2006-06-07

L’Ambasciata Italiana


Uno degli scogli principali della vita di un italiano in Cina è posto dagli italiani stessi e dalla loro burocrazia. Poiché Pechino è la capitale, chi vi risiede ha la fortuna di avere a propria disposizione l’Ambasciata della Repubblica, la facciata che il Bel Paese offre al Paese di Mezzo. Con buona volontà, e forse per la prima volta in vita mia orgoglioso d’essere italiano, mi accingo su consiglio di amici ad andare a registrare la mia presenza agli organi competenti, una notifica che li aiuti a monitorare la presenza italiana in Cina.

Marco, manco a dirlo, vomita una serie apparentemente infinita di insulti sullo staff dell’ambasciata, con tanto di verso alla calata romana e gesto della frusta. Ma d’altra parte Marco è nevrotico, non me ne fido ciecamente, faccio persino fatica a credere alla storia che mi racconta, ovvero che quando lui era andato a registrare la sua presenza trimestrale in Cina, quelli per sbaglio gli avevano spostato la residenza, ed era tuttora in attesa di riottenerla a Milano, dove al suo ritorno sarebbe stato privato del diritto di voto e del medico di base per alcuni mesi, prima che la pratica venisse evasa.

L’ambasciata sta in Sanlitun, con l’entrata in una piccola traversa ombrosa del Terzo Anello. Non è male come edificio: certo, squadrata e poco elegante, ma pulita e con un bel giardino. Alla porta decine tra poliziotti cinesi, guardie e carabinieri italiani. Atmosfera abbastanza rilassata.

L’interno dell’ufficio è la replica di un ufficio statale italiano: un locale freddo, grigio, poco curato e con mobilia fuori moda. Delle sedie dure e scomode, con delle persone sedute in attesa, la faccia stanca e rassegnata. Tre sportelli con vetro protettivo. Nessun impiegato. Voci e risate, battute con un riconoscibilissimo accento laziale, che vengono dall’altra stanza.

L’attesa, che mi aspettavo breve, si prolunga. Dopo venti minuti, finalmente una donna tinta di biondo e soprappeso si presenta allo sportello, e il sorriso diventa faccia scocciata. Sorridendo, mi presento e le dico che starò a Pechino per i prossimi sei mesi.
“Sì, ma che vuole da noi?” chiede nella sua calata romana.
“Vorrei registrarmi… insomma, mi è stato detto che l’Ambasciata consiglia sempre ai cittadini italiani all’estero di notificare la loro presenza alle istituzioni”
La sua espressione dice chiaramente “Milanese rompicoglioni… ”.
Dopo un sospiro risponde “ ’N attimo che vado a chiedere… “
Diversi minuti più tardi torna con tre pagine di moduli, e senza fare troppe domande mi metto a compilarli. All’inizio sono semplicemente stupito della quantità di scartoffie, ma quando cominciano le domande sul codice fiscale, sullo stato civile, sui genitori, mi sorge un dubbio.
“Mi scusi” dico “ma non è che state cercando di farmi cambiare residenza?”
“Mi scusi lei, ma allora perché è qui?!?” risponde la donna, sempre in forte accento romano.

E’ allora che tutto il mio orgoglio nazionale scompare. Che nelle vene risorge quell’atavico odio antiromano tramandato inconsciamente dalle generazioni padane vissute all’ombra della Repubblica Italiana. Il tono indisponente della domanda scatena una rabbia silenziosa dentro di me, milanese figlio di un novarese e una lodigiana. E’ una rabbia mista a vergogna d’esser cittadino italiano.
Con tutta la calma che mi concede la sicurezza della mia superiorità, mi sforzo di rispondere senza offese.
“Sono qui per notificare la mia presenza all’Ambasciata. Sto qui tre mesi, poi me ne torno in Italia. Per vostra informazione”
“E allora che vuole cambiare residenza a fare?!? E vabbe’... prendiamo atto”

Straccio i moduli e li butto nel cestino, ne compilo un altro con le semplici generalità, e me ne vado. Non saluto. L’impiegata non saluta. Torno in ufficio, dove posso dimenticare di essere cittadino della Repubblica.

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