2006-09-29

A spasso per Pechino

La voce riportata dalla madre di Massimiliano si rivela per fortuna infondata. Le strade sono quelle di sempre. Leggiamo i quotidiani su internet, e al di là di notizie vaghe, non c’è nulla di cui preoccuparsi. L’Italia titola “Epidemia killer in Cina, migliaia i malati”. Migliaia di malati su un miliardo e quattrocento milioni di persone. A Pechino i malati sono meno di mille, i morti meno di un centinaio, su tredici milioni di abitanti (registrati). In Italia qualcuno non nota che l’influenza normale nella stessa stagione colpisce alcune centinaia di milioni di cinesi e ne stronca alcune decine di migliaia. A Milano qualcuno si dimentica che la meningite, quella stessa primavera, miete qualche decina di vittime in un’area urbana che è forse un terzo di Pechino, ma quelli sono problemi di casa scomodi. Per la stampa della nostra libera democrazia è meglio focalizzare l’attenzione sul grande male che è la Cina, la Cina cattiva che sfrutta i bambini e ruba il lavoro ai grandi in Italia. La Cina sporca che infetta il mondo con la peste, la Cina untrice.

Il punto di rottura però è raggiunto: da un lato chiudo immediatamente ogni mio rapporto con gli italiani, e anzi mi prendo gli ultimi giorni a Pechino per visitare i monumenti non ancora visitati. Dall’altro, comincio a mettermi la mascherina e ad evitare la metropolitana, perché lo spettro l’ho sentito anch’io, accarezzarmi la spina dorsale con la sua mano gelida. Sono i giorni della Peste, ed esser razionali comincia ad esser difficile.


Percorro Pechino a piedi, com’è giusto che sia percorsa. Potevo prendere la bicicletta di Massimiliano, la bicicletta che ha comprato nel negozietto accanto al Poachers per la bellezza di sedici euro. Purtroppo l’unica volta che l’ho provata sono cascato: impossibile da manovrare, sbilanciatissima. E comunque dopo due settimane ha perso il pedale destro; la settimana dopo quello sinistro si è staccato. Alla fine del mese il sellino cascava. Non ricordo neanche che fine abbia fatto. Meglio a piedi, decisamente, dei miei piedi mi fido.


Vedo la Città Proibita nel suo lusso sconfinato, nei suoi cortili ordinati secondo la gerarchia di chi li abitava. Visito il Tempio del Cielo, con il suo parco ora fiorito a lavanda, con i vecchi che fanno taijiquan e i giovani che si tengono per mano sulle panchine. Passeggio per gli hutong senza tempo, con i loro panni stesi, con la gente che gioca a scacchi su tavolini minuscoli, con i cortili pieni di rottami di mobili, tappeti e biciclette di proprietà di dieci famiglie che vivono dove un tempo ne viveva una, spartendosi le stanze del siheyuan. Mangio i zhajiangmian (炸酱面), le tagliatelle tipiche di Pechino, nel ristorante più antico e famoso, il Lao Beijing Zhajiangmian Dawang (老北京炸酱面大王), il “Re delle Tagliatelle della Vecchia Pechino”.


Dopo tre giorni così ho le scarpe consumate, i piedi piagati ma il cuore leggero. Sono quasi pronto a partire.

La SARS


A febbraio la notizia l’aveva data Christian, sempre informato sugli eventi attorno a noi tramite i giornali internazionali. “A Hongkong pare sia scoppiata un’epidemia di una malattia sconosciuta. Pensa se arriva anche qui”. Ne ridevamo, a febbraio. Poi la malattia si è spostata in giro per l’Asia, ed è arrivata anche a Pechino.

Il governo non ha detto nulla, ma le voci hanno cominciato a girare. Ogni giorno, la notizia di qualche ammalato in più, non verificabile. Uno spettro, quello della SARS, che incombeva ogni giorno su di noi. All’inizio non le si dava peso, e come dargliene? I cinesi non ne avevano mai sentito parlare. Leggevi i quotidiani stranieri con titoli da prima pagina, e poi ti guardavi attorno e vedevi la vita di tutti i giorni. La gente che sputa, quella che starnutisce senza mettere la mano davanti, quella che ti tossisce addosso. “Loro vivono qui, ne sapranno più di noi. Se loro non hanno paura, perché dovremmo averne noi?”


Ad aprile i titoli nei giornali sono diventati seri, le notizie più gravi. In Italia è scoppiata la paranoia. Telefonate quotidiane negli uffici, da parte delle famiglie di chi vive qui, per riportare notizie sconcertanti su quella che pare essere la Peste bubbonica portata ai nostri giorni. Guardi fuori dalla finestra e non vedi nulla di diverso dal solito. Ma cominci a sentire lo spettro più vicino.


Poi i nervi di qualche straniero cedono, e comincia a indossare la mascherina, a lavarsi le mani ossessionatamente, ad aprire le porte con i gomiti. Le voci diventano più insistenti, e prendono la forma di leggende metropolitane. Qualcuno dice che ci sono migliaia di ammalati tenuti nascosti chissà dove. Sasha sostiene che il cibo piccante, l’alcol e le sigarette disinfettano lo stomaco, i polmoni e il sangue. Qualcuno dice che hanno trovato degli ammalati proprio nel palazzo in cui tu hai l’ufficio, o che hanno messo in quarantena un palazzo nell’isolato in cui vivi. E’ allora che lo spettro ti cade addosso, e ti senti nella Milano del Manzoni. Chiunque tossisce o si soffia il naso diventa un potenziale untore. Chiunque sia pallido e con le occhiaie un potenziale nemico. La paranoia diventa pian piano isteria.


Massimiliano, che passa troppo tempo con gli italiani, comincia a preoccuparsi. Io invece mi fido dei cinesi, e comincio a vedere con fastidio gli stranieri spaventati. Li evito. Vado in giro da solo o con i cinesi, per non dover avere qualcuno che mi mette ansia vicino. Nego a me stesso l’esistenza dello spettro, non ci credo.
 




Manca ormai meno di una settimana alla partenza, e una sera sono a casa di Jingyi. Nonostante abbiamo discusso, mi invita per la prima volta a restare per la notte, ma rifiuto per puro orgoglio. Prendo un taxi e, alle due del mattino, torno verso il Poachers. Per la prima volta il cancello è chiuso; il cuore comincia a battermi, e considero l’opportunità di ritornare da Jingyi, ma l’orgoglio vince ancora, e scavalco la cancellata polverosa. In reception non c’è nessuno; dovrebbe sempre esserci qualcuno. La paura striscia, ma ancora non voglio credere agli spettri.


Salgo le scale, recupero la chiave nelle ciabatte di Massimiliano e apro la porta. La camera è buia, lui dorme. Mi metto anch’io a letto e prendo sonno piuttosto in fretta, ma non faccio dei bei sogni.





Vengo svegliato dal cellulare di Massimiliano che vibra come ogni mattina, ma la luce di fuori è ancora grigia. L’orologio segna le sei e mezza. Ancora assonnato, il mio compagno risponde. Sento la voce di sua madre che piange, e Massimiliano che cerca di calmarla, ma è pallidissimo. Lo guardo attonito mentre discute con l'Italia. Poi mette giù e mi guarda: “Pare che all’ospedale di Sanlitun abbiano trovato mille ammalati di SARS abbandonati a sé stessi”.
 



L’ospedale di Sanlitun starà a cinquecento metri dal Poachers. Chiudo gli occhi. Cazzo.

2006-09-27

Prima del Ritorno

Manca ormai poco al mio ritorno in Italia, e nonostante la primavera sia arrivata con tutto il suo splendore a portare via il grigio inverno, mi sento spossato. Spossato dalla marea di cinesi che parlano solo cinese, spossato dai piccoli problemi che la differenza linguistica e culturale rende enormi, spossato dall’odore di Cina che permea tutto, nonostante ripetuti lavaggi, spossato dal cibo oleoso e grasso che d’inverno scalda, ma in primavera appesantisce, spossato dalla ricerca di dati per la mia tesi, spossato dal mio rapporto con Jingyi che è sempre problematico, spossato dalla spossatezza di Massimiliano che a sua volta è spossato dalla mia.

Al Bookworm trovo una copia dello Hobbit, con la Montagna Solitaria e il Drago in copertina. Leggo le vecchie pagine sgualcite sentendomi esattamente come Bilbo verso la fine del suo viaggio. Spesso sogno l’Italia, e la mattina aprendo gli occhi mi stupisco nel vedere la mia camera al Poachers, invece di sentire l’odore del caffelatte che viene dalla cucina di casa mia a Milano.


E’ come essere alla fine del viaggio, in attesa della partenza, ma non riuscire ancora a partire. Niente più tempo per fare qualcosa in questo posto, solo attesa. E un’altra cosa: la snervante presenza della SARS.

2006-09-26

Wang Jian


Ho bisogno di fare un’intervista a qualcuno di significativo per la mia tesi. Originariamente pensavo di farla sulle scelte di localizzazione delle aziende italiane in Cina. Dopo aver analizzato le risposte dei questionari compilati dagli intervistati, tuttavia, mi sono reso conto che la scelta in media non era affatto cosciente, ma piuttosto casuale o al più dettata dalla posizione di un partner conosciuto. Viva il Sistema-Italia… così ho deciso di fare la tesi sulle politiche del governo cinese per sviluppare le regioni occidentali del Paese. E ho bisogno di un cinese che risponda alle mie domande, meglio se immanicato col governo. Il mio capo me lo trova, e fa anche di più: mi fissa un appuntamento e mi fa accompagnare da Yao in funzione di interprete. E’ un angelo, il mio capo.
Dal Jingguang all’ufficio del mio intervistato sono 40 kuai di taxi, più o meno un’oretta di traffico. In un palazzo a quattro piani nel distretto di Haidian, non lontano dalla torre di CCTV, lavora il mio uomo. Wang Jian, professore presso la Chinese Academy of Sciences, una divisione della Commissione di Stato per la Pianificazione e lo Sviluppo.

Una premessa è doverosa. I cinesi sono in media persone estremamente gentili ed umili, ma questo è vero principalmente per la povera gente, ovvero la maggioranza. Quando un cinese ottiene un po’ di potere, di solito comincia a trattare tutti gli altri come sottoposti. Li guarda dall’alto in basso, si comporta in modo arrogante e offensivo, dà ordini e si aspetta che vengano eseguiti alla lettera. Tutto questo fa parte della concezione confuciana della gerarchia, beninteso. Per la verità Confucio insisteva sulla benevolenza dei superiori, ma poi la gente si dimentica i dettagli e semplicemente sottolinea la sua posizione in modo inequivocabile.

Wang Jian non è così. E’ ricco, è potente, è estremamente colto e immanicato nella tecnocrazia della capitale. E’ grasso come tutti quelli del suo rango, e mi accoglie nel suo ufficio che, da solo, fa metà dell’open space accanto dove stanno stipate trenta impiegate. Il suo ufficio ha pareti in legno scuro, mobili pesantissimi e istoriati, pianale della scrivania in marmo verde, poltrone in pelle nera, piante a entrambi i lati della scrivania e vari soprammobili in cristallo e bronzo dorato del peso di svariati chili. E’ un classico membro della sua classe.
Wang invita me e Yao a sedere sulle poltrone di pelle e si siede all’altro lato del tavolino, senza mettere tra noi la scrivania. Ci fa portare da una segretaria del tè al gelsomino rovente, servito in un bicchiere di carta con supporto in plastica che fa manico da tazza per non scottarsi. Estrae un pacchetto di Chunghwa – simbolo del suo status, e me ne allunga una. Risponde a tutte le domande senza remore, in modo diretto. Niente slogan, niente frasi fatte, niente negazioni dell’evidenza. Fa un sacco di battute. “Mongolia e Tibet? Come fanno a svilupparsi? Da una parte ci sono solo montagne, dall’altra non ci sono persone!”. Non pare nemmeno uno del governo. E’ gentile e disponibile, e parla in modo semplice ed efficace, senza perdersi in astrusi ragionamenti economici; è un tipo pragmatico. La sua testimonianza aggiunge preziose informazioni alla mia tesi e ne aumenta notevolmente la credibilità.

Anche a lui andrà una riga nei ringraziamenti della mia tesi. Mi insegna una grande lezione, Wang Jian. Mi insegna che si può essere colti e potenti senza perdere il “common touch”, che non occorre trattare con dei laureati per spiegare le proprie idee, e che la comunicazione può essere tarata sul livello di comprensione del pubblico senza necessariamente dover rinunciare a gran parte dei contenuti. Lui è un esempio di benevolenza confuciana nei confronti di chi sta gerarchicamente sotto. Io lo onoro, lui mi insegna, questa è l’armonia del nostro rapporto di disparità. Me ne vado dal suo ufficio con un blocco pieno di appunti e il cuore leggero. Ho avuto una conferma che questo sistema, almeno in parte, può funzionare.

Mingpian

Una costante delle presentazioni in Cina è il mingpian (名片), la “carta del nome”, ovvero quello che noi chiamiamo il biglietto da visita. Nessuno può farne a meno, per due ragioni. La prima ragione è linguistica: il cinese ha meno di 400 fonemi che, moltiplicati per i quattro toni, dovrebbero rendere la complessità di centinaia di migliaia di concetti. Praticamente tutte le parole hanno degli omofoni con significato diverso. Presentandosi a voce richiede una lunga spiegazione per esporre quale carattere forma il proprio nome, esemplificando con parole composte in cui appare. Farlo vedere scritto è più semplice. Se si ha una carta scritta è anche più facile ricordarlo, visto che circa il 10% dei cinesi di cognome fa Wang (王), che vuol dire circa 140 milioni di persone nella sola Repubblica Popolare. Poco meno degli Wang sono i Zhang (张), seguiti dai Zhou (周), dai Liu (刘) e dai Li (李). Più o meno la metà dei cinesi condivide meno di una decina di cognomi, il che è causa di non pochi mal di testa per l’anagrafe, figurarsi per la memoria della persona media che va in giro a conoscere gente.

La seconda ragione è socio-culturale, nata parte dal Confucianesimo, parte dal Comunismo. L’individuo in Cina non conta. A nessuno interessa la persona per quel che è, quel che conta è il suo ruolo, specie in ambienti altamente gerarchizzati come quelli aziendali o istituzionali. Il mingpian definisce il ruolo di una persona, cosa fa, dove lavora. Anche il suo numero di telefono cellulare lo definisce in parte – se è pieno di 8 vuol dire che è una persona ricca e influente. Se è pieno di 4 è un morto di fame che non può permettersi di comprare una carta PIN con numeri migliori (in Cina le carte PIN si vendono a numeri, con quotazioni che variano a seconda dei numeri fortunati contenuti).


Presentarsi a qualcuno senza mingpian è occasione di imbarazzo. In occasioni informali una persona semplicemente si scusa, in occasioni formali è imperdonabile e significa la perdita della faccia. Così il mio capo impone anche a me e Massimiliano di avere un mingpian, con tanto di due facce – una in inglese, una in cinese - e logo della Camera di Commercio. Lo guardo con orgoglio – cartoncino ruvido, colori brillanti ma sobri, bianco rosso verde, il mio nome italiano e sul retro quello cinese. Niente posizione aziendale: scrivere “stagista” pareva brutto. I cinesi, quando come da etichetta consegno il mio mingpian con due mani, il lato in cinese rivolto verso di loro, rimangono a volte imbarazzati dalla mancanza di definizione del mio ruolo ma poi, vedendomi laowai che lavora in un’organizzazione parastatale straniera, annuiscono con meraviglia come si conviene in certe situazioni, studiano meticolosamente le informazioni contenute sul biglietto (o almeno fanno finta), qualcuna la leggono bisbigliata come a dimostrare che lo stanno veramente leggendo e sono molto impressionati. Pare funzionare.


“先生你好,我是中国意大利商会的旷必野,认识你很高兴。Buongiorno signore, sono Kuang Biye della Camera di Commercio Italiana in Cina, molto lieto di conoscerla”. Armato del mio mingpian professionale e stilosissimo, nemmeno sono laureato, e già mi sento importante.

2006-09-12

Gente Strana di Pechino

Pechino accoglie gran quantità di gente strana che, sradicata dal proprio ambiente originario, si aggrega in gruppi più o meno stretti ma necessari alla sopravvivenza sociale. Tramite Jingyi vengo a conoscere un gran numero di persone che stanno a Pechino più o meno stabilmente, e tutti quanti hanno a che fare con il mondo dell’arte e della creatività.
Quelle che vedo più frequentemente sono le due amiche di Jingyi, che insieme a lei formano un trio singolare – una cinese, una giapponese e un’italiana. Michiko è di Tokyo: un metro e mezzo per meno di quaranta chili, uno scricciolo vestito in perenne t-shirt e scarpa da tennis bianca, pettinatura impossibile; studia scultura e condivide il nuovo appartamento con Jingyi. Quando parla lo fa scandendo ogni singola sillaba e, aggiunto alla sua abitudine di ridere scioccamente ogni volta che si sente sotto stress, pare una decerebrata, Frequentandola invece si capisce che è molto sveglia, e che tra le altre cose ha trent’anni passati nonostante ne dimostri più o meno come me. E’ molto buona e gentile, ma francamente faccio un po’ fatica a capire la sua mentalità e il suo modo giapponese di comportarsi con la gente. Sembra segua regole formali in tutto.
Colei che chiameremo Benedetta è il contrario di Michiko: alta, fisico da modella, occhi verdi, carnagione di marmo, capelli neri e ricci, viso nobile, pare dipinta da Dante Gabriel Rossetti. La sua bellezza è così androgina che la prima volta che Jingyi l’ha vista, l’ha scambiata per un ragazzo. Ci è rimasta male scoprendo che era del sesso sbagliato. Benedetta è di Milano e ha un anno più di me, ha studiato cinese e qui lavora per una galleria d’arte. Come molte artiste è sensibilissima ed emotivamente instabile. Oltre a ciò è detestabilmente falsa, e mentre mi sorride davanti mi pugnala alle spalle, forse per gelosia della sua amica, forse chissà. Decido comunque di darle più di una possibilità, fidandomi del giudizio di Jingyi.
Benedetta sta con Philip, un italo-americano che fa il giornalista free-lance. Il giornalista free-lance è, per la cronaca, la professione di chi ha studiato cinese e non ha voglia di buttarsi seriamente nel mondo del lavoro. Chi ha talento guadagna gloria (e poco altro), la maggior parte vivacchia insegnando inglese nel tempo libero (sempre abbondante) ed atteggiandosi ad intellettuale. Philip intellettuale ci si sente tanto. Parla poco, ma sembra capire molte cose.
Joey è di Tianjin. Ha studiato con Jingyi ed è il suo migliore amico. E’ un ragazzo molto bello e molto instabile, emotivamente dipendente da Jingyi, che gli fa da seconda mamma. Lei si trasferisce a Pechino, lui la segue; lei trova lavoro a That’s Beijing, lui la segue. Ora è il terzo inquilino del nuovo appartamento. Joey è un gran bravo ragazzo, ma dannatamente timido e terrorizzato dalla possibilità che la gente scopra che è gay. E’ uno di quelli che mi sta più simpatico.
Tutti artisti, tutti creativi, tutti squattrinati, tutti coraggiosi, a parte qualche crisi occasionale di qualcuno. Li frequento per poco tempo, perché poche settimane rimangono prima della mia partenza, ma conservo un buon ricordo di quelle serate in cui li vedo. Insieme a loro, condividendo esperienze ed emozioni, mi sento pechinese trapiantato anch’io.

2006-09-11

Ubriaco Perso


E’ una splendida mattina di aprile. Mi sveglio tardi e, mentre Massimiliano dorme, scendo in strada e vado al 24 hours di Sanlitun. La mia colazione, seduto in posizione del loto su un muretto, sotto i grandi pini, è un cornetto Algida (uguale a quello italiano, ma chiamato Ke’aiduo – 可爱多) e una bottiglia di tè verde freddo della Tongyi (统一绿茶). La gente passa e mi guarda come fossi un marziano, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.


Rientrando al Poachers, siedo sulla panca del Bookworm e scrivo note sul mio diario. E’ una giornata bellissima, una giornata di ozio, almeno fino a metà pomeriggio, quando Jingyi dovrà traslocare nella sua nuova casa. Andrò a darle una mano.


E’ mentre scrivo che mi si avvicina uno strano personaggio. Testa rapata, pizzetto biondo, occhio ceruleo e allegro, età sui trent’anni. Pantaloni della tuta e scarpe da tennis, giubbotto di pelle marrone e borsa da sport. Attacca bottone e dopo nemmeno mezzo minuto è già seduto a chiacchierare. Il nome non me lo ricordo proprio, ma credo di essere giustificato visto quello che succederà da lì a un’oretta.


Lo strano uomo parla con un’accento inglese strettissimo, e intercala “fuck”, “for fuck’s sake” e “fucking” ogni due o tre parole. Abita a Tianjin e, poco credibile a vedersi, fa l’insegnante di religione in una scuola internazionale. La passione del calcio lo porta a Pechino nel week-end, e appena scopre che sono italiano mi invita a Tianjin a giocare nella sua squadra, per distruggere gli avversari – coreani, giapponesi e cinesi, praticamente una farsa – e promette di concludere la serata con una cena di hot pot. E’ un tipo strano, ma decisamente simpatico, pare si ecciti per qualunque cosa.


Di lì a poco viene raggiunto da un secondo personaggio: un metro e ottanta per una novantina di chili, sui quarant’anni. Testa rasata anche lui, t-shirt di una squadra di rugby e kilt con scarpa da tennis sportiva. Deef, scozzese, si autoinvita alla nostra conversazione. Poco dopo anche Massimiliano scende a si unisce anche lui. Non sono passati nemmeno cinque minuti che l’inglese propone di andare tutti quanti a farsi una birretta da qualche parte.
“Perché no?” è la frase maledetta della giornata.
 


Venti minuti più tardi ci troviamo in un pub irlandese davanti alla stazione dei treni, e insieme a noi ci sono una coppia di australiani, lui rugbista biondo e abbronzantissimo, lei biondina di quelle che sembrano piccole e dolci, ma sono esattamente il contrario. Si attacca a offrire boccali da un litro a giri. Questo è mio, questo è tuo, eccetera eccetera. E’ l’inizio della fine. Il concetto inglese, scozzese e australiano per “una birretta” è molto diverso da quello italiano.

Deef racconta la storia della sua vita: sposato con una figlia adolescente, buon lavoro nel ramo finanziario. Dopo l’11 settembre 2001 la sua azienda entra in crisi e propone ad alcuni dipendenti di dare le dimissioni in cambio di una sostanziosa somma di denaro. Deef divorzia, molla la figlia alla moglie, si licenzia, incassa e comincia a girare il mondo a quarant’anni. Inizia dal Sudamerica; in Guatemala fa rafting, si ferisce un braccio su una roccia e, mentre sanguina, percorre con un braccio solo le due ore di torrente che lo separano dal primo luogo civilizzato, il tutto mentre gli avvoltoi gli volteggiano a cerchio sopra. Poi si sposta in Asia: comincia dalla Mongolia, si sposta in Cina, e la settimana seguente ha in programma il Vietnam, tutto da solo conoscendo eventualmente gente sul posto. Ha deciso che nella vita vuole fare l’avventuriero, almeno finché il corpo gli viene dietro. Non so quanto reggerà di questo passo, ma gli faccio tanto di cappello.


L’inglese si trasforma: prima comincia a ridere come un matto, quindi la faccia gli cambia, come se dieci anni di rughe gli fossero caduti addosso in una botta sola; la bocca si storta, gli occhi si spalancano come in preda alla pazzia. Invita di nuovo me e Massimiliano a giocare a calcio a Tianjin e mangiare l’hot pot. Poi a passar la notte in sacco a pelo sulla Grande Muraglia. Poi ci invita a casa sua a Manchester per la prima partita tra un squadra italiana e lo United: dice “Go to Manchester during the game, say ya’re Italian: the people will love ya!”. Quando i suoi inviti cominciano a cadere nel vuoto si sposta al biliardo, con magri risultati. Quindi attacca bottone con due vecchie signore russe, di vent’anni più vecchie di lui, e lo perdiamo.


I litri di birra aumentano: due, tre, quattro, cinque. La mia colazione è stata un cornetto Algida e una bottiglia di tè verde freddo. Il mio pranzo un cestello di patatine fritte. Jingyi mi chiama al cellulare, salvandomi. Devo andare.
Saluto tutti con grandi abbracci, scambi di e-mail e promesse di incontrarsi di nuovo. Abbandono Massimiliano al suo destino: lui saluta con la mano senza dire nulla. Chissà se si rende conto di quello che sta succedendo. “Bella gente gli inglesi” continua a ripetere.


Monto su un taxi e biascico l’indirizzo del Bihuju. Il tassista vede lo stato in cui sono e ride. Parte in quarta moltiplicando le curve, le frenate e le accelerate. Sto malissimo, mi sento come un materasso ad acqua pieno di birra, con cui qualcuno gioca a pallone. Il tassista ride come un matto. Smette di ridere quando, a cinquecento metri dal Bihuju, a novanta all’ora, sporgo la testa dal finestrino e do di stomaco.
Frena lentamente e con attenzione quando mi lascia davanti al Bihuju. Lo pago sperando che i soldi siano giusti ma con poca convinzione e scendo dalla macchina. Chiudendo la portiera ammiro la strisciata giallastra sulla carrozzeria rossa. Meglio far finta di nulla: supero la guardia all’ingresso e mi infilo nel giardino del compound.

Quando Jingyi apre la porta la saluto con la mano e mi fiondo in bagno, dove rimango per i quaranta minuti successivi. Fottuti inglesi, voi e la vostra birretta della domenica mattina. Quando emergo dal gabinetto Jingyi non è arrabbiata, è gelida. “Penso che tu sia abbastanza grande da giudicare da solo la situazione in cui sei”. Concisa e tagliente come sempre, Jingyi. Con una frase mi uccide. Bevo mezzo litro d’acqua e collasso sul divano per altri venti minuti, con lei che non mi degna nemmeno di attenzione, impacchettando la sua roba. Il senso di colpa mi divora.

Poi il citofono suona. E’ Alberto con la sua jeep. La necessità si salvare la mia faccia, e soprattutto quella di Jingyi, mi concede l’adrenalina necessaria a darmi una mossa. Non so se la mia farsa inganna l’occhio altrui, ma nessuno dice nulla. Trasportiamo gli averi di Jingyi nella nuova casa. La lascio così. Non propongo nemmeno di restare da lei, né lei me lo chiede.

Quando torno al Poachers, sono le nove. Le ciabatte di Massimiliano, che aveva le chiavi, sono davanti alla porta, ma le chiavi non ci sono. Busso. Dopo un minuto la porta si apre, e la faccia del mio compagno di camera non tradisce alcun segno di coscienza. Forse nemmeno mi vede. Torna sotto le coperte, dove giaceva poc’anzi. Ancora adesso, ad anni di distanza, non si ricorda d’essersi alzato e avermi aperto la porta, quella sera. Almeno è vivo.

Tra il tormento della mia colpa e la stanchezza fisica, vince la seconda. Nel momento in cui mi appoggio sul letto, entro nel mondo dei sogni. Fottuti inglesi e la loro birretta.


2006-09-10

Strade separate

Sia io che Massimiliano ci stiamo abituando a Pechino, e ognuno ha acquisito una certa routine. Vivendo assieme, mangiando assieme e lavorando assieme, tuttavia, è normale che non si abbia sempre voglia di passare assieme anche il tempo libero. E’ così che ci si distanzia un po’, non ci si parla tanto come prima.

Da un lato io esco con Jingyi e i suoi amici, Yao e Alberto, Sasha e Patricia, e tanti altri stranieri; sono molto attivo ed esplorativo. Massimiliano si impigrisce e cade nella morsa dei DVD, la trappola degli stranieri in Cina. Si crea una collezione di film di guerra da fare invidia. Quando non guarda DVD e non esce con me si vede con altri italiani: Stefano, Christian e Gabriele, un ragazzo di passaggio in viaggio di lavoro.


Ogni tanto io e Massi ci troviamo ancora per caso nella sala fumatori del Jingguang.
“Oh, che piacere”
“Prego, dottore, si sieda”
Ci si accomoda sul divano rosa riparato con colla e scotch, e si scambiano due parole. Si è davvero come fratelli – ci si capisce al volo ma non necessariamente si frequentano le stesse compagnie e si hanno le stesse abitudini. Andiamo d’accordo su tutto, tranne su una cosa: le donne. Io, romantico disperato alla ricerca dell’anima gemella; lui, realista distaccato che vede il tradimento come unica scelta possibile in ogni storia. Secondo me non gli piace che io stia con Jingyi, eppure spesse volte la domenica lui va a Tianjin a trovare il marito di Linda, lasciandomi la camera libera. Non me lo ha detto ma lo so che lo fa apposta per darmi una mano.


Esiste un rispetto reciproco assoluto, e un’intimità mentale che non necessita discorsi eccessivamente lunghi. Quello che abbiamo condiviso e condividiamo ancora basta. Due ragazzi italiani a Pechino.

2006-09-09

I Sinologi


Dicesi sinologo, o sinologa, colui o colei che all’università ha studiato lingua e letteratura cinese, un tempo facoltà esclusivamente veneziane e napoletane, ora presenti anche a Torino, Bologna, Roma e altre città. Le sinologhe sono molte; al contrario i sinologi sono una razza rara. Il motivo ancora mi sfugge, ma credo sia legato alla disinformazione universitaria. Se fossi stato più informato, invece di fare la Bocconi avrei fatto la Ca’ Foscari.

Il sinologo studia in aule per lo più frequentate da donne, in città di un certo spessore artistico e culturale. Non passa la vita sui libri come fanno i frequentatori di altre facoltà. Poi, se è serio in quel che fa, deve trascorrere un periodo in Cina per acquisire la fluenza nella lingua parlata. Le possibilità sono tante: Chengdu, capitale culturale del Sichuan, dove si fa sempre festa; Kunming, la città della primavera, dove l’attività più comune è quella di fumar canne e far la spola dai bar ai ristoranti e viceversa, il tutto a prezzi che sono un decimo dell’Italia; o lo Yuyan Xueyuan, l’istituto di lingue straniere di Pechino, dove alcune decine di giovani stranieri, lontani anni luce da famiglia e tradizione, vengono alloggiati in un pensionato che ben presto diventa il set di un’orgia interrazziale a base di peace and love. Qualche sfortunato può finire a Xi’an o Shenyang, ma sono una minoranza.


Il rovescio della medaglia per il sinologo emerge dopo la laurea, quando si trova davanti un mondo del lavoro che gli dice “A parte parlare cinese sai fare qualcos’altro?”. La risposta è tipicamente “No”. Qualcuno si butta e diventa imprenditore, magari anche di successo, ma la maggior parte passa da un lavoro sottopagato all’altro, sopravvivendo grazie ai trucchi imparati quando di era studenti in un Paese povero. Peccato, perché la capacità di parlar cinese è sottovalutata dalle aziende, e spesso un superlaureato con Master a Londra o Parigi arriva in Cina e, digiuno di lingua locale, entra quasi subito in uno shock culturale catatonico che lo incapacita e lo impigrisce. In alternativa, di fronte a un ambiente che non lo capisce e non lo gratifica cerca realizzazione nel lavoro, e dopo qualche mese passato a lavorare sedici ore sette giorni su sette entra in esaurimento nervoso e torna in patria.


Nel mio primo passaggio a Pechino di sinologi ne conosco tanti, dalla vecchia guardia, i pionieri, come Alberto che ha un'azienda tutta sua che porta avanti da più di dieci anni, agli studenti, come i due che incontro una mattina a colazione al Poachers, reduci da sei mesi a Kunming, e si lamentano del costo delle sigarette (50 centesimi di euro al pacchetto contro i 30 di Kunming), e già pensano al ritorno in patria con terrore. Manca tempra alle nuove generazioni, o forse è che il cinese non è più una lingua così elitaria per gli stranieri. Davide, che ha fondato un’associazione che promuove i contatti culturali tra Italia e Cina, mi dice che ai suoi tempi essere laureati era un prestigio concesso a pochi, sicché il sinologo era visto come un intellettuale di un certo spessore. Alberto l’Oriente l’ha vissuto da avventuriero: vent’anni fa si è pagato due viaggi in India rivendendo alle bancarelle le statuine di Ganesh e altri oggetti d’artigianato locale, poi in Cina ha aperto la sua attività spedendo dirigenti d’azienda e quadri di partito in Italia, mescolando a giuste dosi il fascino e il savoir faire con lo spirito pratico, creando un servizio che solo un italiano potrebbe offrire; da bravo napoletano, quando la polizia lo ferma nel suo Cherokee e lo trova senza patente, ancora oggi finge di non parlare cinese e quelli lo lasciano andare.

 
Le nuove generazioni applicano l’arte del sopravvivere, tra uno stage non pagato e un lavoro a tempo pieno da 600 euro al mese; chi fa l’interprete, chi il traduttore, chi vorrebbe improvvisarsi giornalista ma non ha le referenze per farlo seriamente. Tanti mollano dopo un paio d’anni e tornano a casa da mamma e papà. Oggi il laureato in cinese è una persona che per la società ha rifiutato ingegneria, economia e legge per pigrizia, è un laureato in lettere buono a nulla. E’ forse una vittima di una cultura miope e conservatrice. Eppure rimane qualcuno che, con le maniche tirate su e la voglia di rischiare, è ancora capace di fare quelle cose che tanti ingegneri ed economisti non riescono nemmeno a pensare.

2006-09-08

Il concerto dei Morcheeba


Jingyi una sera se ne viene fuori con un annuncio importante: i Morcheeba, un gruppo di fama internazionale, stanno per fare un concerto a Pechino. E’ uno dei primissimi eventi in cui la musica internazionale arriva in città. Jingyi, grazie alle sue frequentazioni, è una delle poche cinesi che conosce i Morcheeba: i loro CD non si trovano nemmeno taroccati. Ma fanno funk, e lei va pazza per questo genere.
Avevo già visto l’annuncio su That’s Beijing. Il concerto è organizzato dall’Istituto di Cultura Britannico. Finalmente un istituto di cultura che serve a qualcosa, e non si sclerotizza sull’intellettualismo abituale. Altro che film di Fellini, fanculo. Jingyi cercherà di procurarmi un biglietto tramite il giornale, ma non garantisce.

Alla fine ne trova uno, e ce lo dividiamo in tre: io, Massimiliano e Yao. La location è lo Yan Club, un locale appena aperto allo Spazio 798, un’ex area industriale convertita a spazio artistico. Tra le vecchie mura di mattoni delle fabbriche si aprono bar di tendenza, gallerie d’arte e i primi veri club di Pechino, che passano musica scelta con cognizione di causa. Lo Spazio 798, anche chiamato col nome del quartiere ossia Dashanzi, è un luogo quasi sconosciuto e ai margini della città, anche se a distanza di pochi mesi diverrà una delle zone più di stilose di Pechino.
Lo Yan Club è gremito di pubblico, anche se per la stragrande maggioranza è costituito da stranieri. D’altra parte, i lettori delle riviste in inglese sono loro. E’ un peccato vedere come i giovani cinesi siano all’oscuro dei sounds stranieri.

Il concerto è spettacolare: Skye e compagnia suonano divinamente e trascinano il pubblico. Seduto sulla scalinata/spalto, ballo e canto con i miei amici. Molte di quelle canzoni le ho già sentite, e differenza di Jingyi e Yao. E’ buffo vedere la linea di poliziotti che divide il pubblico dal palco. Sì, non si tratta di security ingaggiata privatamente: in questo genere di eventi culturalmente attivi, il governo preferisce gestire le cose personalmente. I poliziotti avranno una media di diciott’anni e pare non sentano nemmeno la musica: sono statue di ferro senza espressione.
Poi capita l’inaspettato: mentre i tutori della legge tengono il pubblico lontano dal gruppo, Skye si china e ruba il cappello di uno di loro, ride, se lo mette alle ore undici e continua a cantare atteggiandosi a ribelle. Smetto di ridere quando mi accorgo che tra i cinesi della sala, compresa Jingyi, è calato il gelo. Il giovane poliziotto, umiliato, prega mimando Skye di restituire il copricapo, e quella ci prende ancora più gusto. Il ragazzino è paonazzo d’ira e vergogna, ed è chiaro che nessuno dei poliziotti ha idea di come gestire la situazione: si aspettavano di dover controllare il pubblico, non gli artisti!
“She has no idea of what she’s doing” dice Jingyi “she’s risking a lot”
Non c’è nulla di divertente per i cinesi: hanno veramente paura. La polizia non si offende, non ci si prende gioco delle forze dell’ordine; chi lo fa rischia grosso, anche se è un cantante straniero e famoso. E comincio ad agitarmi anch’io.
Finalmente Skye restituisce il cappello al ragazzo, lanciandolo a mo’ di freesbee. Il poliziotto se lo riinfila offeso, e tutto riprende il suo corso. Anche questa è la Cina, la censura talmente eccessiva che non è in grado di reagire all’imprevisto.

Il concerto continua splendidamente… The Sea, Shoulder Holster, Blindfold… la musica trasporta il mio spirito e quello di tutti i presenti. Non sembra vero di sentire un suono del genere in questo luogo. Ma anche questo è possibile, a Pechino, in Cina. La mia mano e quella di Jingyi si stringono e in quel momento non c’è bisogno di parole, di lingue per mediare la comunicazione. Entrambi sappiamo di essere insieme e felici di condividere questo momento memorabile per entrambi.

Ancora oggi, quando ascolto i due CD che comprai a fine concerto, i primi CD dei Morcheeba in Cina, originali e con tanto di scritte in cinese, mi commuovo. Quella notte s’è fatto un piccolo pezzo di storia della Cina, e forse un grosso pezzo della storia mia e di Jingyi.

Il caffè di Elena

A stare a Pechino e far la vita squattrinata da stagista si tende a dimenticare un po’ l’Italia. I colori e gli odori sono diversi, e col tempo ci si abitua a vivere come i cinesi. Io e Massimiliano troviamo una sera la camera cosparsa di baygon antiscarafaggi, e aspettiamo che ce la puliscano – dopo una settimana, siamo noi stessi ad andare a chiedere qualcosa per levare la polvere bianca, e ci consegnano scope di saggina lunghe nemmeno mezzo metro, con cui facciamo pulizia. L’odore di Cina, quello strano misto di smog, glutammato, olio da frittura e sudore dolce, pervade tutto. Ci si fa l'abitudine col tempo, ma ogni tanto infastidisce.

E’un sabato pomeriggio di sole che vado a trovare Elena nella sua nuova casa al Bihuju, di fronte al cancello ovest del parco di Chaoyang. Ci vivono un sacco di italiani lì, tra cui Jingyi e la sua amica, e Yao con suo marito Alberto. La casa è luminosa e molto più intima di quella precedente nel quartiere russo, ed Elena mi accoglie con la base dell’ospitalità italiana, una cosa che era scomparsa dalla mia memoria da settimane. Il caffè.
Lo bevo distrattamente, ma appena il liquido nero viene a contatto con la mia lingua, la mia memoria sensoriale esplode ed è come se un mondo intero mi si aprisse. Il caffè fatto con la moka. Quasi mi commuovo. Mariaelena mi vede e si mette a ridere come una matta. Sì, era tanto che non bevevo un caffè fatto come si deve.


Incomincia con questa esperienza il mio periodo di attesa per la partenza: tra meno di un mese sarò di nuovo a casa, a Milano. Mi sento come Bilbo che pensa alla sua caverna hobbit e alla cuccuma che fischia sul fuoco.