“Ok, fammi pensare a un posto dove possiamo andare” risponde.
“Non serve, ho già trovato dove” dico con una punta di orgoglio.
E così ci si incontra un giovedì sera davanti al 7 Eleven, il punto di ritrovo di tutti quelli che vivono attorno a Dongzhimen. Arriviamo praticamente assieme, lei si presenta come al solito, abiti da raver appena uscita da un viaggio in Yunnan e una borsa grossa quattro volte lo standard. Stilosa come sempre.
Entriamo un attimo nel 7 Eleven perché lei deve prendere il cibo per il gatto di una sua amica in vacanza, che doveva tornare un paio di giorni fa ma è sparita chissà dove. Poi proseguiamo a piedi: Dongzhimen Nei, Dongzhimen Xiaobeijie, Min’an Jie. Jingyi già presagisce una strada più lunga del preventivato e mi propone un ristorante di frutti di mare in Dongzhimen. No, grazie, ho un amico che si è preso i parassiti intestinali a Xiamen mangiando quelle cose; sono passati sei mesi e sta ancora male.
Entriamo negli hutong, sottraendoci al caos della grandi strade. Una curva a destra, una a sinistra. Lei si è già persa e comincia a faticare. Non avevo pensato che le potesse pesare la camminata, non è in forma ultimamente. La rassicuro della vicinanza del locale, mentendo spudoratamente. Lei si guarda attorno stranita: non è abituata lei, cinese, a camminare tra gli hutong: non ci bada granché, non sente nessuna ragione per entrarci, ma quando ci si ritrova per caso sente la vibrazione di questo posto, e la sua fantasia corre alla vita della gente che ci abita, e ai cambiamenti occorsi nel tempo, dai tempi della Liberazione, alla Rivoluzione Culturale, al terremoto di Tangshan.
Finalmente arriviamo alla Corte n. 28; c’è parecchia gente, rimane un tavolo orribile in un angolo con l’aria condizionata a mille, ma una piccola attesa ci vale uno dei due tavoli nel cortile. Lascio ordinare lei, e non avrò motivo di dolermene – tofu e verdure saltate, melanzane piccanti e gambi di broccoli al vapore. Birra Yanjing.
Tra una sigaretta e l’altra si chiacchiera come al solito noi due, con le solite pause lunghe e la voce pacata. Si parla di passato, presente e futuro.
“Mi piace questo posto” dice alla fine “come l’hai trovato?”
E’ con orgoglio che rispondo: “Stavo camminando due giorni fa per queste strade, c’era una bella luce quel giorno e ho pensato di fare qualche foto. E poi me lo sono trovato davanti”
Mi guarda con gli occhi stupiti. Sì, conosco Pechino meglio di tanta gente che vive da anni e anni. Sì, mi oriento a meraviglia tra gli hutong. No, non sono un laowai abitudinario e ottuso come molti altri.
“Voglio portarci i miei amici” dice alla fine “sempre che riesca a ritrovare la strada. Questo posto dovremmo recensirlo su That’s Beijing, merita proprio”
Allora mi rendo conto del perché sono qui stasera, e perché c’è lei e nessun altro. Jingyi è la papessa che mi incorona imperatore, colei che sancisce il ritorno alla casa del mio spirito, la mia città, Pechino. Mi guarda con meraviglia e rispetto. Lei sa che significa per me stare qui, e io so che lei sa, e che è l’unica persona qui che può capire.
Eccomi di nuovo a casa, sotto l’ombra di questo grande albero, tra i quattro muri di una corte di siheyuan che nemmeno i dinosauri di That’s, i miei modelli di vita pechinese, conoscevano. Sorseggio la mia Yanjing dal pesante bicchiere azzurro e irregolare e faccio un profondo tiro dalla mia Zhongnanhai 8mg.
Benvenuto a casa.
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