Quando, a metà del XIII Sec., i mongoli edificarono Camblau, o Dadu, la città che stava qui prima di Pechino, costruirono grandi viali paralleli e, tra un viale e l’altro, crearono gli hutong. Le aree delimitate dalle varie direttrici della città si chiamavano fang (访), un termne traducibile con “vicinato” o “quartiere”. Per ragioni di sicurezza ogni fang era circondato da una cinta su cui si aprivano dei cancelli sorvegliati, e dal tramonto all’alba nessuno poteva oltrepassarli. I mercati si tenevano fuori le mura, ma ogni fang era sostanzialmente autosufficiente, con un ortolano, un sarto, uno stagnino, e ogni servizio di base. Le famiglie che ci vivevano si conoscevano, ed esisteva un forte senso di comunità.
La logica non era cambiata sei secoli più tardi quando, nel 1958, Mao creò le Comuni Popolari e le danwei, ma per le unità più piccole venne restaurato il sistema del fang, ovvero un isolato circondato da grandi strade, attraversato solo da strade minuscole, e servito da scuole, ospedali, negozi di base, ecc., con tutti gli accessi sorvegliati da guardie locali. La Pechino socialista venne costruita sulla base del fang o, come venne rinominato per non suggerire collegamenti con i tirannici mongoli, lo xiaoqu (小区), il “piccolo distretto”.
La Pechino di Mao era un’insieme di cellule indipendenti e decentrate, ciascuna con una propria sezione di partito, un comitato di gestione, varie associazioni popolari e ogni cosa servisse a permettere agli abitanti di non dover mai uscire dai confini dell’abitato. Come una serie di villaggi tutti costruiti uno accanto all’altro. Decentramento totale.
Questo sistema resse in modo eccellente fino alla fine degli anni ’90, quando la specializzazione di zona lo rese obsoleto. Nel momento in cui la gente cominciò a recarsi alla stazione del treno, all’ospedale cittadino, all’università, nel CBD (City Business District), la popolazione dei xiaoqu si riversò nelle strade che li dividevano, spostandosi in massa e intasando la città. La pianta urbana di Pechino non era stata concepita per gestire una popolazione mobile. Macchine e bus circolano nelle grandi strade, ma queste sono troppo poche per reggere i volumi attuali: le vie dei xiaoqu sono troppo strette, sono strade di villaggio, allineate d’alberi e fatte per passeggiare o per andarci in bicicletta. E’ per questo che si può stare nel centro di un xiaoqu senza accorgersi di essere nella capitale della Cina. E’ quasi come essere in campagna: niente rumore di veicoli, e anche il ritmo della vita è tutta un’altra cosa, tutto accade in maniera più lenta, più tranquilla. I vecchi fanno ginnastica, i bambini giocano in mezzo alla strada, le massaie si trovano davanti al fruttivendolo o dal barbiere e se la raccontano per tutta la mattinata. Un modello di urbanistica venuto dal passato e forse la salvezza del futuro.
Gli urbanisti di Pechino si sono resi conto di tutto ciò, e la soluzione da loro trovata è tipica della burocrazia irresponsabile e ottusa: siccome la struttura dei xiaoqu rende gran parte della città inaccessibile al traffico, occorre aprire delle strade a 4-6 corsie nel mezzo di ogni xiaoqu, in modo da creare valvole di sfogo per i mezzi a motore. Sta già accadendo: nel 2003 gli splendidi hutong di Dongzhimen sono stati spianati per edificare il più giovane dei xiaoqu, quello in cui abito, Min’an Xiaoqu (民安小区), il Piccolo Distretto della Pace del Popolo. Tagliato da est a ovest dalla Min’an Jie, una bella via a quattro corsie che, passando davanti all’ambasciata russa, connette il Secondo Anello con Dongzhimen Bei Xiaojie. Sempre vuota, la maggior parte dei tassinari nemmeno la conosce a quattro anni dalla sua costruzione. Entro il 2010 la Min’an Jie sarà allungata, spianando la parte centrale degli hutong di Beixinqiao, in modo da raggiungere le porte del Tempio della Macchia di Cipressi e il Tempio dei Lama, e poi continuare sul tracciato di Fangjia Hutong, una bellissima strada piena di case tradizionali risistemate a affittate a singole famiglie. Che sarà allargata fino ad avere una dimensione circa tripla dell’attuale.
Per quanto mi riguarda, cerco di godermi la mia pace da xiaoqu, finché dura. Prima o poi i tassinari impareranno a prendere la Min’an Jie e la mattina, invece del silenzio, sentirò il rumore dei clacson e del traffico di Pechino. Niente più gente per le strade, ma moderne automobili straniere, apatiche e anonime come ogni oggetto destinato al mercato di massa. Ma per oggi, non ancora. La Pechino dei miei sogni, ancora per un poco, vive.
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