Dandan viene a Pechino per poco più di 24 ore. Non ci vediamo da un mese, e io tra una settimana parto per l’Italia. Vuole vedermi ad ogni costo, anche se solo per un giorno e una notte. E’ una ragazza emotiva.
All’inizio ero quasi scocciato: sono a Pechino da una settimana, la casa è ancora un casino, va pulita e va riempita di cose, non ho la tessera del telefono, non ho un conto bancario locale, e lo stress mi fa pure ammalare di raffreddore, cui contribuisce il tempo artificiale creato dai cannoni sparasale che fanno di Pechino una novella Shanghai, umida e piovosa.
Queste ore insieme a lei invece mi fanno capire che ha ragione lei, che io mi faccio prendere troppo dallo stress. Fanculo al lavoro, fanculo alle incombenze domestiche. Mi sento rinascere, e ricordo tante cose belle della vita che avevo dimenticato, come le coccole la mattina presto, i film dei Monthy Python visti in due o le maratone sessuali a qualunque ora. Alla fine, anche se non sto in piedi dalla stanchezza, sorrido, e mi è passato anche il raffreddore. Miracoli dell’amore.
E’ grazie a Dandan che scopro il No Name Restaurant, editor’s pick tra i ristoranti migliori di Pechino nella categoria “Best for a Date” di That’s Beijing. Conoscevo già il No Name Bar, ma non il ristorante, e come anticipato da That’s, richiede parecchio tempo per essere trovato. 大金丝胡同, Dajinsi Hutong: nemmeno il tassista l’ha mai sentito. Chiamiamo il locale e facciamo parlare cameriera e tassista. Il tassista grugnisce e poi ci molla sull Di’anmen Wai. Da qui in poi a piedi, tanto i taxi non ci entrano nelle stradine; tocca arrangiarsi.
L’aiuto della popolazione locale varia da “不知道” (non ho idea) a “sta veramente lontano, vi ci porto io in risciò fanno 10 kuai”. Il migliore rimane “a Pechino ci sono tanti di quegli hutong… come diamine faccio a sapere dove sta quello che cercate voi?”.
Quello che cerchiamo noi, per la verità, sta a non più di cinquanta metri da dove ci troviamo, ovvero sul ponte che divide Houhai da Qianhai. Un minuscolo cartello indica “No Name Restaurant”, con una freccia verso destra. L’hutong sarà largo un metro e mezzo, nella zona restaurata, la porta non ha decorazioni se non un piccolo cartello al neon che lentamente varia di colore.
L’interno è una scoperta: luci soffuse e colorate, arredamento di gusto ovunque, dalla sala principale al bagno, con il lavandino incastonato di pietre trasparenti di vari colori. La parte che più merita, tuttavia, è il terrazzo. Quattro tavoli in stile coloniale, attorno i tetti dei siheyuan e le chiome dei grandi alberi pechinesi che si stagliano nere contro il cielo bianco della notte. Non un rumore, se non le voci sommesse di una coppia, lui britannico e lei cinese, che presto ci lasciano soli. Sono le nove di venerdì sera a Pechino, e siamo soli su un terrazzo circondati dal silenzio. Io sprofondo su un trono di vimini, mentre Dandan si allunga su un divano vicino. Alla luce soffusa di una candela alla vaniglia, gustiamo piatti profumati dello Yunnan serviti su una figlia di banano. Di tanto in tanto, una cameriera in costume tradizionale viene a controllare se abbiamo bisogno di qualcosa – non chiede, guarda un attimo, poi discretamente scompare.
Solo a Pechino, probabilmente, può capitare una serata del genere. Ed è per questo che ho deciso di vivere in questa città.
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