. Molti stanno a capo chino a seguire la voce monotona del religioso, altri semplicemente osservano aspettando di vedere i pesci liberati. Il tutto si protrae a lungo, finché molti dei curiosi se ne vanno. Tra di essi ci siamo anche noi. Giungo le mani in segno di rispetto per il monaco, la sua comunità e il suo rito, e me ne vado per la strada insieme ai miei.

Abbiamo percorso una cinquantina di metri quando un clamore attira la nostra attenzione. Dalla folla immersa in meditazione un attimo prima si alzano grida, qualcuno è visibilmente alterato, altri ridono imbarazzati alla maniera asiatica. Un uomo se ne va di fretta, sul suo viso si legge un misto di rabbia e vergogna. Mentre cammina veloce verso di noi, le grida continuano. Lo osservo bene, mentre ogni tanto si volta a dare un’occhiata alla folla che lo insulta. E poi attraverso il riverbero del sole al tramonto colgo il dettaglio fondamentale: l’uomo regge sulla spalla una canna da pesca. Si ferma a un centinaio di metri, con l’aria di chi si sente offeso senza ragione, e getta la sua lenza, sempre lanciando occhiate furtive verso la folla, che riprende il rito.

Per ogni causa c’è una conseguenza. Per ogni conseguenza, una causa. Questa è la legge universale rivelata dal buddha. Curiosamente, in Cina, questa legge sembra funzionare in maniera meno ovvia e prevedibile che altrove, o forse è la gente che la interpreta in modo diverso. Cosa commenterebbe il buddha? Forse farebbe finta di niente, proprio come i suoi fedeli che recitano imperterriti i mantra sacri; come il pescatore, che guarda ora la lenza ora i fedeli; o come me, che scuoto la testa, ormai quasi abituato ad essere stupito ogni giorno, e riprendo il mio cammino con uno strano sorriso.

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