2006-06-30

Massimiliano

Due settimane son passate, e ormai Marco sta per andarsene da Pechino. A sostituirlo arriverà Massimiliano, un ragazzo dell’università di Ancona. Lo sento per e-mail e mi metto d’accordo per condividere l’oneroso costo della stanza all’hotel Dabei. Fa mille domande e Marco, con la sua vena da tipico milanese bocconiano, rafforzata dalla sua nevrosi, già lo detesta e gliene dice di tutti i colori.
Massimiliano arriva una mattina di inizio febbraio. La receptionist mi chiama in camera dicendo qualcosa di incomprensibile in cinese, e ne deduco che di lui si tratta. Scendo le scale ormai familiari dell’hotel per trovarlo nella piccola hall, completamente devastato come lo ero io al mio arrivo.
E’ un bel ragazzo, Massimiliano: immediatamente identificabile come italiano. Alto, pelle chiara, capelli corti e scuri, labbra arricciate e begli occhi verdi. Accento marcatamente marchigiano, della provincia di Fermo, che a noi milanesi suona un po’ ridicolo. Nella nostra sofisticazione bocconiana, troviamo molti suoi modi d’essere decisamente provinciali. Non parla una parola di cinese ed è ancora più fuori dal mondo di me.
Ci presentiamo e lo porto in camera, una nuova camera a due letti che fa angolo a sudest. Gli lascio prendere il letto migliore, quello vicino al calorifero e lontano dalla porta. Lo accolgo con qualche convenevole per dimostrargli la mia buona volontà, e lui, più esperto di me in convivenze, poiché ha studiato ad Ancona vivendo in studentato, espone le sue regole basilari: si può fare tutto, compreso andarsene in giro in mutande, c’è una sola cosa da non fare mai. Russare. Fortunatamente, non russo. Con questo buon auspicio, lo lascio per andare in ufficio. Quando torno dorme ancora, si fa una tirata di almeno 18 ore fino alla mattina seguente.

2006-06-28

Solitudine

December in Beijing

Le settimane passano e io mi sto ambientando a Pechino. La mia camera all’hotel Dabei è diventata familiare, insieme all’ufficio e alla strada che connette i due luoghi, una strada che ogni mattina percorro e ogni mattina offre esperienze nuove e incredibili. In questa solitudine che mi circonda al mattino, al mio risveglio, quando scosto le pesanti tende e guardo dalla finestra il cielo grigio, il parcheggio altrettanto grigio, e le persone grigie che lo attraversano; e al mio ritorno la sera, stanco e raggelato, quando scrivo il mio diario, penso al mio passato e al mio presente, e talvolta al futuro, e poi mi infilo sotto le coperte triple e mi addormento immediatamente; in questa solitudine mi ci trovo bene. Sono solo e sono vivo, dall’altra parte del mondo dove nessuno che conosco in Italia è mai stato prima, e ogni giorno vivo un’avventura sconvolgente, una vita senza tempi morti. E’ come se tutti i miei sensi fossero stati amplificati, e la mia lucidità fosse moltiplicata. Mi sento vivo come non sono mai stato prima.

2006-06-25

Il mercato di Panjiayuan

DSC_0010

Tra i tanti mercati che Marco mi fa visitare, quello che più mi impressiona è quello di Panjiayuan. Si trova verso Sud, nei pressi del terzo anello, ed è un’estensione enorme di chioschi e bancarelle che vendono artigianato e anquiquariato di tutti i generi: porcellane, statue di giada, legno, bronzo, ferro e terracotta, gadget di Mao e oggetti risalenti alla Rivoluzione Culturale, stampe, calligrafie e dipinti su carta di riso e tela, mobili in vari stili, pennelli e materiale da scrittura, armi bianche tradizionali, portafortuna. Ma la cosa più sconvolgente è l’artigianato etnico, e in particolare le bancarelle dei Miao, con i loro tessuti colorati e i campanelli di metallo, e quelle dei Tibetani, con i loro thangkha, i dipinti religiosi su cuoio, e gli strumenti rituali tra cui pugnali e asce di ferro e bronzo, corni di yak istoriati e bacinelle ricavate da teschi umani. Sembra di vivere in un’altra epoca, a Panjiayuan, a cinque gradi sotto zero, con un’aria dall’odore fortissimo di Cina, in mezzo a una folla che contratta serratamente. Al mercato incontriamo Christian, uno stagista arrivato dalla mia stessa università due giorni prima di me, ancora sperduto al pari mio, e il suo collega Stefano, prototipo dello yuppie newyorkese degli anni’80 trapiantato a Pechino con vent’anni di ritardo. Siamo in quattro bocconiani, intabarrati nei giacconi a guardare questa bolgia d’umanità di razze e colori differenti che bercia e contratta. L’università non prepara a queste esperienze. Panjiayuan si trasformerà ben presto nella nemesi di tutti quanti, perché se agli altri mercati si comprano tante cose a prezzo contenuto, a Panjiayuan se ne comprano meno, ma sono costose e soprattutto pesanti. Io me la caverò con una spada da pochi chili; altri, meno fortunati, torneranno in Italia con scacchiere di marmo, statue di buddha in legno a grandezza naturale, cassettiere. Lo shopping a Pechino è una droga, e nella massa dei mercati, non è possibile non trovare ciò che si è sempre desiderato comprare, a un prezzo ridicolo. Davanti a quest’offerta, non esiste resistenza. Il mercato vince. Sempre.

2006-06-24

Stranieri


La domenica seguente decido di ritentare la fortuna in Tian’anmen, ma questa volta prendo il taxi. La piazza è enorme, e dominata da monumenti solenni e colossali: Tian’anmen ossia la Porta del Cielo, con la sua gigantografia di Mao; il Monumento agli Eroi del Popolo, con il suo obelisco; il Museo della Rivoluzione, il Mausoleo di Mao Zedong, il Palazzo del Popolo, Qianmen ossia la Porta Anteriore, la Torre degli Arcieri e la vecchia Stazione Ferroviaria in stile art déco. Cammino senza fine, senza in effetti capire cosa mi circonda: non faccio altro che guardarmi attorno disorientato.
Verso mezzogiorno, stanco morto, cerco qualcosa da mangiare, e mi accorgo che i ristoranti cinesi non hanno menù in inglese, e d’altra parte mi rifiuto di mangiare in un fast food americano. Il compromesso è un fast food giapponese che serve eccellente cibo asiatico a prezzi contenuti, su tavoli quadrati in legno chiaro, illuminati da lampade di carta che contengono lampadine.
E’ qui che incrocio lo sguardo con un altro straniero, solo come me, seduto al tavolo di fronte. Non ci pensiamo tanto, prima di sorridere, attaccar bottone e poi sederci allo stesso tavolo. Avrà quarant’anni suonati, quest’uomo biondiccio con gli occhiali tondi e la faccia seria e precisa, ed è vestito da backpacker. Fa il professore in una scuola negli Stati Uniti, mi racconta poi, ed è qui per turismo: viaggia da solo. Scambiamo opinioni e impressioni sulla Cina, ed entrambi ne siamo abbastanza stupiti e confusi. E passiamo un pranzo in compagnia prima di salutarci e non vederci mai più, ognuno per la sua strada.
Il bello di Pechino è anche questo: esiste una sorta di senso della comunità tra gli stranieri. La sensazione di essere perduti in un Paese enorme e alieno crea una sorta di fratellanza, che porta a sorridere e attaccare bottone con chiunque si incontri per strada e non appaia immediatamente cinese. La forza di questo legame varia da zona a zona – debole nella zona finanziaria, dove gli stranieri sono molti e sempre di fretta, fortissimo nelle zone più remote, dove incontrare un altro viaggiatore è un evento da celebrare con un brindisi e una storia, una storia che ha sempre a che fare con incomprensioni dovute alle differenze culturali, e che finisce con una scrollata di capo e una risata. E’ sorprendentemente facile farsi amici a Pechino, se si è stranieri, persino per me che sono sempre stato timido e taciturno: la curiosità, qui, è sempre più forte della diffidenza. D’altra parte, se una persona ha compiuto il viaggio per venire qui in Cina, per certo non sarà una persona noiosa da conoscere. E quindi, perché non conoscerla?

2006-06-17

Houhai

HouHai winter 2009

Un sabato pomeriggio Marco mi fa scoprire un’altra zona di Pechino, ovvero Houhai (后海), “il lago posteriore”. Pechino possiede numerosi laghi artificiali fatti scavare dai vari imperatori: tre di essi stanno immediatamente ad ovest della Città Proibita: Beihai, Zhonghai e Nanhai, racchiusi da uno sconfinato parco. A nord di questi ve ne sono altri tre, collettivamente denominati Shichahai: i loro nomi sono Houhai, Qianhai e Xihai e sono circondati da hutong. I pechinesi vi si recano da sempre per rilassarsi pescando, giocando a carte, facendo ginnastica, o semplicemente chiacchierando e passeggiando. A partire dal 2000, il primo bar fu aperto sulle sponde del lago, e da allora la zona si è trasformata: laddove Sanlitun è la zona delle notti folli, Houhai è la zona del relax.

Marco mi porta al Buddha Bar, stereotipo del locale di Houhai, con divani morbidi e ampi, mobili in legno, scaffali di libri di viaggi e grandi finestre sul lago. E’ la prima volta che vedo un locale del genere, ed è il genere di locale che avrei sempre voluto vedere: lo esploro in ogni suo angolo e stanzino, scoprendo un’alcova nascosta da una tenda, dove su un materasso sottile ci si può stendere in tanti, e una scala a pioli che porta a una stanza sopraelevata, cui si accede tramite una botola, e da cui si gode una luce splendida grazie alle pareti a vetri e alle tende colorate. Io e Marco rimaniamo a chiacchierare a lungo, stesi sui divani del piano terra, con le scarpe ribaltate in un angolo. Ordiniamo anche da mangiare, nonostante la cameriera, per quanto carina, non ne voglia sapere di capire che vogliamo.
“Cha” chiedo in cinese, stressando il tono della parola per tè.
“Kua?” ripete.
“No, chaaa” stresso ancora di più.
“Gua!”
“Ma che è… sono in un bar in Cina alle due del pomeriggio, cosa mai vorrò ordinarti se non un tè?!? Non ti ho chiesto un amaretto di Saronno!”
Il tè alla fine arriva tramite il barista che sembra e in effetti si dimostra più sveglio.
Marco è già incazzato, io non ce la faccio, e rido. Alla fine ride anche Marco. Rimaniamo a chiacchierare ancora delle nostre impressioni della Cina, e a guardare dal vetro come da un televisore, il lago ghiacciato, le decine di cinesi dai 6 ai 60 anni che pattinano e slittano concludendo sempre con cadute improbabili e grandi risate. Non possiamo che ridere anche noi… che altro fare, in un posto come questo?

2006-06-15

Bambagia


  
Una delle cose positive nel vivere in un regime autoritario è il livello di sicurezza nelle strade. E poiché Pechino è una delle vetrine della Cina verso il mondo esterno, tutto deve essere perfetto per chi la visita. Ciò significa che mentre uno straniero è quasi libero di fare ciò che vuole, i cinesi sono controllati in ogni mossa. A ciò si aggiunge un timore reverenziale diffuso in quasi tutti i cinesi di livello medio-basso verso gli stranieri, e i “bianchi” in particolare, che loro chiamano laowai (老外). Chi non ha avuto contatti con gli stranieri, è in qualche modo convinto che essi siano estremamente potenti e pericolosi, facili all’ira e vendicativi, ragion per cui, potendo, li evitano.

Fatta questa premessa, possiamo parlare della sicurezza a Pechino, che è massima. La città è piena di poliziotti e guardie private: mentre i primi pattugliano le strade e accorrono alla segnalazione di un reato, pronti a tutto pur di estirpare il crimine, le guardie private sono molto più bonaccione. Gentili, quasi timidi, sono posti di guardia nelle strade, negli uffici e nei condomini. I loro capi si sforzano di imporre loro un po’ di disciplina che si concretizza in ridicole marce lungo il perimetro dell’area da pattugliare e niente più. La giornata (o la nottata) di una guardia consiste nello stare sull’attenti (o, nel caso di personale più attempato, stare seduti) per tutto il loro turno controllando che tutto vada bene e ladri e malfattori non si mettano all’opera. Nel caldo soffocante d’agosto slacciano la giacca mettendo in luce la canotta, nel freddo crudele di gennaio si chiudono nei loro cappotti verdi e stringono i colbacchi; qualche volta si addormentano, specialmente a tarda notte, oppure cercano qualcuno con cui scambiare due chiacchiere per ammazzare il tempo. Con i cinesi sconosciuti sono inflessibili, ma appena vedono uno straniero si trasformano in agnellini, e giù sorrisi da merenda e inchini. E se scoprono che lo straniero parla cinese, via ad attaccare bottone su ogni tipo di argomento, che per lo più ha a che fare con il nazionalismo e la guerra, il crimine e la politica. Mentre il poliziotto non ha nulla da dichiarare, la guardia ha opinioni su un sacco di argomenti: di solito le dichiarazioni preferite sono: “La Cina è un grande paese”, “Gli Stati Uniti dovrebbero piantarla di accusarci di violare i diritti umani, ma pensare piuttosto alle bombe e ai colpi di mitraglia che sparano in Iraq”, “Gli stranieri che vivono qui sono bella gente e molto gentili”. Ogni tanto poi partono con la loro analisi politica dei cambiamenti avvenuti dai tempi di Mao Zedong ad oggi, e allora è la fine. Quando uno straniero conosciuto arriva o se ne va, scattano sull’attenti, con la mano sulla fronte e il petto in fuori, ma ogni tanto viene da ridere anche a loro.




E’ anche grazie a loro che le strade di Pechino sono così sicure. Ad ogni ora della notte, uno può camminare indisturbati per le strade. Non si hanno notizie di crimini commessi ai danni di stranieri, se si eccettua l’occasionale furto del portafoglio in metropolitana. Né si è mai sentito di ragazze importunate, o ubriachi molesti che rivolgano le loro attenzioni ai laowai. E’ come vivere nella bambagia, nessuno osa toccare gli onorati ospiti stranieri. Ci si sente coccolati, anche se si tratta di finzione: fuori Pechino, la situazione non è questa: basta guardare le gabbie che proteggono i tassisti e li dividono dal passeggero. Servono ad evitare i colpi di arma da taglio. Quello che c’è e quello che si vede non sono la stessa cosa; è la base del modo di vivere cinese, per certi versi. Tuttavia, quando cammino solo in queste strade scure, e gli unici esseri umani che incontro sono i lavoratori notturni, umili e indaffarati, e la guardie, inflessibili e vigili al passaggio del laowai, non rimpiango l’Italia. Se non altro, in questo luogo non ho mai dovuto avere timore di qualcuno.

2006-06-07

L’Ambasciata Italiana


Uno degli scogli principali della vita di un italiano in Cina è posto dagli italiani stessi e dalla loro burocrazia. Poiché Pechino è la capitale, chi vi risiede ha la fortuna di avere a propria disposizione l’Ambasciata della Repubblica, la facciata che il Bel Paese offre al Paese di Mezzo. Con buona volontà, e forse per la prima volta in vita mia orgoglioso d’essere italiano, mi accingo su consiglio di amici ad andare a registrare la mia presenza agli organi competenti, una notifica che li aiuti a monitorare la presenza italiana in Cina.

Marco, manco a dirlo, vomita una serie apparentemente infinita di insulti sullo staff dell’ambasciata, con tanto di verso alla calata romana e gesto della frusta. Ma d’altra parte Marco è nevrotico, non me ne fido ciecamente, faccio persino fatica a credere alla storia che mi racconta, ovvero che quando lui era andato a registrare la sua presenza trimestrale in Cina, quelli per sbaglio gli avevano spostato la residenza, ed era tuttora in attesa di riottenerla a Milano, dove al suo ritorno sarebbe stato privato del diritto di voto e del medico di base per alcuni mesi, prima che la pratica venisse evasa.

L’ambasciata sta in Sanlitun, con l’entrata in una piccola traversa ombrosa del Terzo Anello. Non è male come edificio: certo, squadrata e poco elegante, ma pulita e con un bel giardino. Alla porta decine tra poliziotti cinesi, guardie e carabinieri italiani. Atmosfera abbastanza rilassata.

L’interno dell’ufficio è la replica di un ufficio statale italiano: un locale freddo, grigio, poco curato e con mobilia fuori moda. Delle sedie dure e scomode, con delle persone sedute in attesa, la faccia stanca e rassegnata. Tre sportelli con vetro protettivo. Nessun impiegato. Voci e risate, battute con un riconoscibilissimo accento laziale, che vengono dall’altra stanza.

L’attesa, che mi aspettavo breve, si prolunga. Dopo venti minuti, finalmente una donna tinta di biondo e soprappeso si presenta allo sportello, e il sorriso diventa faccia scocciata. Sorridendo, mi presento e le dico che starò a Pechino per i prossimi sei mesi.
“Sì, ma che vuole da noi?” chiede nella sua calata romana.
“Vorrei registrarmi… insomma, mi è stato detto che l’Ambasciata consiglia sempre ai cittadini italiani all’estero di notificare la loro presenza alle istituzioni”
La sua espressione dice chiaramente “Milanese rompicoglioni… ”.
Dopo un sospiro risponde “ ’N attimo che vado a chiedere… “
Diversi minuti più tardi torna con tre pagine di moduli, e senza fare troppe domande mi metto a compilarli. All’inizio sono semplicemente stupito della quantità di scartoffie, ma quando cominciano le domande sul codice fiscale, sullo stato civile, sui genitori, mi sorge un dubbio.
“Mi scusi” dico “ma non è che state cercando di farmi cambiare residenza?”
“Mi scusi lei, ma allora perché è qui?!?” risponde la donna, sempre in forte accento romano.

E’ allora che tutto il mio orgoglio nazionale scompare. Che nelle vene risorge quell’atavico odio antiromano tramandato inconsciamente dalle generazioni padane vissute all’ombra della Repubblica Italiana. Il tono indisponente della domanda scatena una rabbia silenziosa dentro di me, milanese figlio di un novarese e una lodigiana. E’ una rabbia mista a vergogna d’esser cittadino italiano.
Con tutta la calma che mi concede la sicurezza della mia superiorità, mi sforzo di rispondere senza offese.
“Sono qui per notificare la mia presenza all’Ambasciata. Sto qui tre mesi, poi me ne torno in Italia. Per vostra informazione”
“E allora che vuole cambiare residenza a fare?!? E vabbe’... prendiamo atto”

Straccio i moduli e li butto nel cestino, ne compilo un altro con le semplici generalità, e me ne vado. Non saluto. L’impiegata non saluta. Torno in ufficio, dove posso dimenticare di essere cittadino della Repubblica.

2006-06-05

Prima Visita a Sanlitun


Una sera Marco mi fa scoprire Sanlitun. Anzi, Sanlitunr, come dicono a Pechino, con quel ringhio che caratterizza la parlata locale. Ci andiamo a piedi, la sera, con la gente che ci guarda stranita, e le guardie – ci sono guardie ovunque, in divisa impeccabile e quasi tutte più giovani di noi – che ci sorridono. Quando chiedo informazioni, si stupiscono del mio cinese e la loro diffidenza si trasforma in gentilezza estrema. Non riesco a capire perché Marco li odi così, ma immagino sia per un semplice problema comunicativo.

Sanlitun è la via dei locali. Si immette su una grande strada su cui sorge anche lo stadio, ed è punteggiata da numerosi bar pieni di luminarie e musica, e grandi porte sempre controllate da “buttadentro”, ragazzi cinesi di bell’aspetto che assaliscono i passanti, soprattutto gli stranieri:”Hallo, Ssir!” gridano in cinglese, seguendo i malcapitati “Prease come in, have a looka!”. Davanti ai bar, venditori di sigarette e dvd pirata, anche loro, più discreti, che chiamano “Hallo!” a un tono più basso. Infine i ruffiani, cinesi sui quarant’anni, in giacca pseudo-elegante e maglione sotto, con la loro cantilena infinita e immutabile: “Hallo, Ssir? Cd? Vdc? Dvd? Sex? Lady Bah?”. Più uno dice di no e scuote la testa, più quelli si attaccano, ti seguono, alzano la voce, ad ogni no offrono una merce diversa. Col cinese li tengo più o meno a bada. Dopo il tramonto i ruffiani vengono direttamente sostituiti dalle ragazze, ragazze splendide che si offrono per “One hundred dollar OK?”. Quando scuoti la testa, rispondo “Ok fifty dollar ok?”. Non ho mai provato a contrattare, ma sono sicuro che possa scendere a molto di meno. Imbarazzato ma divertito, tiro avanti.


I bar di Sanlitun sono il posto dove si incontrano più occidentali a Pechino, e qui in effetti ne incrociamo alcuni. Ma Marco li evita volentieri, per mostrarmi invece la parte di Sanlitun che sta oltre i bar: una via fiancheggiata da grandi pini odorosi, con vecchi palazzi comunisti in mattoni, silenziosi, e metà delle ambasciate di Pechino, compresa quella italiana. Ci sono guardie dappertutto qui, e non mi sono mai sentito più protetto in vita mia.


Il giro continua per degli hutong, ovvero i vicoli della vecchia Pechino, le stradine larghe da tre a mezzo metro, che separano case a un piano, prove di servizi privati. Marco mi mostra come tutti questi quartieri stiano lentamente scomparendo sotto la spinta del progresso: ovunque le ruspe abbattono gli hutong e costruiscono grattacieli.


Il giro termina in un ristorante americano e poi in un negozio di Dvd, com’era prevedibile, ma sono grato a Marco per avermi fatto da anfitrione in questo paese. E’ attraverso i suoi occhi che conosco la Cina per la prima volta, e la sensazione che mi sopraffa più di tutte è la meraviglia. La sensazione di essere in un luogo completamente alieno e inimmaginabile, eppure il mio mondo, lo stesso pianeta dove ho sempre vissuto. E’ come aver scoperto un segreto, un tesoro, e sapere che a scavare una vita non verrebbe fuori tutto quello che c’è da scoprire.

2006-06-04

Città Sconfinata

DSC30283

Il primo giorno libero che ottengo decido di utilizzarlo per visitare la città. Con la mia mappa alla mano, studio il percorso da fare. Marco mi ha tirato pacco, preferendo stare da solo, a quanto pare, e così mi devo arrangiare. A giudicare dalla mia cartina e dalle proporzioni, stabilisco che potrei fare una passeggiata lungo una delle vie principali della città, la Jianguomen, che taglia Pechino da ovest ad est, passando diritta per piazza Tiananmen ai piedi della celebre porta con la gigantografia di Mao. Secondo le mie stime, ce la posso fare in circa quaranta minuti. Marco mi ha consigliato di prendere un taxi, ma io un taxi non l'ho mai preso in vita mia e mi sembra ancora una cosa per gente viziata; e sono un buon camminatore. Che ci vorrà mai?

Chiunque conosca Pechino, comprende che dall'hotel Dabei (100 m a est del Guomao) a Tiananmen c'è una distanza totalmente incompatibile con le mie stime. E' difficile per uno che ha sempre vissuto a Milano, pensando che sia una grande città, avere idea delle distanze a Pechino. Qui gli abitanti sono dieci volte tanti. Dopo circa un'ora mi sembra di essere arrivato: sono su un ponte stradale. Consultando la mappa, resto abbastanza deluso dal confronto dei nomi delle vie. Ho percorso la distanza che sta tra il terzo e il secondo anello della città. Sono un po' meno che a metà strada.

La strada sembra infinita. Ogni volta mi sembra di esserci, e non ci sono mai, e mentre cammino verso ovest il sole cala lentamente. Palazzi di proporzioni monumentali sfilano ai due lati della strada ad otto corsie. Incontro una ragazza che mi saluta: è una puttana, 小姐 (xiaojie) come le chiamano qui, le “signorine”, o 鸡女 (jinü), “donne-pollo”. Supero un arcobaleno fatto di luci al neon che incorona l'intera via. Più avanti raggiunto l'hotel Beijing, il più antico albergo della città, con uno stuolo di taxi. Un vecchio in triciclo mi assale offrendomi i suoi servizi.
"天安门远不远?E' lontana Tiananmen?" chiedo.
"很远!Lontanissima!" dice.
Non mi fido, e dopo soli altri venti minuti ci sono. Tiananmen, la piazza più grande del mondo. La porta del cielo, ora con il ritratto del Grande Timoniere. Sono talmente stanco che l'idea di attraversare la piazza mi distrugge: è veramente sconfinata. Faccio un giro breve, ma ormai il sole è calato. Per tornare a casa, quasi quasi, prendo un taxi. Il giorno dopo avrò i piedi piagati e farò fatica a camminare. Però, in questo posto sembra di vivere ogni giorno un'avventura.


2006-06-03

Il Lavoro


Finalmente il tempo mette al bello. La mattina è illuminata da un sole brillante che splende in un cielo sereno e blu come se un telo di seta fosse stato steso sopra la città. Il vento ha portato via le nubi, ma è ancora freddo. I raggi del mattino illuminano i grattacieli di cemento bianco e vetro, e la cupola dorata di quello che sta all'angolo del Guomao - il nome non l'ho mai saputo.
Complice il bel tempo e la mancanza del cappuccio, la gente si guarda attorno, e tutti guardano me. Sono un marziano, un alieno venuto da chissà dove. Mi guardano divertiti, incuriositi, stupiti.

Mi sto abituando all'ufficio. Ai ritmi duri del mio capo. Alle incomprensioni interculturali con i cinesi. Mi piace andare al lavoro, sentire il profumo del caffè fatto dalla 阿姨 (ayi, letteralmente “zia”), una signora di 50 anni alta meno di un metro e mezzo che viene a pulire, ma si diverte tanto a usare la macchina dell'espresso e sorride come una bambina; a mezzogiorno uscire a pranzo con Marco, con Vaira, o con gli altri colleghi cinesi. Mi ci trovo proprio bene: non ho mai lavorato prima. Nemmeno una distribuzione di volantini, un servizio in un bar, un call center… niente. Ho solo studiato. E lavorare mi piace… si creano risultati, si ha l'impressione di far fatica per rendersi utili. Mi ci trovo proprio bene, e sono felice.

Io e Marco conosciamo Linda, la ragazza che ha cominciato a lavorare il mio stesso giorno. Andiamo a pranzo assieme al San Carlo, un negozietto nel basement del Kerry Centre (il grattacielo accanto al Jingguang), fatto in stile italiano e che serve panini fatti all'italiana. Marco non mangia cinese.
Linda è adorabile, di una gentilezza da manuale, di una formalità perfetta che lì per lì mi fa sentire bene (solo più tardi scoprirò che tutti i cinesi per bene si comportano così, ma non per questo sono davvero gentili). Linda si scopre solo un attimo: quando arriva il cameriere. E' un ragazzo rasato a zero, vestito con pantaloni neri, camicia bianca e cravatta nera, il capo coperto da un cappellino con il logo del bar. Sorride con tutti i denti e gli occhi sottili, in modo teatrale come di addice ai cinesi gentili, e si prodiga nell'imparare l'italiano e servirci in tutti i modi possibili. In quel momento, Linda, per la prima volta da quando la conosco, smette di sorridere, e la sua bocca si conforma a un'espressione di fastidio. Io e Marco ci geliamo immediatamente.
"Questo ragazzo… " dice Linda in italiano "è un po' finocchio"
Il tono con cui lo dice è un'ondata di perbenismo che investe me e Marco come uno tsunami. Essere buoni e gentili con qualcuno non significa esserlo con tutti. Ci sono persone che vengono trattate bene, altre con cui non vale la pena di usare attenzione. La dolcezza, la misura, la gentilezza della forma cinese, così elegante e graziosa, hanno un altro lato - il conformismo. Chi non si attiene alla norma, chi non rispetta le regole non scritte della decenza, viene liquidato con fastidio. Quest'aspetto mi fa paura, perché è solo ora che inizio a scoprire i lati veramente negativi di questa civiltà.