2008-07-30

Contadini

Sono mesi che organizziamo la nostra gita a Datong, alle grotte dei Buddha e al monastero sospeso di Hengshan. Dev’essere la gita perfetta, tutto è calcolato. Il primo fine settimana dopo le vacanze di maggio, quando nessuno è in giro a fare il turista. Cerchiamo la calma, il silenzio, l’atmosfera originale dei luoghi. Ci procuramo descrizioni, guide, tabelle di treni e pullman. E poi, il giorno prima della partenza, ecco il contrattempo: il gruppo degli hutong ha l’ultimo incontro, quello fondamentale. Visto che comunque non abbiamo trovato nessuno per seguirci, e siamo solo io, Dandan e Viola, decidiamo di spostare la data al weekend successivo nella speranza di reclutare altri compagni di viaggio.

Ovviamente, contrattempo: due giorni prima della partenza, Viola scopre di avere il turno di notte in radio, il sabato sera. Visto che la domenica io e Dandan festeggiamo un anno insieme decidiamo comunque di partire, io e lei, ma con una meta meno impegnativa: Chengde, la città estiva degli imperatori Qing. Siamo pronti, abbiamo già il biglietto, treno prima classe con cabina letto per la mattina di sabato, arrivo prima di mezzogiorno nell’amena valle di Chengde. Ritorno previsto domenica notte, o lunedì mattina.

Ed ecco ancora il destino infausto abbattersi su di noi: il venerdì sera, alle otto, il capo di Dandan chiama e convoca tutti gli impiegati per domenica mattina alle dieci, perché la settimana dopo parte per New York e deve affidare a tutti qualcosa da fare. Dandan non fiata, come si conviene nelle aziende cinesi gerarchizzate, ma non vuole rinunciare al viaggio, e costringerci un altro fine settimana nella città. “Prendiamo l’ultimo treno stanotte, e torniamo domani sera con l’ultimo”. L’idea mi piace, raramente trovo la mia lei in una vena così avventurosa.

Zaino in spalla, si corre in stazione, la stazione di Pechino con il suo profilo squisitamente maoista. Scavalchiamo i contadini che dormono per terra, lerci e coperti dei loro stracci, appoggiati alle loro valigie che somigliano più a enormi sacchi deformi, e veniamo assaliti da orde di bagarini che ci offrono tutte le destinazioni possibili: tutte, s’intende, tranne Chengde. Quando pronunciamo la parola, curiosamente, quelli si girano e se ne vanno senza batter ciglio. Il che dovrebbe far suonare un campanello d’allarme, ma quando si è in vena avventurosa generalmente i campanelli d’allarme li si ignora con una risata. Cambiamo il biglietto regolarmente allo sportello, non ci sono più letti né sedili disponibili, nemmeno quelli duri, ma noi contiamo di trovarne di vuoti, o al più di sistemarci un un angolo tranquillo e sonnecchiare a turno. Siamo positivi, sentiamo che insieme possiamo affrontare qualunque problema. Ci rechiamo ai binari.

Ore 23.30, buio. Il treno è fermo sulla banchina. Non si tratta, come avevamo pensato, del treno Pechino-Chengde, ma dell’infamissimo convoglio Shijiazhuang-Chengde, che fa una breve tappa a Pechino. Incediamo cautamente, con il timore che si prova quando si entra in un luogo nuovo, sconosciuto e che potrebbe celare un pericolo nascosto.

Ne ho presi tanti di treni in Cina, ma non ne avevo mai visto uno come questo. Nella luce fioca e grigia dei neon, si vedono a perdita d’occhio solo famiglie di contadini, uomini e donne, vecchi e bambini, tutti lerci e neri, tutti senza scarpe, tutti con i loro sacchi che Dio sa cosa contengono. La maggior parte dorme in posizioni improponibili, tanto che a vederli paiono cadaveri, con la schiena arcuata e una gamba sollevata sulla valigia, un braccio che cade a terra. Ma forse non è la posizione, che fa pensare a un luogo di morte, quanto l’odore. Se siete entrati in un pollaio di quelli vecchi, agusti, umidi, senza finestre e con una porta minuscola, dove le galline si nutrono dei rifiuti del pasto familiare e dormono tutte le une sulle altre, forse potete farvi un’idea di quell’odore, altrimenti vi garantisco di no. Era come se quelle persone avessero mangiato, dormito, sudato, sputato, fumato per un mese, in cinquecento tutti sullo stesso vagone, senza mai aprire il finestrino. Solo che tutti i finestrini erano aperti.

Quelli che non dormono per lo più fumano, e guardano me e Dandan senza espressione, come se fossimo fantasmi. Abbiamo mille occhi addosso. In molti, come noi, salgono a questa stazione e cercano un posto.

“E’ libero?”

“No”

E’ l’unico scambio di battute che si sente. E il no non contiene mai simpatia, solo ostilità, un’ostilità territoriale di chi lotta per la sopravvivenza e per questo perde ogni compassione per il prossimo. L’unico sorriso ci viene da uno che sta in fila dietro di noi, e ha capito che per stanotte si starà tutti e tre in piedi.

Camminiamo per cinque vagoni, spintonati costantemente davanti e dietro, scavalcando i sacchi che bloccano il passaggio, e a volte vecchi che, non avendo trovato un sedile, si sono addormentati sul pavimento, per metà coperti dai sedili. I cessi mandano un odore che, persino comparato al resto del treno, è nauseabondo. Tra un vagone e l’altro la gente si accalca comunque, seduta per terra, e gioca a carte, fuma, oppure mangia. In fondo all’ultimo vagone che vediamo, appena prima della porta del vagone merci, ci sono due uomini sui quarant’anni che, accovacciati alla cinese, stanno spolpando un pollo, e gettano le ossa masticate a un metro di distanza, esattamente davanti alla porta d’accesso.

Guardo Dandan e immagino il nostro viaggio in questo treno da incubo, l’arrivo a Chengde alle 4.30 del mattino, la giornata passata a camminare, e poi il ritorno la notte successiva, magari su un treno identico. Anche lei mi guarda, ci capiamo.

“Scendiamo”

Seduti su un carrello bagagli, vediamo il treno partire, carico della sua umanità così diversa da noi, e lo salutiamo. Un uomo corre dietro al treno; probabilmente si era allontanato un attimo e ha calcolato male i tempi della partenza. Si ferma alla fine della banchina, sbraitando. Noi ce ne andiamo, zaino in spalla, verso l’unico spazio verde che vedremo questa notte: il parco di Ritan. Dove, allo Stone Boat Bar, con una qingdao in mano ci godiamo un concerto di musicisti tibetani, circondati da cinesi alla moda e stranieri, per lo più italiani che lavorano nel mondo dell’arte e delle PR. Mi viene da ridere a riflettere sul fatto che tanto spesso lodiamo le culture semplici e tradizionali, ma quando poi ci troviamo in mezzo ad esse, proviamo un sincero e completo disgusto per esse, sia per la mancanza d’igiene che per l’ignoranza, per la chiusura mentale, la trascuratezza. Che ipocrisia, la nostra.

Ma c’è un altro pensiero, che mi gira nella mente, qualcosa che sapevo ma solo ora comincio a capire, ed è la divisione netta che c’è tra gli abitanti delle città e delle campagne. La Cina è una civiltà agricola da sempre, dove il contadino è stato lodato come la base della società: ma oggi la Cina è divisa in due. Quella dei cittadini, la Cina che cresce, si arricchisce, che recupera il passato e la tradizione negate dal comunismo, quella che guarda oltre i confini nazionali con curiosità. E quella dei contadini, centinaia di milioni di facce nere, tutte uguali, tutte polverose e povere, che non crescono, si arricchiscono ma a un ritmo cento volte inferiore ai cittadini, che non sanno nemmeno di avere un passato salvo quello che il Partito ha descritto loro, che credono ancora che fuori dalla Cina ci vivono solo i barbari in regioni remote ai confini del Mondo. Sono due Cine che non provano simpatia reciproca, e che convivono solo grazie al fatto che il Partito nasconde all’una la vista dell’altra, e senza incontrarsi e scontrarsi mai direttamente si ignorano finché possono.

La Cina cui io appartengo, quella che amo, è la Cina cittadina, di cui drammaticamente condivido molti valori e opinioni. Non sento di avere nulla a che vedere con le campagne, e nonostante le origini dei miei antenati siano nelle campagne lombarde, i contadini cinesi mi fanno schifo, li trovo lerci, ottusi ed egoisti. So di averne bisogno, perché mangio quello che loro allevano e coltivano ogni giorno, ma la mia simpatia finisce qui, in un freddo rapporto di simbiosi che ripago con il mio lavoro quotidiano. Queste mie opinioni, essendo condivise da quattrocento milioni di cittadini cinesi, mi fanno non poca paura. Che cosa stanno pensando di noi, i novecento milioni di contadini là fuori?

3 commenti:

Anonimo ha detto...

.. Scrivi divinamente!.. Ci siamo incontrati una volta, 2 anni fà, io e te. In un hou-tong, una sera d'estate!.. Questa è la mia presentazione. Ma finisce qui.Di sicuro non interessa, come forse non ti interessano questis trani complimenti. Ma mi sento di dirtelo lo stesso, forse perchè mentre sto qua in ufficio, affacciato su queste verdi valli, leggendo quello che scrivevi, sono scivolato con la mente in quello che hai scritto. Ciao , alla prossima

Wild Child ha detto...

Grazie dei complimenti! :) Il mondo è un posto piccolo...

vicky ha detto...

we were lucky that made the wise decision:)