2008-12-31

La Morte corre a Pechino


Nonostante il mio ufficio si trovi a un chilometro e mezzo da casa, molto spesso non ho voglia di camminare da un luogo all’altro, specie se sono carico di borse e se fa caldo. La mattina un taxi impiega meno di cinque minuti per portarmi al lavoro, ma la sera le cose non sono così facili. La Dongzhimen Wai Dajie nei pressi del ponte sul Secondo Anello, al cui incrocio si concentrano la fermata di due linee di metropolitana, la stazione degli autobus interurbani, l’Oriental Kenzo falso (il Ginza Mall, che però in cinese usa gli stessi caratteri dell’originale giapponese) più altri centri commerciali importanti, e il cantiere della monorotaia che condurrà all’aeroporto, è una delle vie più infami di Pechino per il traffico. Verso le quattro e mezza le sue sette corsie diventano un cimitero di veicoli che si muovo a passo d’uomo per un paio di chilometri, e solo attorno alle otto comincia a sfollare. Percorrerla durante un giorno qualunque richiede una ventina di minuti.

Il ventisei di giugno mi trovo al Jenny Lou di Sanlitun, esattamente nel punto in cui la coda inizia. Ho con me la borsa del lavoro, un sacco di pane regalatomi da una cliente panettiera, più due borse della spesa. Sono stanco e, giusto per aggiungere qualcosa, è una delle poche giornate l’anno in cui a Pechino piove. Sono a lato strada con il mio carico in mano e in spalla, bagnato e scocciato, e osservo una successione infinita di taxi occupati. Farla a piedi, non se ne parla.


E’ allora che mi passa di fianco uno degli strani veicoli di Pechino, un triciclo a motore con cabina chiusa, un posto di guida davanti e un sedile dietro. L’omino mi fa segno sorridente. Non ho mai preso un mezzo del genere, e oggi sembra proprio una buona occasione: con le sue dimensioni ridotte, può muoversi liberamente sulla corsia delle biciclette e portarmi a casa in un baleno.


Il tassista da triciclo, ovviamente abusivissimo, mi chiede 15 kuai che prontamente faccio scendere a 10. Mi fa accomodare sul sedile di dietro, chiude la porta con serratura semi-blindata, e per sicurezza tira le tende di pizzo ai lati, sai mai che qualche poliziotto lo veda fare il tassista abusivo. Si parte.

Il mezzo strombetta e borbotta a una velocità decisamente ridotta, facendo scansare le biciclette sulla strada. L’omino e la ride del suo passeggero laowai carico di borse. Un paio di minuti e la strada è fatta, siamo alla fine della Dongzhimen Wai, e i veicoli – macchine, camion e bus – cominciano a prendere velocità, gli autisti che premono aggressivamente l’acceleratore dopo la lunga e snervante coda. E’ coma la carica di una battaglia, tutti cercano di tirare i motore al massimo e andarsene dalla strada maledetta.

E’ in quel momento che un triciclo a pedali ci passa di fianco e l’uomo del risciò manda un avvertimento al mio pilota:
“Guarda che più avanti c’è la polizia”.
Il mio autista di gira:
“对不起”. Mi spiace.

Ti spiace di cosa, sto per chiedergli, quando quello, con un colpo improvviso, preme la frizione, gira il volante a sinistra e inverte a U. Ci troviamo davanti quattro corsie di auto, camion e autobus in accelerazione disperata. I clacson partono frenetici come le trombe della cavalleria. Il mio autista urla, mentre sterza per evitare di un soffio un frontale un bus carico di gente.

Il vostro eroe di solito mantiene un invidiabile calma anche di fronte alle situazioni più snervanti, ma questo è troppo. Un fiume di insulti e bestemmie, prima in cinese e poi, con la lucidità che scompare, in italiano, investe il tassista abusivo, che non fa altro che ripetere “Mi spiace, mi spiace” e zigzaga con il suo triciclo tra camion e pullman. I veicoli ci sfrecciano di fianco, i clacson pigiati, vedo le facce degli altri guidatori terrorizzati e sento il triciclo che traballa per lo spostamento d’aria causato dai mezzi più grandi.
“Sterza, attento, stai sulla sinistra, ma Cristo, sei un criminale, te e tutta la gente che ti conosce e non ti ha impedito di salire alla guida di questo sputo di triciclo!!!”
“Mi spiace, mi spiace, non posso andare avanti, c’è la polizia!”
“Sì ma qua crepiamo in due, stronzoooooooo!!!”

Facciamo duecento metri in contromano, causando un notevole panico lungo tutto il tratto finale della Dongwai. Autobus che sterzano di colpo, macchine che inchiodano, gente che lancia insulti contro il triciclo impazzito. Cerco di aprire al porta ma è bloccata, non posso scendere. Investo di altre maledizioni il mio autista, che finalmente si infila in una laterale e parcheggia alle spalle di un muro. Spegne il motore, si gira e se la ride. Allunga il braccio e, con un colpo ben assestato sulla serratura blindata, la apre.

Scendo, recupero le borse, non so se prendere a botte il tizio, che rimane barricato nel triciclo chiuso.
“Mi spiace” ripete, ridendo.
Prendo le borse e me ne vado. Alle spalle mi raggiunge la voce dell’omino.
“Hey, guarda che hai dimenticato di pagare”
Lo ignoro con uno sforzo di volontà.
“Almeno dammi cinque kuai!” mi grida.
Mi volto. Lo guardo fulminandolo. Un grosso “vaffanculo” lo investe in pieno. Ma guarda te.

Mi volto e riprendo a camminare verso casa, sul marciapiede. L’omino non chiama più, ha capito che non gli conviene.
Questa è la prima e l’ultima volta che salgo su uno di quei tricicli. Ve lo giuro, potete essere le persone più pazienti del mondo, ma la Cina sarà sempre più forte della vostra pazienza.

Anche per oggi siamo vivi. Domani? Va la’ che stasera accendo una bacchetta d’incenso per ringraziare il Cielo.


2008-12-29

28 anni


Il 23 giugno compio 28 anni, e mi piacerebbe riunire qualche buon amico e fare una bella cena. Ma è sabato, e siccome la maggior parte dei miei amici lavoro nel settore dell'ospitalità e dei ristoranti, sposto la cena a lunedì, giorno non lavorativo.

E' quindi il 25 giugno. L'estate è ormai sbocciata, l'afa ha raggiunto Pechino, ma quel giorno tira vento, qualcosa si smuove: nell'aria c'è un odore di pioggia, di movimento, una strana elettricità che rende il momento magico. E' come se dopo tanto stagnare, il Cielo di Pechino abbia deciso di smuoversi, ripulirsi, rinnovarsi...


Dopo il lavoro mi preparo a casa con Strangefolk dei Kula Shaker a palla. Eccomi: i miei jeans più comodi, un paio di sandali di cuoio, una maglietta di lino rosa in stile indiano, nulla di più. Esco di casa con in braccio un cartone di vino – tre bottiglie di Verdicchio di Matelica e tre di Nero d'Avola, con cui brindare alla mia nuova età. Quando arrivo al pianterreno trovo un piccolo gruppo di persone, tra cui il mio vicino di casa gentile, quello che mi saluta sempre: oltre la tettoia stanno cadendo i primi goccioloni che, in pochi secondi, sfociano in un rabbioso temporale estivo, quasi un monsone. Rimango a guardare la pioggia che finalmente cade a lavare la città, quasi ipnotizzato, con il cartone di vino ancora in mano. Il mio vicino estrae un pacchetto di sigarette, me ne infila una in bocca, me l'accende, e quindi ne accende una per sé. Rimaniamo così, in attesa corale, mentre Dandan corre a cercare un ombrello su a casa. Quando torna, meno di cinque minuti dopo, non ho ancora finito la sigaretta, ma la pioggia è cessata. Il cielo è plumbeo, soffia ancora un vento caldissimo da Sud, sopra le nubi danzano tuoni e fulmini che a tratti illuminano la città coperta di grigio. Prendiamo al volo un taxi e ci dirigiamo al ristorante.


Il Gold Barn è difficilmente categorizzabile: appartiene a una ricca donna d'affari sichuanese, ma lo stile è quello coloniale della case shanghainesi d'inizio secolo, con mobili all'europea in legno massiccio, gusto semplice ed essenziale, gran copia di tovaglie e tende di lino e cotone color panna e con i bordi a pizzo, piante d'appartamento in grandi vasi neri, con tronchi spessi mezza spanna e le lunghe foglie tipiche dei tropici. Alle pareti, quadri di moderni artisti cinesi, con le loro forme tondeggianti che ricordano Botero. La cucina è un misto tra sichuanese e occidentale, con una serie di interpretazioni di piatti classici d entrambe le cucine: cosa rara, il risultato è piacevole e interessante. Veniamo accolti da un suono di sitar che è quello di “Love You To” di George Harrison, e dal sorriso di Annie, la manager – uniforme formale, taglio di capelli a caschetto scalato, occhi neri pericolosi come solo certe donne cinesi, e solo quelle molto belle come Gong Li, riescono ad avere. Le lasciamo il vino e saliamo la grande scala di legno verso il piano superiore.


Qui veniamo salutati da Sasi, originario di Chennai e tipico maître indiano – sorridente, accomodante, gentile ma con quel meraviglioso distacco da middle class anglo-indiana che, alle domande impreviste, permette di rispondere, senza esitazione, con un elegante gesto del capo che lascia sempre gli stranieri disarmati, a chiedersi se significhi sì, no, oppure forse. Sasi ci fa accomodare nella sala di vetro, un angolo del ristorante con quattro lati - tre pareti e il soffitto – costituiti da grandi vetrate che danno la vista sugli alberi della Sanlitun Beixiaojie e sul cielo ormai scuro.


A “Love You To” seguono tutte le altre canzoni di “Yellow Submarine” dei Beatles – Lucy in the Sky with Diamonds, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, Eleanor Rigby, e con esse cominciano ad arrivare gli invitati. C'è Alexia la mia collega nata a Lione ma cresciuta a Pechino; c'è Irene, c'è Viola, ci sono Federico e Zhou Yu, c'è Dom. Accompagnando i discorsi con piatti fusion sichuanesi e vino italiano, si parla di spiritualità – comincia Zhou Yu, il cui libro di filosofia della storia comparata ha preso una piega mistica: negli ultimi mesi Zhou ha letto una gran quantità di libri di filosofia orientale, interessandosi tra gli altri ad Aurobindo e alla Madre: gli racconto quindi della mia esperienza nell'ashram di Pondicherry. Zhou ha intenzione di studiare meglio il rapporto tra buddhismo nel suo passaggio dall'India alla Cina andando a vivere in una scuola per lama nel Qinghai per qualche mese. Ha intenzione di partire la settimana seguente. Non smette mai di stupirmi, Zhou Yu. Dom parla degli anni in cui ha vissuto in Indonesia con la moglie e la sua famiglia, e dei vari maghi della regione che, tramite “diete bianche”, possono far passare dei chiodi attraverso il corpo senza subire ferite. In generale si parla del piacere e della sua importanza nella vita, si parla della scelta di perseguire il piacere oppure fini diversi. Ciascuno esprime il proprio punto di vista, la propria opinione, e si tratta sempre di opinioni diverse ed interessanti, come speciali e interessanti sono le persone riunite attorno al tavolo. E' la conversazione perfetta per il mio compleanno.


Mentre Dandan tira fuori una fantastica torta al cioccolato e gli invitati cantano gli auguri, chissà perché i Beatles intonano “When I'm 64”: “Will you still need me, will you still feed me when I'm sixy-four?” canta John Lennon, e Dom si unisce a lui, chiedendomi una “risoluzione” per il mio ventinovesimo anno di vita. La mia risposta viene naturale: coltivare la mia spiritualità, così facile da perdere lavorando in una grande città globale come Pechino. Per fortuna, di tanto ci sono serate tempestose in cui l'afa opprimente viene rotta, e l'anima improvvisamente respira, accorgendosi d'essere viva e vegeta. Questa è una di quelle serate.

“He called up to the angels he called into the deep
Said 'God if you can hear me give me some relief'
And He didn't ask for favours didn't want to ask for gold

Only one possession - possession of a soul

'I'm begging for your mercy I'm begging to you please
I'm just a simple traveller lost upon the sea'

And it kinda stands to reason

It was hurricane season
Hey-hey-hey-hey”
“Hurricane Season” by Kula Shaker, from the album “Strangefolk” (2007)


2008-12-08

Il letto rotto

Com'è, come non è, abbiamo rotto il letto.

Non è che io nell'intimità sia un toro, nonostante qualcuno la pensi diversamente, ma semplicemente è che l'IKEA falso costruisce i letti alla cinese. Come sono fatti i letti alla cinese, chiederete voi. Con i materiali che costano meno, vi rispondo io. E' per questo, del resto, che Wang Li ha scelto di comprare da IKEA falso e che anche io ho seguito le sue orme portandomi a casa scrivania, libreria, armadio e mobile da scarpe a 1000 kuai consegna inclusa.


Mi immagino in questo momento il progettatore dei mobili IKEA falso, ovvero un laureato col minimo dei voti in ingegneria dei materiali piegato su una scrivania in uno scantinato buio buio, pagato appunto 1000 kuai al mese per copiare i mobili IKEA, quelli originali però. Sta illustrando al suo principale, che dev'essere probabilmente un laoban di quelli col borsello in finta pelle sotto l'ascella e le sigarette Chunghwa pacchetto oro nel taschino della polo di viscosa 100%, le caratteristiche del progetto. Il laoban guarda il modello, si accende una sigaretta, e poi commenta che i piedi del letto sono l'unica parte che si vede, e quindi devono essere lucidi, il resto invece no, può anche far cagare basta che costi poco. L'ingegnere dei materiali laureato all'università di Tangshan annuisce con gravità, come se avesse ricevuto un insegnamento di vita dal Buddha del Paradiso Occidentale in persona, e dichiara “Hao de, hao de! Mei wenti!”. Ed è così che mi ritrovo in casa un letto con la struttura, la rete e le gambe in ferraccio brutto ma resistente, e i piedi in un bell'alluminio lucido lucido. Se aggiungiamo che i bulloni che li legano al resto del letto sono tutti di misura diversa e quindi tendono autonomamente a svitarsi ogni volta che qualcuno si siede sul letto o si alza, vi immaginate cosa possa essere successo. Il sottile disco di alluminio si piega, la gamba si piega, il letto di inclina su di un angolo a mo' di Titanic.


Chiamiamo Wang Li: il letto d'altra parte l'ha comprato lui, quindi la responsabilità è sua. La soluzione naturale di Wang Li è la seguente: spostiamo il letto rotto nella camera degli ospiti, quello della camera degli ospiti in camera nostra, e il gioco è fatto. Era tutto un semplice problema di allocazione! Quando gli faccio notare che non sono per nulla contento di avere un letto obliquo nella camera degli ospiti, visto che gli ospiti cui la camera è idealmente dedicata non ci possono dormire, e anche a camera vuota non ci posso nemmeno appoggiare sopra delle cose, Wang Li sospira e concorda che qualcosa va fatto. Prontamente quindi ci assicura tutto il supporto possibile, comunicandoci il numero di telefono dell'IKEA falso (che già avevamo) e suggerendoci di telefonare a loro. Anche l'IKEA falso di dimostra totalmente disponibile: “Portateci il letto che ve lo sistemiamo gratis!”. E a nulla vale spiegargli che a noi basta che ci spediscano delle gambe nuove che le montiamo autonomamente: o gli portiamo il letto intero, o nulla. E' una gara a chi scarica meglio la responsabilità facendo finta di aiutare, e non c'è modo per uno straniero come me di vincere in una disciplina che in Cina è nazionale almeno quanto il ping pong e il wushu.


Dopo la prima notte passata nella camera degli ospiti, proviamo quindi a negoziare con Wang Li una soluzione radicale: ci procuriamo un letto nostro, a spese nostre, e il suo letto rotto finisce giù dalla finestra. A Wang Li piace la prima parte della proposta, ma non la seconda: se dovesse riaffittare l'appartamento dovrebbe ricomprare un letto nuovo: uno spreco ingiustificabile. Quindi trova un'altra brillante soluzione basata sull'allocazione delle risorse e suggerisce di mettere il vecchio letto altrove: non certo a casa sua che non ha spazio, ma nel nostro appartamento di 70 mq, il che significa sulla veranda, che è l'unico spazio inutilizzato e che verrebbe occupato quasi totalmente. La nostra controproposta rassegnata è che il suo letto va comunque giù dalla finestra, ma ci assumiamo l'onere di ripagarglielo, tanto è un letto IKEA falso e costa tutto insieme forse 500 kuai. L'accordo è raggiunto.


Io e Dandan ci mettiamo quindi in moto il primo sabato libero e ci rechiamo da IKEA vero alla ricerca del nostro nuovo letto. Per qualche assurdo motivo, i letti IKEA in Cina costano come in Italia, ovvero come minimo 2-300 euro, ma anche di più, e per livelli di qualità che francamente lascerei stare. Ce ne torniamo quindi a casa senza letto, ma con una libreria, una scarpiera e due portariviste di vimini di qualità fenomenale, comprate per meno di 200 kuai a bordo strada, al mercatino del mobile abusivo che si tiene ogni giorno davanti all'IKEA vero.


Ed eccoci qua: in una casa con dei bellissimi mobili di vimini intrecciato e un letto che rimane tuttora piegato a 20° verso sudovest. Comunichiamo a Wang Li che non se ne fa più nulla, non prendiamo nessun letto nuovo, ma ripariamo quello vecchio. Il giorno seguente, domenica, andiamo all'IKEA falso con la gamba piegata e il piede d'alluminio divelto e ce lo facciamo cambiare. La responsabile, sarà che sono straniero, cambia tutto gratuitamente senza fiatare. In più mi faccio dare una quantità di bulloni aggiuntiva per rafforzare tutte le giunture. Nel tardo pomeriggio Wang Li si presenta a casa nostra e insieme facciamo le revisione ai letti (il nostro e quello della camera degli ospiti), raddoppiando appunto i bulloni e stringendoli saldamente (guarda caso erano tutti molli). Il letto è riparato, e ha un aspetto un po' più sicuro di prima. Wang Li commenta che sì, il letto probabilmente non è di qualità eccelsa, ma possiamo dargli una mano a sopravvivere a lungo se evitiamo di sederci agli angoli: “Sedendosi a metà il peso è distribuito su due gambe, non su una” e per sicurezza ci fa anche vedere il modo in cui è bene sedersi. “Hao de, hao de” gli rispondiamo increduli, per mancanza di fantasia. Sta' a vedere che ora dobbiamo anche stare attenti a come ci sediamo sul nostro letto.


Ed eccoci ritornati, come in un circolo, alla situazione iniziale. C'è un che di filosofico, in tutto questo, un che di zen perché – badate – il problema non è stato risolto ma semplicemente rimandato. Le gambe nuove del letto hanno ancora i piedi di alluminio e i bulloni spaiati, e qualunque attimo di passione potrebbe essere quello fatale, riaprendo di nuovo il circolo eterno dei problemi del letto. Forse è tutto un problema di feng shui, ma stasera non ci voglio pensare. Voglio solo farmi una bella dormita sul mio letto orizzontale.

2008-11-24

Il Comitato di Sicurezza Pubblica

In vista delle Olimpiadi, la società civile si sta già mobilitando per dare una mano alle forze dell'ordine nel garantire la sicurezza durante i Giochi. Uno degli scopi che si sono dati molti gruppi, e in particolare i comitati di condominio e xiaoqu, è quello di censire parallelamente tutti gli stranieri nell'area di loro competenza e sensibilizzarli sull'importanza di essere in regola con le registrazioni alla polizia.

Ed ecco quindi due sciure cinesi sui cinquan'tanni, classica giubba di colore smorto e capello riccio e tinto, un generico panzone sui trent'anni evidentemente disoccupato, e una poliziotta sui quaranta in divisa, evidentemente scoglionata per dover star dietro agli altri tre civili per tutta la giornata. I tre bloccano l'uscita del mio ufficio che si trova in un complesso residenziale, e fermano tutti gli stranieri facendo domande evidentemente strambe (lo deduco dall'espressione persa degli stranieri). La poliziotta sta in disparte, non volendo sporcarsi le mani o forse cercando di far credere che lei non conosce i tre ed era lì per caso.


Arrivo io. Mi scorgono da lontano mentre scendo dal taxi, si agitano, indicano e confabulano. Mi avvicino ostentando sicurezza. Il panzone fa un passo avanti intercettandomi, ha già il fiatone per l'eccitazione.

“Halo? Du yu heva sis?” e mi sventola davanti agli occhi un foglio di residenza, senza peraltro darmi l'opportunità di guardarlo. Non so se è aggressivo per compensare alle sue insicurezze oppure davvero gode nel fare il paladino della legge e rompere le scatole. Poco importa. Ci sono tre risposte che uno può dargli: “Sì”, nel qual caso chiede che il permesso sia esibito e il numero di passaporto e registrazione siano scritti su un figlio da una delle due sciure. “No”, nel qual caso la poliziotta dovrebbe portarmi in polizia, registrarmi e multarmi per la mia mancata registrazione al mio arrivo. “Non lo so”, nel qual caso il saccente panzone darebbe una lezione di diritto amministrativo dell'immigrazione nel suo stentatissimo inglese.

Conosco i miei polli, sono troppo prevedibili. E quindi dico, con un lieve tono scocciato e una punta di strafottenza:
“Non abito qui”.

Cerco di non ridere alle loro espressioni. Si guardano, sperduti, nei loro occhi si legge la domanda: “E adesso cosa facciamo?”. Chi non abita qui non è di loro competenza. Non si erano mai posti il problema prima – come avevano potuto dimenticarsene? – eppure ora si trovavano davanti alle drammatiche conseguenze della loro mancata previsione. Chi entra ed esce non necessariamente, del resto, abita nel complesso. Non sanno cosa dire, non sanno cosa fare. La poliziotta storta la bocca, ma non dice nulla. Guardo il panzone facendo leva sulla sua insicurezza, attendo una risposta e lui me la deve dare, se no perde la faccia. Lui abbozza un sorriso nervoso: “Non abiti qui? Allora, nessun problema, passa pure!”.


“Grazie!” dico “molto gentile!” ed entro, diretto al mio ufficio.


Lo ripeto. In Cina tutto si può fare, basta sapere come farlo.



2008-11-10

Green T. House

Uno dei posti più visionari, folli ed eleganti di Pechino è la Green T. House (http://www.green-t-house.com/), un ristorante di cucina fusion aperto diversi anni fa da due sorelle cinesi. Una Jin Er, musicista, designer, chef, è la vera creativa alle spalle del progetto; l'altra sorella, Sapphire, è la businesswoman, quella stronza e aggressiva che fa sì che nessuno metta i piedi in testa all'attività di famiglia, come nella migliore tradizione cinese. Da quando ha aperto, in un piccolo angolo nascosto della città, nel 1997, la Green T. House è diventata un'istituzione, ovvero uno dei pochi posti eleganti, ma veramente eleganti, dove portare gli ospiti da fuori Pechino.

Ecco come descrivo il locale in poche righe, pubblicate su That's Beijing del Giugno 2007, in occasione della premiazione del ristorante nella categoria “Best to Impress Visitors”:

"Green T. House's decor is simply outlandish. The moment you cross the door, you feel like you've entered a faerie-land, where everything is oddly elegant and weirdly beautiful. Nobody would expect to find a place like this in China, let alone in Gongti Xi Lu"

Non ci sono davvero parole per descrivere il luogo – pareti bianche, pezzi d'arrendo bianchi e neri, non una coppa da tè uguale all'altra, non un tavolo uguale all'altro. Al centro della sala un tavolo lungo con sedie dallo schienale altissimo, che si appuntisce come il tratto di un pennello. Sulla sinistra, un tavolo tondo con divani in pelle di mucca, e dal lampadario si dipartono numerosi fili di metallo flessibile che trafiggono pagine di poesie di Guillaume Apollinaire. Sulla destra, appesi al soffitto, scheletri di piante simili a coralli.

I piatti sono composizioni artistiche fatte di cibo e ceramiche giapponesi, una mescolanza di gusti che predilige comunque l'Oriente e la Cina, che stupisce. E che dire della cucina e del servizio. Be' altre per essere a Pechino, anche se ben lungi dalla perfezione che conosciamo altrove nel mondo. Capita il cameriere che non capisce l'inglese, nessuno certo sa interloquire col cliente e consigliare un piatto, e quando il ristorante è pieno può succedere d'essere serviti tardi e con un piatto freddo. Ma chi vive in Cina è abituato a questo – per qualche motivo, in questo Paese di un miliardo e trecento milioni di persone non si trova un singolo cameriere decente. E' un po' come per i calciatori. Chissà perché.

Ma poco importa – non si va alla Green T. House per avere un buon servizio o per mangiare bene, sebbene molti patti siano estremamente interessanti. Ci si va per farsi stregare, entrare in un sogno fatato, e trascorrere qualche ora in un mondo che non è il nostro, in cui le nostre fantasie sono libere di esistere al di là della luce inflessibile della città che sta fuori.

In poche parole, questa è la Green T. House.


2008-10-26

Veggenti

E' una sera di giugno, e sto lavorando come un matto da tre settimane per una serie di eventi che si stanno concretizzando proprio in questi giorni. Sono davanti all'Oriental Plaza, uno dei mall più moderni e pettinati della città, su una scalinata imponente che, da una piazza con una fontana scende verso la Chang'an Jie, la strada a dodici corsie che taglia Pechino a metà tra nord e sud. Insieme alla mia collega Cherry, originaria dello Henan, stiamo aspettando il gotha aziendale, per portarli in un ristorante scicchissimo nel mall stesso.

Ed è proprio mentre i miei occhi scandagliano la strada cercando di trovare il taxi degli ospiti che aspettiamo, che mi si para davanti un vecchio. Vedere un vecchio in questa zona è già abbastanza strano – la Pechino moderna appartiene alla nuova generazione di giovani intraprendenti, non a quella vecchia e ancora legata alla logica dell'azienda statale. Ma chi ho davanti non è un vecchio qualunque come ce ne sono qui – occhialini, abiti dimessi o al più vecchia uniforme maoista, scarpe cinesi di tela nera, aria riservata e molto pacata. Il vecchio tanto per cominciare non è poi tanto vecchio, ma solo estremamente sfatto: avrà forse cinquant'anni ma ne dimostra settanta. E' coperto di stracci, ma stracci genuini (non gli stracci dei mendicanti che sono più una mascherata tragica che altro); indossa dei sandali, una sacca-zaino da vagabondo e ha una barba lunga e appuntita da taoista. Mi guarda negli occhi spiritato, e mi prende la mano, esaminandola con aria interessata e professionale. “Mmmh... “ annuisce. Poi mi guarda ancora, stavolta meno inquietante, e mi chiede se può leggermi la mano: fanno solo venti kuai. Lui, beninteso, è un veggente itinerante originario dell'Anhui; Cherry, che viene dallo Henan ed è più che scafata, si dimostra scettica, ma non interviene trattando con tolleranza il mio bisogno occidentale di pittoresco. Normalmente direi anche di sì, ma siccome sto lavorando, gli pongo la condizione di muoversi – e siccome ormai ho assimilato anche un po' di cinesità, negozio: previsione espressa, metà tempo, metà prezzo. Il vecchio accetta e, facendo tradurre a una divertita Cherry, mi spiega cosa vede.


Questo mese, il giugno-luglio (lui si esprime in mesi lunari cinesi, ovviamente) del 2007 è un ottimo periodo, il migliore dell'anno. Anche l'anno è un anno buono, ma quello che verrà sarà molto più impegnativo. Sono una persona con una mente sveglia e forte, di ottima cultura, facile all'apprendimento; sono anche fortunato in amore, così fortunato che posso anche avere due donne, l'importante è che stia lontano da quelle del segno del Topo, che mi porterebbero sfortuna (penso alla mia ex del Topo e annuisco).


Poi arrivano i nostri ospiti. Cherry li vede arrivare in macchina. “Per favore, chiudi che dobbiamo andare” dico al veggente, ma quello non sembra di fretta.


Il miglior periodo della mia vita sarà tra i 33 e i 43 anni, poi avrò qualche problema, forse di salute ma non necessariamente.


“Ora devo proprio andare!” dico, ma il vecchio non mi molla la mano. Cherry va incontro agli ospiti, io cerco di divincolarmi ma senza troppa convinzione. Chissà perché, è difficile trattare i veggenti in modo brusco: forse ha a che fare con una paura superstiziosa dei loro poteri, oppure con il transfert che subiamo nel momento in cui questi cominciano a descriverci la nostra vita come se la conoscessero meglio di noi.


L'ultima parte della mia vita, dice – e stavolta me la devo cavare senza traduzione - filerà comunque molto liscia, almeno fino agli 89 anni, perché la mia linea della vita è eccezionalmente lunga (penso che se si basa sull'aspettativa media dei cinesi, forse potrei anche vivere fino a 120 anni).


Poi finalmente mi molla. Prendo il portafoglio e mi accorgo che non ho 10 kuai spicci, ma solo 20. Glieli allungo chiedendo il resto, e guardandomi alle spalle mentre il mio capo e gli ospiti intanto mi passano di fianco e mi guardano come dire “Che poca professionalità, noi siamo arrivati e quello si sta facendo leggere la mano da un barbone”. Il veggente ravana a lungo nella sacca, giocando sulla mia premura, ma oramai il peggio è passato, e non può peggiorare. Finalmente trova una banconota stropicciata da 10 kuai che prendo e infilo nel portafoglio. Lo saluto, ringraziandolo, e scappo per raggiungere la mia comitiva.


Sembra la scena di un film, ma Pechino è anche questo – il sorprendere, il rompere la monotonia della vita prevedibile. E il veggente ci ha preso, chiederete voi? Mah... certamente che il 2008 sarebbe stato un anno difficile è stato verissimo, e questo lo scoprirete leggendo i futuri post. Che io abbia una buona mente non sta a me dirlo, ma posso dire di essere stato abbastanza fortunato in amore, anche se effettivamente le donne Topo sono state tra quelle più problematiche nella mia vita sentimentale. Due donne allo stesso tempo non le ho ancora avute né prevedo di averne. Il resto ha ancora da venire, quindi dovrete portare pazienza come la porto io.


Per quel che mi riguarda, non ho troppa fretta di scoprirlo. Per adesso sono qui, e mi godo questa imprevedibile, cinematografica Pechino.

2008-10-12

Russi

Ho già raccontato in precedenza di avere una vicina russa, Inna. Mi capita una sera di incrociarla sul pianerottolo, e quella mi dice che sta a casa con degli amici, e mi invita a unirmi. Ben venga, per dimostrare la mia buona volontà mi presento con una boccia di Nero d'Avola, ed eccomi nel salotto della mia vicina.

L'appartamento è speculare al mio, solamente che invece del parquet in linoleum ci sono delle gelide piastrelle. Le luci al neon bianche invece sono le stesse. Nella sala c'è un divano, un tavolino basso, delle sedie e una TV su un mobiletto, praticamente come nella mia. Due personaggi sono già seduti con delle bottiglie di birra Baltika in mano. Una si chiama Inna, proprio come la mia ospite: grassoccia, naso a patata, fondi di bottiglia sugli occhi, mi fa un sorriso e mi saluta. L'altro è Vova, da me conosciuto come il tamarro del palazzo, un minorenne alto più di me che ama scarabocchiare in cirillico sui muri delle scale e pimpare il suo motorino con improbabili stereo per aumentare il volume della musica techno russa. Non mi ha mai salutato né sorriso, invece ora allunga la mano affabile, con quell'aria un po' losca tipica degli slavi che più ti sorridono più ti fanno pensare che ti stanno fregando.

Inna la vicina fa la manager in un ristorante di fronte al compound diplomatico di Gongti Bei Lu. Si vede che è brava e si sbatte, anche se il posto è talmente pacchiano che non mi sono mai azzardato ad entrare. L'altra Inna lavora in una non meglio precisata trading, e anche lei è una ragazza seria, con la testa a posto. Vova ha 17 anni, vive con la madre che è la classica signora russa biondissima, algida, leopardata e con due seni di dimensioni impossibili; il padre non è ben chiaro dove sia. Va a scuola a Pechino, ma con scarsi risultati: poco male, perché tanto lui odia la scuola, odia la Cina e vuole fare il DJ; nell'attesa di diplomarsi ed uscire di casa, spaccia hashish.

Le due Inna sono poco impressionate dalla mia boccia di vino – una non ne beve, l'altra lo beve solo bianco. Vova invece individua lo status symbol del ricco pappone e, praticamente da solo, svuota la bottiglia. I tre hanno un computer che, sul Windows Media Player, suona musica techno russa: Vova intanto si diverte a mostrare dei video, forse scaricati da Youtube, con delle gratuitissime scene di violenza tipo: cinque ragazzi russi che si picchiano (e non parlo di pugni allo stomaco, ma di colpi di anfibio in faccia e gomitate alle tempie), soldati russi che, ridendo, stanno fermi in fila con un sergente che, uno a uno, li prende a ginocchiate nello stomaco, tre amici che litigano e a sorpresa uno tira fuori una catena e colpisce un altro; il terzo prova a dividerli e si becca un colpo di catena anche lui, quindi inizia una rissa reale in cui tutti picchiano tutti finché altri passanti intervengono per aumentare il livello di violenza e sangue.

Vova si spancia ma le due Inna, al contrario di me, non sono per nulla impressionate. La mia vicina mi spiega “This is how Russian young people like to have fun. It's normal in Russia. Everybody does it”. Vova è molto fiero di sé stesso e della sua nazione in questo momento, almeno finché Inna non chiude amareggiata con: “I come from Vladivostok. No way in going back to that shit”. Vova dissente: lui la Russia la idealizza: altro che 'sto paese di debosciati, dice, in Russia c'è da divertirsi! La seconda Inna concorda con l'amica. La Russia è un postaccio e a Pechino, se uno ha voglia di lavorare onestamente, si sta molto ma molto meglio. Scopro quindi che la maggior parte dei russi di Pechino, come mi spiegano, è siberiana: gente di Vladivostok, di Irkutsk e del resto della Russia orientale.

I russi sono la comunità europea più antica a Pechino, e la loro ambasciata, circondata da un enorme parco all'interno del Secondo Anello, ne è testimonianza. Esiste addirittura un quartiere russo a Pechino, con una via, Yabao Lu, dove i negozi hanno insegne in cirillico e vendono pellicce e altre cose importate direttamente da oltreconfine. La sera la zona diventa ovviamente losca, con una serie di night club tra i più costosi della città, se non altro perché le bionde comandano prezzi ben più alti delle orientali, e questo in tutta l'Asia. Non ho idea di quanti russi ci siano a Pechino, ma sono tanti, forse la comunità straniera più estesa, e ad essi si aggiungono i russi cinesi, quelli che qui vengono definiti “cinesi appartenenti alla minoranza etnica russa”.

Per tutto il tempo i miei compagni di bevuta hanno continuato a interloquire tra loro in russo, utilizzando l'inglese solo per parlare direttamente a me. All'aumentare dell'alcool e fondamentalmente della noia e della stanchezza, succede che finiscono a parlare tra loro praticamente dimentichi della mia presenza, se non ogni tanto Vova che alza il bicchiere per brindare con me. Dopo un quarto d'ora che nessuno mi rivolge la parola, totalmente escluso dalla conversazione e annoiato a morte dalla techno russa, mi congedo. Vova, mescolando birra e vino, è bello alticcio e quando gli lascio il fondo della bottiglia decide che sono diventato suo amico, e quindi mi invita a chiamarlo nel caso mi servisse dell'hashish. “Anytime, you just call me, I can bring you the next day!”. Grazie, dico, ti farò sapere. Inna mi saluta calorosamente e mi invita a tornare quando voglio, l'altra mi sorride con simpatia, e non capisco sinceramente se si rendono conto che mi sono annoiato da morire. O forse è colpa mia, quando loro mi hanno invitato a bere qualcosa da loro intendevano che bere era lo scopo della serata, e si aspettavano che mi ubriacassi invece di far conversazione tutto il tempo.

Torno a casa sorpreso da questa strana gente. Saranno anche d'origine europea, ma per me i russi son più strani che i cinesi. Senz'altro condivido l'opinione che qui sia molto meglio che nel loro Paese, se non altro per l'ospitalità della gente. Mi fa piacere comunque aver conosciuto questi russi pechinesi e aggiungere un tassello alla mia comprensione di questa città, all'apparenza così semplice e monolitica, e invece così antica e complessa.

L'importanza del come e non del cosa

Una delle sicurezze di ogni lavoro è quella dei problemi, dei guai, dei casini. In gran parte delle aziende, il lavoro quotidiano di impiegati e dirigenti è proprio quello di prevedere, affrontare e risolvere i problemi. Quasi tutti voi sarete familiari con i problemi che normalmente occorrono in Italia: ci sono cose che si possono fare, cose che non si possono fare, e cose che non si dovrebbero fare ma si fanno lo stesso, ed è meglio che nessuno venga a saperle. Tre categorie semplici e chiare. In Cina, come forse immaginerete, non è così.

In Cina tutto si può fare, dipende COME lo si fa. C'è un modo particolare di fare ogni cosa: se non lo si conosce, ci si arena sulle cose più elementari e sciocche. A causare i guai non sono mai i grossi problemi, perché tutto si può risolvere, ma sono quelli piccoli, talmente piccoli che non li si era previsti e spesso li si sottovaluta, fino al giorno in cui ci rendiamo conto di essere sommersi da un mare di impedimenti stupidissimi a cui non saremo mai in grado di far fronte, e intanto l'azienda è paralizzata.

Gran parte di questi stupidi problemi sono causati dalla superficialità dello staff cinese non esperto. Se avete lavorato in Cina, sapete che occorre dare ordini chiari, precisi, semplici, univoci, eliminare qualunque possibilità di sorpresa, e controllare costantemente tutto quello che viene fatto, dall'inizio alla fine. Altrimenti, è l'inferno.

Veniamo all'esempio: un bel giorno chiedo a Sophia, la nostra segretaria-interprete-ricercatrice con grande esperienza in aziende straniere, di chiedere dei preventivi per il trasporto refrigerato via camion tra Shanghai e Pechino. Lei dice “OK”, immediato campanello d'allarme; se non fanno domande, o non hanno capito, o non stavano ascoltando. Infatti il giorno seguente Sophia mi risponde a voce. “Ci sono diverse aziende che lo fanno, una a tot alla cassa, una tot al chilo, un'altra invece dice che devi riempire il camion”. Le chiedo cortesemente di farmi un foglio excel, e dopo tre volte che glielo faccio rifare comincio a capirci qualcosa. Tutti i preventivi sono fantasiosamente alti, tipo che una spedizione aerea Milano – Pechino mi costa meno. Però Sophia, nella sua bravura, ha trovato uno che ci fa un prezzo bassissimo, e si capisce che si aspetta che io dica “OK, lo prendiamo”. Invece, dall'alto della mia esperienza in Cina, rispondo: “Il camion refrigerato ce l'hanno?”.
“Be', no” risponde candida “hanno un normalissimo Jinbei, ma dicono che possono cospargere il vano trasporti di ghiaccio, se occorre”.
“Sophia, lo sai che tra Pechino a Shanghai ci sono almeno 24-36 ore di autostrada?”
“Sì, perché?”

Non credete che questo sia un caso isolato. Quando ho lavorato alla mia vecchia azienda, abbiamo spedito salumi freschi per almeno sei mesi in camion refrigerati (refrigeratissimi, ce li avevano persino fatti esaminare, erano impeccabili) per tutta la Cina, incluse le regioni tropicali dove facevano 45 gradi all'ombra e umidità 90% nei giorni freschi. Poi un giorno siamo andati a vedere il magazzino di Canton: un garage da automobili con due frigo da supermercato, stipati di salami coperti delle muffe più strane. Siccome avevano calcolato male la capacità, un buon 60% della merce era fuori dal frigo, perché non ci entrava, e vi lascio immaginare il colore. L'odore no, perché erano sottovuoto, e per questo probabilmente il magazziniera aveva pensato che era OK proporli così ai clienti stranieri, che quelli sai che porcherie si mangiano – se c'è il formaggio con la muffa, ci sarà anche il salame con la muffa, no? Io l'avevo presa bene, il responsabile produzione, che era in Cina da meno tempo, era diventato viola e ne aveva dette di ogni al capo dell'ufficio di Canton. Il quale sereno, aveva risposto: “Non è mica colpa mia, il salame è già arrivato così”. Fast-forward al responsabile trasporti, altrettanto candido: “Noi utilizziamo una società di trasporto esterna e paghiamo un prezzo fisso al chilometro. Ma il frigo consuma energia e quindi carburante, per cui lo spengono quando viaggiano”. Come dire, scemo tu che me lo chiedi.

Succede poi che un giorno l'ufficio di Milano mi avverte che devo ricevere una spedizione di prodotti alimentari vari, tutti di straordinaria qualità, e che quindi richiedono condizioni impeccabili di magazzino. Utilizziamo un grande vettore italiano il cui responsabile milanese vanta programmi speciali tipo “Zero Damage Delivery” con un controllo perfetto del prodotto dalla porta della fabbrica all'utilizzatore finale. All'aeroporto di Pechino sdogana un'azienda cinese loro partner, che conoscono benissimo e con cui lavorano da anni. Il milanese quasi si offende quando gli chiedo più dettagli, come se mettessi in dubbio la sua professionalità. “E' tutto sotto controllo, lei si preoccupi solo di ricevere la merce il giorno tale”. Il milanese, dall'alto della sua professionalità, divide la merce in due spedizioni: prosciutto e formaggio in frigo, olio, conserve e cioccolato a temperatura ambiente. Non fidandomi, chiamo infatti la ditta cinese: “Tutto è sotto controllo” mi dicono anche quelli, quasi scocciati “una parte andrà in frigo, l'altra a temperatura ambiente!”. Puntiglioso, chiedo maggiori riformazioni sui locali di giacenza: uno è una sala refrigerata con una temperatura oscillante tra i 2 e i 10 gradi (la massima temperatura da frigo è 4 gradi). Quanto all'altra, è un capannone qualunque. Temperatura ambiente: solo che la temperatura ambiente a Pechino a giugno sono 38 gradi, e vaffanculo al cioccolato. “Ma noi lo mettiamo all'ombra” dice il cinese, candido. Segue telefonata all'ufficio di Milano con toni poco pacati e minacce di cause legali e simili.

Il tutto per gestire la catena del freddo, che è una cosa che in Europa conosciamo da almeno 20-30 anni. Ora pensate a cosa succede quando invece trattate operazioni di borsa, sicurezza informatica o medicina.

Il rischio è esattamente quello che rende la vita così frenetica in Cina. Non potete mai rilassarvi, perché in qualunque momento potrebbe sorgere un problema assolutamente idiota che rischia di mettere a repentaglio l'esistenza stessa dell'azienda in cui lavorate. Ma in fondo è anche ciò che la rende così poco noiosa – ogni giorno ci sono nuovi problemi e, se li prendete con pazienza e filosofia, potreste persino mettervi a ridere come avete fatto leggendo questo post, anche quando a risolvere questi guai dovete essere voi.

2008-10-05

2 Giugno

Il 2 giugno è la Festa Nazionale italiana, e nelle nostre sedi diplomatiche di tutto il mondo si celebra con un ricevimento a cui è invitata tutta la comunità dei connazionali e un nutrito gruppo di autoctoni che hanno a che fare con essa. Nello specifico, a Pechino la festa si tiene nel giardino della residenza dell'Ambasciatore.


Ricevo il mio invito e decido ovviamente di andarci, se non altro per coltivare un po' di relazioni con le persone presenti e per far vedere a Dandan com'è questo tipo di evento. La festa, beninteso, non è mai un granché: i prodotti sono quasi sempre offerti gratuitamente da qualche azienda o ristorante italiano, l'organizzazione è abbastanza raffazzonata, ma siccome tutti ci vanno è un'ottima occasione per vedersi, salutarsi e scambiare informazioni.


Siccome arrivo dall'ufficio, fa un caldo boia e l'afa uccide, mi presento molto casual, con un paio di jeans leggeri, sandali e maglietta di lino. Vengo accolto all'entrata da una fila di persone – Ambasciatore, moglie dell'Ambasciatore, Primo Console e signora, Generale Responsabile della Difesa e signora, Direttrice dell'Istituto Culturale e signore, tutti a stringermi la mano con sorrisi di plastica. Guardandomi attorno, mi rendo conto che tutti sono estremamente eleganti, e anche quelli più rilassati hanno almeno la camicia. Gli ultimi due sorrisi sono quelli di persone amiche, e nei loro occhi leggo un totale disappunto e rimprovero, del tipo: “Se la situazione non fosse questa ci sarebbe da ridere. Ma come ti può essere saltato in mente di presentarti così?”. Pertanto finita la fila di strette di mano e saluti eseguo un'inversione a U, esco, risalgo sul taxi e torno a casa, onde procurarmi degli abiti più opportuni. Ci sarebbe da vergognarsi, e mi vergogno, ma la situazione è talmente surreale che vaffanculo, non riesco a non ridere ripensando alle facce di tutti quando mi hanno visto.


Nel frattempo chiamo Dandan: “Ciao Amore... ti ricordi quando ti avevo detto che potevi vestirti come volevi? Dove hai detto che sei? Ecco, dì al tassista di tornare indietro, ci vediamo a casa”.


Ci ritroviamo effettivamente all'appartamento, dove lei si mette un bell'abito marrone e io un completo di lino bianco con camicia color caffè. Risaltiamo sul taxi e, grazie alla posizione favorevole di casa nostra, circa 40 minuti dopo siamo di nuovo in ambasciata. A quel punto la fila di diplomatici si è già dispersa e tutti sono intenti a sorseggiare bicchieri di prosecco nel giardino, chiacchierando e sudando come contadini nei loro begli abiti eleganti. Fa un caldo che non si può descrivere, ed eccoli lì, gessato e cravatta, vittime della loro vanità, che boccheggiano impotenti, schiacciati dal clima estivo della metropoli. Io e Dandan ora siamo stra-stilosi e non abbiamo nulla di cui vergognarci (a parte il sudore, ma partiamo avvantaggiati perché gli altri fanno sauna da 40 minuti prima di noi), e ci uniamo alla folla.


Ora, gli italiani si lamentano tutti di queste incombenze, ma poiché si tratta di bere e mangiare gratis e incontrare gente che occorre vedere ma a cui non si vorrebbe dare appuntamento, si presentano tutti. Incontro Linda, Yao Qiong e suo marito Alberto, Stefano l'avvocato, Viola, Federico, Alessio, e altri: Marco, Luca, Luisa, Irene. Tutto sommato non è male questa festa – non tanto in sé ma per il peso che toglie. Fatte le conversazioni, salutate le conoscenze,ascoltati i pettegolezzi personali e d'affari, ciascuno se ne va.


Qualcuno propone una cena in un ristorante di pesce, ma io ho ancora da fare in ufficio: con la scusa opportuna, prendo Dandan e Viola e in pochi minuti raggiungiamo il luogo. Mentre guardo le ultime e-mail della giornata, metto su un po' di musica italiana – Negrita, Afterhours, i vecchi Litfiba – e stappo una bottiglia di Moscato spumante, di quello buono. Viola e Dandan si riempiono i bicchieri, e ondeggiano a ritmo della musica. Rimaniamo a chiacchierare dopo che ho esaurito i miei impegni al computer, finiamo la bottiglia con calma, senza fretta. Tra amici, in una situazione rilassante, con un bicchiere di vino buono e buona musica... cosa serve di più? E' questo davvero il modo ideale di finire una serata così.


2008-09-20

Qualità della Vita

Il Genio è un’altro strano personaggio che conosco al Bookworm, frequentando i Poeti Sotterranei. Napoletano, è venuto a Pechino così, per curiosità. Non è un carrierista, il Genio, sebbene abbia tutti i numeri per sfondare. Ha ben chiaro in mente cosa vuole: una buona qualità della vita; e vedere il mondo. E’ stato un po’ ovunque, viaggiando e vivendo per qualche mese, o qualche anno: Germania, Sudamerica, Groenlandia, Stati Uniti, Indocina. A 29 approda nella capitale cinese, mantenendosi come insegnante di italiano, mestiere che gli permette di mantenersi più che dignitosamente, avere un contatto continuo con persone locali, e di poter coltivare tanti hobby nel suo tempo libero. Più tardi lo metterò in contatto con il signor Chen, con cui comunica in tedesco, in un progetto per portre stagisti dalle scuole alberghiere italiane a Pechino. Vive a Sanlitun, è sempre in giro per locali, conosce moltissima gente della sua età da tutto il mondo. Gran persona, il Genio, grande esperienza, grande testa, grande cuore; si butta nelle cose senza pensarci troppo, è una persona che non si fa mai frenare dalle proprie paure.

Poi un giorno il Genio incontra una ragazza tedesca, e se ne innamora follemente. Lui, beninteso, sta con una ragazza americana che lo aspetta a Napoli, quando lui tornerà dal suo viaggio di alcuni mesi. Ma il Genio, persona così responsabile, davanti a questa ragazza tedesca più giovane di lui perde totalmente la testa. Per rispetto alla sua fidanzata non fa nulla fino a quando torna a Napoli per un paio di settimane: qui la lascia, e torna a Pechino, dove scopre che la sua tedesca, disperata per la sua assenza, è stata con altri. Cuore lacerato, si abbandona al melodramma: litigano, poi si giurano eterno amore, si mettono assieme, poi lui scopre che lei deve tornare in Germania a breve, quindi decidono di vivere la loro storia fino in fondo, coscienti del fatto che dovrà finire.

In quel periodo il Genio è passato da una serena calma di viaggiatore alla nera disperazione dell’amante dominato dalla passione alla gioia dell’amore contraccambiato. Lo vedo felice come non l’avevo visto prima, pur consapevole della fine prossima della sua storia. Nelle ultime due settimane lui e la sua tedesca viaggiano per la Cina, fanno una crociera sul Fiume Azzurro. Poi lei parte, e lui sospira. Può tutto finire così?

Forse una storia normale sì, ma non un melodramma. Infatti lei, a meno di un mese dalla partenza, si scopre incinta. Il Genio non ha dubbi, quando riceve la notizia. A malincuore, fa i bagagli e lascia Pechino per trasferirsi in Germania, dove cresceranno insieme il bambino.

Vedo il Genio per l’ultima volta nel vecchio parcheggio dei bus di Gongti Bei Lu, insieme ad altri amici. E’ ansioso di rivedere il suo amore, e di iniziare una nuova vita come padre e uomo di famiglia ma, nel lasciare Pechino, ha le lacrime agli occhi. Nell’arco di pochi mesi, la sua vita è cambiata totalmente, ha fatto esperienze e conosciuto persone che hanno lasciato tracce profonde nella sua esistenza. Pechino luogo di epifanie? Perché no? In fondo è proprio l’esperienza del diverso ad allargare la nostra immaginazione, la nostra consapevolezza.

Non dimentico le parole del Genio, quando mi saluta: “Ci sono stato proprio bene a Pechino. Altro che Germania, una qualità della vita come qui non l’ho mai trovata da nessuna parte”. Parole sante.

Gli auguro buona fortuna, e lui risponde in cinese “Haoyun”. Non sono sicuro si dica così, sembra più una traduzione fatta a vocabolario che qualcosa che dicono i cinesi, ma in fondo non importa. Ogni esperienza qui non può che essere soggettiva, per avere un vero senso umano. Abbraccio il mio amico un’ultima volta e spero che tutto gli vada bene, con la sua donna e suo figlio prossimo a venire – e penso ancora a quante persone strane e interessanti conosco qui, e agli effetti imprevedibili che nascono dall’incrociarsi dei nostri sentieri...

2008-09-03

Filare alla cinese

Un bel giorno incontro la mia vicina grassa, quella che voleva piazzarmi con la nipote di campagna, sul pianerottolo, e ovviamente attacca subito bottone. Fin qui nulla di strano – sorrido, annuisco, non capisco un’acca e mi dirigo verso l’ascensore. Ma stavolta non è come al solito, la Donna di Pechino è più insistente del solito e vorrebbe farmi entrare a casa sua, fa segno di telefonare. Educatamente, le spiego che non ho idea di cosa stia parlando e quindi spreca il suo fiato con me, ma se ha la pazienza di aspettare stasera, magari Dandan ci fa da traduttrice.

Detto fatto, per bontà d’animo mia convinco Dandan a bussare alla porta, ed ecco la vicina che si illumina, quasi non ci sperasse che ritornassi. Ci fa accomodare in salotto insieme al marito, e la figlia minore viene mandata nell’altra stanza, mentre la nipote lava i piatti in cucina. La Donna di Pechino parla piano, sottovoce con Dandan, e con un’umiltà che non le si confà – qualcosa si serio bolle in pentola. Intanto ecco tazze di té amarissime e sigarette letali offerte a profusione, col tono di chi non accetta un no. Ed ecco che, dopo una decina di minuti, Dandan traduce.

Dovete sapere che i vicini, a parte la nipote-domestica, hanno due figlie: una è una peste sempre sorridente ed energetica che avrà una decina d’anni e vive con loro, l’altra invece qui non s’è mai vista, ha una ventina d’anni e sta in Australia a studiare. O almeno questa è la versione ufficiale. Senonché scopriamo ora che, prima di finire la scuola superiore, la figlia maggiore conosce su internet un giovinastro dello Henan, che in Cina è come dire uno spiantato della provincia di Napoli, e se ne innamora pazzamente. Siccome la famiglia o sputa e lo schifa perchè è povero, ignorante e pure Henanese, quindi nel migliore dei casi un ladro e un truffatore, i due giovani fuggono assieme. Solo che dopo un paio di settimane, vuoi perché son senza soldi, vuoi perché lei si pente della sua scarsa pietà filiale, la figlia torna all’ovile e i genitori, pieni di comprensione, si sputtanano i risparmi di una vita per spedirla in Australia, nella speranza che metta giudizio e magari si piazzi con uno straniero danaroso.

Ora, dopo più di un anno d’università, accade che la figlia all’improvviso smette di chiamare. I suoi amici cinesi in Australia non sanno dove sia, e la famiglia automaticamente va a pensare che sia tornata in Cina di nascosto e sia di nuovo fuggita col disoccupato Henanese. Poi un giorno una chiamata da un numero australiano, nessuno parla, la madre disperata. Richiama, ma risponde sempre una voce inglese.

La supplica della vicina è questa: che io chiami il fatidico numero e mi informi della figlia. Cosa che prontamente faccio: mi risponde effettivamente una voce con distinto accento australiano e il timbro di chi è stato svegliato dallo squillo. Con un po’ d’imbarazzo, spiego la situazione, anche se mi rendo conto che non so nemmeno il nome di questa ragazza. L’australiano non sa nulla di chiamate da questo numero verso la Cina, tantopiù che non ha nemmeno amici o conoscenti cinesi, mi dice. Sembra, oltre l’imbarazzo ovvio di chi viene svegliato da una telefonata del genere, sincero, lo ringrazio e metto giù.

La vicina mi offre un’altra tazza di orribile té, che accetto, ma la sigaretta davvero basta, è la terza in un quarto d’ora. E’ visibilmente delusa. Non so bene su che base sospetti che la figlia sia tornata in Cina: se così fosse sarebbe veramente scema, ma la gente non smette mai di stupirmi. Dandan si congeda trasciandomi via, e non ne vuole più sapere dei guai dei vicini, che secondo lei a immichiarsi troppo degli affari altrui ci si rimane invischiati.

Storie strane accadono attorno a noi, ogni giorno, di cui nulla sappiamo. Mi vengono in mente le scene, fin troppo frequenti, di ragazzini con lo zainetto accovacciati sulla strada, davanti a loro scritta in gesso la melodrammatica storia della loro fuga da casa accanto a un cappello vuoto, una ciotola di ferro, un qualunque recipiente per monete e banconote da un mao. Mi chiedo dove sia ora, la figlia mai conosciuta dei miei vicini, e non posso fare a meno di avere compassione loro, a prescindere delle evidenti colpe educative. Quanto investono i genitori cinesi sui loro figli, senza curarsi minimamente dei loro desideri e delle loro ambizioni, senza ascoltarli, comunicare – questa storia, mi rendo conto, non è che uno degli infiniti drammi familiari che si consumano in Cina, dove una cultura basata sull’obbedienza cieca agli anziani e la competizione con i coetanei porta, troppo spesso, i giovani ad uscire di testa e dire: “Adesso basta. Fanculo. Ora sparisco”.

“Ti senti impotente di fronte alla vita

ti senti una rosa in un campo di ortica

che sei tutto e sei niente, sei la cima sei il fondo

sul mondo... tondo... vai!”

Negrita, “Vai Ragazzo Vai”, dall’album “Paradisi per Illusi” (1995)





2008-08-04

Il Tempio di Dajue

E così, anche questo fine settimana niente Datong. E niente Chengde. Ma è il nostro anniversario, e io tra queste strade asfaltate e respirare carbone e gas di scarico non ci sto.


Così, sabato mattina, io e Dandan carichiamo lo zaino della sera prima in spalla. Cinque fermate di metropolitana, due di monorotaia, trenta chilometri di bus e tre di taxi più tardi ci vedono sulle pendici di una delle montagne a Ovest di Pechino, i famosi Xishan (西山), i monti occidentali che si vedono nei giorni in cui il cielo è più chiaro. Davanti a noi, la porta in restauro del tempio di Dajue (大觉寺). Il Tempio della Grande Consapevolezza, un eremo buddhista costruito in epoca Liao, attorno al 1068, e ovviamente rimaneggiato in epoca Ming e Qing, i cui imperatori, in perfetto stile cinese, lo resero irriconoscibile per celebrare la loro versione del passato. Tradizione peraltro non abbandonata nemmeno oggi: la Cina moderna ricostruisce i templi secondo la versione attuale di luogo sacro, non certo quella originale.


Il luogo è piacevole e silenzioso, l’aria è fresca e pulita e non ci sono orde di contadini, forse grazie al fatto che i monaci, espulsi durante la Rivoluzione Culturale, non sono mai stati rimandati indietro a gestire una trappola per turisti. Invece, l’ufficio locale per il turismo ha trasformato questo tempio millenario in una casa da tè, dove una tazza di Lipton in bustina viene 150 kuai, e i pu’er più rari arrivano a 1980 RMB al bicchiere. Un posto per ricchi, insomma. Paradossalmente questa scelta iper-commerciale ha permesso al tempio di mantenere una calma molto più vicina all’originale di tanti altri: niente folle di bifolchi con vecchi, bambini e cani al seguito, solo gente elegante e civile che sorseggia tranquillamente tè, si guarda attorno, scatta fotografie con discrezione. Nessuno sputa, nessuno butta rifiuti per terra, nessuno sparge la colazione al sacco a base di riso, aceto, salsa di soia e merda sulle antiche pietre.


Eppure, anche qui, il restauro moderno lascia i suoi segni. A parte due leoni in marmo, cui le guardie rosse hanno rotto il muso a martellate, il resto del tempio è stato risistemato. In alcuni casi bene, perché i padiglioni e le statue lignee dei buddha sono ancora lì, tarlate ma integre, e se restauro c’è stato non si nota. Ma poi, inevitabilmente, si notano i particolari sbagliati: le crepe dei gingko millenari vengono stuccate per proteggere la pianta dai parassiti, ma gli operai passano poi a inchiodare una corteccia di plastica al tronco, in modo da nascondere la stuccatura, così gli alberi sembrano in buona salute; le panchine messe a disposizione hanno lo schienale in ferro battuto, con la rappresentazione di un angioletto grassottello che suona l’arpa, simbolo ben poco adatto a un santuario buddhista; una volta c’era un famoso padiglione attorno a cui era cresciuto un albero i cui rami abbracciavano la struttura: siccome l’albero è morto qualche anno fa, adesso uno scultore sta rifacendo l’albero in silicone, in modo da farlo sembrare uguale.


Sulla via del ritorno prendiamo un taxi abusivo, e l’autista è particolarmente loquace. Anche lui, mosca bianca tra i suoi connazionali, si lamenta che il tempio ha ben poco a che vedere con quello che era un tempo. “Oramai ai cinesi interessa solo far soldi” mi dice, con una punta di tristezza “a nessuno interessa proteggere un tempio, a nessuno interessa far felice la gente e farla stare bene. A loro basta avere un bel parco e vendere il loro tè a prezzi impossibili”.

Non posso che assentire. Prima di scaricarci alla stazione della monorotaia, il tassista si volta un’ultima volta, per farmi una domanda che evidentemente gli frullava nella testa da tempo:

“Molti stranieri mi hanno detto che amano la Cina perché la trovano misteriosa. Io proprio non capisco: cosa ci trovi tu di misterioso in questo Paese?”

La mia risposta, tradotta da Dandan, è secca e diretta, e carica di infinita simpatia per le idee dell’uomo.

“La mia opinione è che la Cina ha smesso di essere misteriosa dopo il 1949”

Il tassista scoppia a ridere, annuisce divertito e alza il pollice come a confermare “ben detto”, saluta e riparte: “Arrivederci” ci auguriamo a vicenda.


Nella Cina moderna il mistero non c’è più, l’hanno assassinato. Niente è più sacro, niente è più interdetto ai profani. Tutti vanno dappertutto e nei templi non si procede secondo la fede, ma secondo il portafoglio. Spiriti e buddha non sono che attrazioni per far soldi, pubblicizzate e offerte a tutti in cambio di moneta. A chi importa l’essenza del messaggio buddhista? A chi interessa cosa significa la sacralità? A chi interessa commuovere e far riflettere, conservare un luogo di meditazione e poesia?


Ritornando verso casa, i palazzi grigi e moderni della periferia di Pechino che scorrono oltre il finestrino, sento la mia delusione ancora più forte del solito. Ma c’è una cosa nuova che mi consola un po’, un piccolissimo barlume di speranza: qualcuno in questo Paese, grazie al Cielo, la pensa come me.


2008-07-30

Contadini

Sono mesi che organizziamo la nostra gita a Datong, alle grotte dei Buddha e al monastero sospeso di Hengshan. Dev’essere la gita perfetta, tutto è calcolato. Il primo fine settimana dopo le vacanze di maggio, quando nessuno è in giro a fare il turista. Cerchiamo la calma, il silenzio, l’atmosfera originale dei luoghi. Ci procuramo descrizioni, guide, tabelle di treni e pullman. E poi, il giorno prima della partenza, ecco il contrattempo: il gruppo degli hutong ha l’ultimo incontro, quello fondamentale. Visto che comunque non abbiamo trovato nessuno per seguirci, e siamo solo io, Dandan e Viola, decidiamo di spostare la data al weekend successivo nella speranza di reclutare altri compagni di viaggio.

Ovviamente, contrattempo: due giorni prima della partenza, Viola scopre di avere il turno di notte in radio, il sabato sera. Visto che la domenica io e Dandan festeggiamo un anno insieme decidiamo comunque di partire, io e lei, ma con una meta meno impegnativa: Chengde, la città estiva degli imperatori Qing. Siamo pronti, abbiamo già il biglietto, treno prima classe con cabina letto per la mattina di sabato, arrivo prima di mezzogiorno nell’amena valle di Chengde. Ritorno previsto domenica notte, o lunedì mattina.

Ed ecco ancora il destino infausto abbattersi su di noi: il venerdì sera, alle otto, il capo di Dandan chiama e convoca tutti gli impiegati per domenica mattina alle dieci, perché la settimana dopo parte per New York e deve affidare a tutti qualcosa da fare. Dandan non fiata, come si conviene nelle aziende cinesi gerarchizzate, ma non vuole rinunciare al viaggio, e costringerci un altro fine settimana nella città. “Prendiamo l’ultimo treno stanotte, e torniamo domani sera con l’ultimo”. L’idea mi piace, raramente trovo la mia lei in una vena così avventurosa.

Zaino in spalla, si corre in stazione, la stazione di Pechino con il suo profilo squisitamente maoista. Scavalchiamo i contadini che dormono per terra, lerci e coperti dei loro stracci, appoggiati alle loro valigie che somigliano più a enormi sacchi deformi, e veniamo assaliti da orde di bagarini che ci offrono tutte le destinazioni possibili: tutte, s’intende, tranne Chengde. Quando pronunciamo la parola, curiosamente, quelli si girano e se ne vanno senza batter ciglio. Il che dovrebbe far suonare un campanello d’allarme, ma quando si è in vena avventurosa generalmente i campanelli d’allarme li si ignora con una risata. Cambiamo il biglietto regolarmente allo sportello, non ci sono più letti né sedili disponibili, nemmeno quelli duri, ma noi contiamo di trovarne di vuoti, o al più di sistemarci un un angolo tranquillo e sonnecchiare a turno. Siamo positivi, sentiamo che insieme possiamo affrontare qualunque problema. Ci rechiamo ai binari.

Ore 23.30, buio. Il treno è fermo sulla banchina. Non si tratta, come avevamo pensato, del treno Pechino-Chengde, ma dell’infamissimo convoglio Shijiazhuang-Chengde, che fa una breve tappa a Pechino. Incediamo cautamente, con il timore che si prova quando si entra in un luogo nuovo, sconosciuto e che potrebbe celare un pericolo nascosto.

Ne ho presi tanti di treni in Cina, ma non ne avevo mai visto uno come questo. Nella luce fioca e grigia dei neon, si vedono a perdita d’occhio solo famiglie di contadini, uomini e donne, vecchi e bambini, tutti lerci e neri, tutti senza scarpe, tutti con i loro sacchi che Dio sa cosa contengono. La maggior parte dorme in posizioni improponibili, tanto che a vederli paiono cadaveri, con la schiena arcuata e una gamba sollevata sulla valigia, un braccio che cade a terra. Ma forse non è la posizione, che fa pensare a un luogo di morte, quanto l’odore. Se siete entrati in un pollaio di quelli vecchi, agusti, umidi, senza finestre e con una porta minuscola, dove le galline si nutrono dei rifiuti del pasto familiare e dormono tutte le une sulle altre, forse potete farvi un’idea di quell’odore, altrimenti vi garantisco di no. Era come se quelle persone avessero mangiato, dormito, sudato, sputato, fumato per un mese, in cinquecento tutti sullo stesso vagone, senza mai aprire il finestrino. Solo che tutti i finestrini erano aperti.

Quelli che non dormono per lo più fumano, e guardano me e Dandan senza espressione, come se fossimo fantasmi. Abbiamo mille occhi addosso. In molti, come noi, salgono a questa stazione e cercano un posto.

“E’ libero?”

“No”

E’ l’unico scambio di battute che si sente. E il no non contiene mai simpatia, solo ostilità, un’ostilità territoriale di chi lotta per la sopravvivenza e per questo perde ogni compassione per il prossimo. L’unico sorriso ci viene da uno che sta in fila dietro di noi, e ha capito che per stanotte si starà tutti e tre in piedi.

Camminiamo per cinque vagoni, spintonati costantemente davanti e dietro, scavalcando i sacchi che bloccano il passaggio, e a volte vecchi che, non avendo trovato un sedile, si sono addormentati sul pavimento, per metà coperti dai sedili. I cessi mandano un odore che, persino comparato al resto del treno, è nauseabondo. Tra un vagone e l’altro la gente si accalca comunque, seduta per terra, e gioca a carte, fuma, oppure mangia. In fondo all’ultimo vagone che vediamo, appena prima della porta del vagone merci, ci sono due uomini sui quarant’anni che, accovacciati alla cinese, stanno spolpando un pollo, e gettano le ossa masticate a un metro di distanza, esattamente davanti alla porta d’accesso.

Guardo Dandan e immagino il nostro viaggio in questo treno da incubo, l’arrivo a Chengde alle 4.30 del mattino, la giornata passata a camminare, e poi il ritorno la notte successiva, magari su un treno identico. Anche lei mi guarda, ci capiamo.

“Scendiamo”

Seduti su un carrello bagagli, vediamo il treno partire, carico della sua umanità così diversa da noi, e lo salutiamo. Un uomo corre dietro al treno; probabilmente si era allontanato un attimo e ha calcolato male i tempi della partenza. Si ferma alla fine della banchina, sbraitando. Noi ce ne andiamo, zaino in spalla, verso l’unico spazio verde che vedremo questa notte: il parco di Ritan. Dove, allo Stone Boat Bar, con una qingdao in mano ci godiamo un concerto di musicisti tibetani, circondati da cinesi alla moda e stranieri, per lo più italiani che lavorano nel mondo dell’arte e delle PR. Mi viene da ridere a riflettere sul fatto che tanto spesso lodiamo le culture semplici e tradizionali, ma quando poi ci troviamo in mezzo ad esse, proviamo un sincero e completo disgusto per esse, sia per la mancanza d’igiene che per l’ignoranza, per la chiusura mentale, la trascuratezza. Che ipocrisia, la nostra.

Ma c’è un altro pensiero, che mi gira nella mente, qualcosa che sapevo ma solo ora comincio a capire, ed è la divisione netta che c’è tra gli abitanti delle città e delle campagne. La Cina è una civiltà agricola da sempre, dove il contadino è stato lodato come la base della società: ma oggi la Cina è divisa in due. Quella dei cittadini, la Cina che cresce, si arricchisce, che recupera il passato e la tradizione negate dal comunismo, quella che guarda oltre i confini nazionali con curiosità. E quella dei contadini, centinaia di milioni di facce nere, tutte uguali, tutte polverose e povere, che non crescono, si arricchiscono ma a un ritmo cento volte inferiore ai cittadini, che non sanno nemmeno di avere un passato salvo quello che il Partito ha descritto loro, che credono ancora che fuori dalla Cina ci vivono solo i barbari in regioni remote ai confini del Mondo. Sono due Cine che non provano simpatia reciproca, e che convivono solo grazie al fatto che il Partito nasconde all’una la vista dell’altra, e senza incontrarsi e scontrarsi mai direttamente si ignorano finché possono.

La Cina cui io appartengo, quella che amo, è la Cina cittadina, di cui drammaticamente condivido molti valori e opinioni. Non sento di avere nulla a che vedere con le campagne, e nonostante le origini dei miei antenati siano nelle campagne lombarde, i contadini cinesi mi fanno schifo, li trovo lerci, ottusi ed egoisti. So di averne bisogno, perché mangio quello che loro allevano e coltivano ogni giorno, ma la mia simpatia finisce qui, in un freddo rapporto di simbiosi che ripago con il mio lavoro quotidiano. Queste mie opinioni, essendo condivise da quattrocento milioni di cittadini cinesi, mi fanno non poca paura. Che cosa stanno pensando di noi, i novecento milioni di contadini là fuori?

2008-07-23

Il Vento

“Sotto il cielo di Dublino, Cairo, Bogotà e Pechino

C’è già il motivo per vivere.”

Il Cielo è vuoto o il cielo è pieno, da “Buon compleanno, Elvis!”, Ligabue (1995)


Dei cieli e del vento di Pechino hanno cantato in tanti, ma non si possono immaginare se non si sono visti. Ci sono giorni in cui il cielo è di un blu tanto intenso che sconvolge, non c’è una nuvola, non c’è un accenno di foschia, è come avere un enorme vuoto sopra la testa, e se lo si guarda a lungo sembra quasi di scivolarci, caderci dentro, in questo vuoto celeste e infinito.

Sono i giorni in cui fischia il vento del Nord, un vento gelido che sferza la terra senza pietà, che piega gli alberi, soffia via gli ombrelli, straccia le tende delle finestre, copre ogni suono con il suo ululato furioso, una forza della natura che non si cura degli uomini e delle loro meschine vicende. Ma è un vento che, se lo sai apprezzare, ti sa accarezza, in un suo modo rude ma cordiale, ti protegge dalla calura del sole troppo forte, troppo luminoso, rinfresca la tua pelle, riempie i tuoi abiti e gioca con i tuoi capelli.

La gente che non lo capisce, troppa gente, si rifugia nella case, mortificata da quella tramontana tartara che, prendendosi gioco dei pavidi, picchia alle loro finestre e sbatte le porte, ridendosela di chi crede di sfuggire alla steppa barricandosi in un grattacielo di ventro e cemento.

Io invece rimango nella strada, abbraccio il mio Vento che, con una carezza affettuosa e irruente, mi sposta di un passo, ascolto il suo sussurro e il suo canto, me lo godo lasciando che trascini almeno il mio spirito verso l’alto, verso quel cielo infinito e blu che sta sopra di me, elevandomi verso luoghi nuovi, meno piccoli, meno prigionieri di mille sciocchezze così terrene.

Sono le giornate di Vento, quelle in cui il cielo è blu come un drappo di seta srotolato sopra la città, che mi ricordo del perchè il mio corpo, il mio cuore, la mia pelle amano Pechino. Le parole non bastano a descrivere la profonda fisicità di queste sensazioni.

Ma io qui mi sento libero, come in nessun altra terra di sono ancora sentito.


“Sono il Vento, sono libero... come il Vento”

Il Vento, da “Pirata”, Litfiba (1989)