Viene un momento a lungo atteso e temuto per tutti coloro che abitano all’estero per lungo tempo, ovvero la visita della famiglia. E’ un esame, in un certo senso, perché toccherà dimostrare che la loro vita ha un senso nel posto in cui vivono, che ci sono delle ragioni credibili per cui costoro hanno deciso di porre la loro dimora dall’altra parte del mondo rispetto al luogo dove vivono i propri genitori.
E’ questa la promessa doverosa per raccontare l’arrivo dei miei genitori all’aeroporto di Pechino una mattina di dicembre. Ragione ufficiale: passare il Natale con il figlio cui un’azienda di stronzi non ha concesso le ferie. Ragione non detta: farsi un’idea del perché quel disgraziato d’un figlio si ostina a vivere nel Paese di Mezzo invece che nel Bel Paese che, anche solo dal nome, suonerebbe meglio come luogo di residenza.
I miei genitori hanno preso l’ultima volta l’aereo nel 1978, un anno prima della mia nascita. Destinazione: Malta. Mezzo: per una serie di tremendi imprevisti e problemi tecnici del velivolo originale che non poteva decollare, un bimotore operato dalla Air Pakistan. Da quel viaggio di nozze maledetto, nessuno dei due ha mai sentito il bisogno di mettere piede su un aereo, almeno, fino al dicembre del 2006.
La Cina non è Malta, il 2006 non è il 1978, né i velivoli della Air Pakistan sono gli stessi della KLM. Sta di fatto che il viaggio dei due signori italiani comincia con un’attesa di sei ore - dalle 18 alle 24 – all’aeroporto di Amsterdam per “problemi tecnici”. Il che non è neanche male, considerato che al ritorno la KLM non proverà nemmeno a decollare, piuttosto preferendo dirottare i passeggeri su un volo China Southern in partenza due sole ore dopo. Il tutto in un aeroporto incasinatissimo in cui nessuno pare parlar lingue intelligibili ai due signori italiani.
Il figlio non se la vede meglio, poiché è ben cosciente della sua situazione da esaminando e suda freddo ad ogni disguido. Suda anche perché i suoi non sono mai usciti dall’Europa, non viaggiano all’estero da più anni di quelli che ha lui, non parlano lingue straniere se non qualche frase di circostanza in francese e inglese, e sono anche abbastanza anzianotti.
Le tre settimane che seguono vedono i genitori accamparsi nell’appartamento del giovine, mettendo in riga la gestione casalinga – calcolo delle entrate e delle uscite mensili, pulizia di ogni singolo angolo dell’abitazione, training alla aiyi su cosa deve fare e come deve farlo (con conseguente stress anche della aiyi), ridefinizione totale della dieta del figlio sulle basi della cucina casalinga dell’Italia di una volta, planning della spesa per supportare meglio ordine e pulizia della casa e sanità della dieta.
Da parte sua, il figlio cerca di tirare i genitori fuori di casa e portarli a vedere le bellezze di questo Paese, nonostante fuori la temperatura sia svariati gradi sotto lo zero. Si comincia dalle attrazioni turistiche, con il figlio che si improvvisa guida turistica, storico dell’arte e archeologo. Poi il giro per le strade, con analisi socio-economica del contrasti tra i grattacieli di Chaoyang con gli hutong di Dongcheng. Poi i ristoranti, sia quelli di specialità cinesi (jiaozi, baozi, anatra laccata, zhajiangmian) che quelli internazionali (indiano, russo, tailandese, turco). Alla fine del tour, peraltro pianificato con attenzione machiavellica dal figlio, i genitori rimangono a bocca aperta dalle meraviglie di cui sono stati spettatori, considerato che già consideravano un’esperienza incredibile il caffè ricevuto ad Amsterdam, mezzo litro di brodaglia nera servito in un bicchiere di carta da Coca-Cola.
La visita dei genitori è uno stress per tutti, uno stress fisico e mentale per i genitori in visita nel Paese più insensato del Mondo; per il figlio che deve fare bella figura o almeno evitare che i suoi ritornino in patria evitando lavande gastriche, esaurimenti nervosi o arresti da parte della polizia locale; e per tutte le persone coinvolte nella loro relazione – aiyi, amici, fidanzata, parenti, ecc.
Niente comunque prepara al confronto finale, che capita più o meno il giorno prima della partenza dei genitori. Il tutto può cominciare con una frase detta distrattamente tipo “Allora, figliolo, quand’è che torni a casa definitivamente?”. Ne segue una discussione serratissima e snervante fatta di frasi diplomatiche il meno possibili offensive verso la parte avversa, ma al tempo stesso unilaterali nella loro presa di posizione.
“Ma alla fine cosa ci fai qui?
Non ti piacerà mica vivere dall’altra parte del Mondo?
Ma ti ricordi che a casa hai una famiglia che ti pensa?”
“Stare qui mi piace, ed effettivamente pensavo di fermarmici per un po’ ancora, diciamo qualche mese… o anno.
In Italia non troverei una posizione lavorativa così istruttiva e al tempo stesso remunerata.
In Italia? Ma state scherzando?”
La discussione, come sempre, si conclude quando entrambe le parti si autoconvincono di aver avuto la resa dell’altra. Il dibattito termina con sorrisi tirati e frasi diplomatiche, qualche abbraccio e gesto d’affetto. Nessuno dice nulla per paura di riaccendere la lotta. I genitori aspettano il figlio a casa a breve. Il figlio sa che ha l’approvazione dei suoi a stare quanto vuole. E allora, si vogliono tutti un gran bene, si perdonano i torti passati e si sta più attenti a quelli futuri.
E poi, c’è la partenza.
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