2006-11-27

Puttane

Come in tutti i Paesi in rapido sviluppo, caratterizzati dalla presenza di gente ricchissima e gente poverissima, la Cina ha un’industria della prostituzione a dir poco fiorente. Avendo a che fare con i miei compatrioti, tradizionalmente clienti assidui dell’industria in tutto il mondo, riesco a farmi una buona cultura in merito. Secondo le voci, il principale centro della prostituzione in Cina è Shenzhen, appena oltre il confine cinese e davanti a Hongkong – gli hongkongini ci fanno il weekend a Shenzhen, che costa poco – e poi ci sono Xi’an e Shenyang. Ciò non toglie che tutte le città cinesi, grandi e piccole, siano strapiene di luoghi che offrono servizi di compagnia femminile di ogni prezzo e livello.

Va detto che, in una cultura dove la moglie è l’angelo del focolare e dedita in tutto e per tutto all’uomo, in cui le relazione extramatrimoniali quando scoperte finiscono in omicidio, in cui il sesso pre-matrimoniale è mal visto, in cui una gran parte della popolazione delle grandi città è composta da emigrati che tornano dalla famiglia una o due volte l’anno, e in cui l’etichetta impone che al cliente si paghi non solo la cena, non solo l’alcool, ma anche la compagnia, la prostituzione è una necessità più che un piacere.

Poiché a puttane in Cina ci vanno praticamente tutti i maschi, i servizi di prostituzione variano in modo significativo secondo il reddito della clientela. I migranti vanno in piccole botteghe di periferia, mascherate da parrucchieri o saloni di bellezza, illuminati da luci al neon rosa o violette, quelli che gli italiani chiamano familiarmente “prontopompa” o “prontosega”. Nel retro ci sono alcove con poltrona in cui i vari servizi vengono offerti per prezzi che variano dai 50 ai 200 kuai. Poi ci sono i veri e propri bordelli, con tanto di camere – buie e sudice per i meno abbienti, enormi, con frigobar e televisione al plasma per chi può permetterselo. Ci sono poi le saune, con i loro servizi di massaggio e cura della pelle. E i karaoke, ideali per gli incontri d’affari, dove una volta prenotata una saletta privata, una decina di ragazze si presentano in fila e i clienti le scelgono, con possibilità di mandarle tutte fuori e farne rientrare un’altra decina. E qui i prezzi vanno su, dai 300 fino ai 1000 kuai o più, soprattutto se la ragazza è mongola, russa o comunque esotica.

Quello che stupisce gli occidentali non è tanto la diffusione del fenomeno e l’assoluta normalità con cui gli uomini cinesi ne parlano – per loro andare a puttane è normale quanto andare al ristorante o in piscina – ma è l’attitudine che c’è. Le ragazze sono di compagnia, chiacchierano, scherzano, bevono col cliente, cantano al karaoke, giocano a dadi, massaggiano. Il rapporto sessuale non è scontato, si paga a parte e tante volte non viene nemmeno richiesto dal cliente. Quel che i cinesi cercano è la compagnia di una bella ragazza che li faccia sentire uomini. E per questo pagano dei prezzi che, confrontati al loro stipendio, sono folli.

Le ragazze che esercitano sono tipicamente bellezze venute dalla campagna. Abbandonato il loro misero impiego di operaia, maestra elementare, cameriera, prendono il treno per la città e cercano direttamente lavoro in uno dei tanti locali dell’industria – karaoke, sauna, prontopompa. Guadagnano bene, molto bene, per quel che fanno. Non sono schiave, ma impiegate di alto livello. Pulite, coscienti, controllate, spesso svolgono la loro attività per qualche anno, poi tornano a casa nella campagne e con i risparmi che hanno accumulato aprono un negozio, un ristorante, una piccola azienda. Belle e ricche, non hanno difficoltà a trovar marito, un marito buono e fedele che esegua i loro ordini come si conviene. Viaggiando nelle campagne cinesi, non è raro incontrare questi personaggi, che si riconoscono molto facilmente dall’atteggiamento aggressivo e dominante, diametralmente opposto a quello delle ragazze tradizionali.

La prostituzione ha così un ruolo importantissimo non solo nell’economia urbana, per i volumi di soldi che fa girare, ma anche nell’economia rurale, grazie alla creazione di attività da parte delle “giovani pensionate” e nuove imprenditrici. Ciononostante la prostituzione è ancora illegale in Cina, e pesantissime pene sono previste per chiunque sia coinvolto in una simile attività. Come tante cose in Cina, è vietata ma si può fare, con discrezione.

Pechino da questo punto di vista è piuttosto tranquilla. Nel 2001, un enorme scandalo fece tremare gli alti livelli del Partito: il proprietario di un famoso karaoke, ospite di importantissime figure istituzionali, aveva pensato bene di installare telecamere ovunque come assicurazione per il futuro. Dalla sua posizione, poteva ricattare chiunque. La cosa finì male, e alla fine di quell’anno i filmati dei papaveri di Zhongnanhai in compagnia di giovani ragazze finirono negli uffici dei più importanti media. La prostituzione, beninteso, è considerata normale ma se ne può parlare solo in ambienti molto intimi e tra uomini – un atteggiamento tipicamente asiatico. Lo scandalo fu immediato, la reazione politica violenta, tante teste saltarono e da allora a Pechino la prostituzione è molto più attenta in quello che fa. Ce n’è quanto prima, senza dubbio, ma non viene più spiattellata in faccia ai passanti, come ancora avviene a Shenzhen, a Xi’an, a Shenyang.

A questa regola esiste un’eccezione – Sanlitun. Perché tanto lì sono laowai, come si fa a correggere quei viziosi? E’ una battaglia persa in precedenza. Come? Anche i cinesi ci vanno a Sanlitun? E i cinesi sono i clienti principali delle xiaojie? Non è possibile, vi sarete sbagliati. Le signorine sono lì per i laowai, poi non è che la polizia può controllare tutto…

“Halooo ssi! Sekesi sekesi leidi ba… aah, masaji fu yuo, pulisa hewa luka!!!”

2006-11-24

Pechino dieci anni dopo

Francesca ha studiato con me a Milano al Business in China. Nata in Costa d’Avorio, ha vissuto nel Gansu, a svariate ore da Lanzhou, per qualche anno, poi si è spostata a Pechino, quindi a Singapore, infine a Trieste. Ora vive a Shanghai, ma rimane comunque una friulana D.O.C.. Ogni tanto io e lei parliamo di Pechino, dei nostri ricordi, dei posti che entrambi conosciamo e che ci mancano – l’Hard Rock Café, il Lufthansa Centre, la zona delle ambasciate… e lei mi chiede un favore, la prossima volta che passo per Pechino. Andare al Lido e fare delle foto, per vedere com’è cambiato il compound dove viveva. Ci rimane male quando le dico che, per me, il Lido è il quartiere che sta attorno all’Holiday Inn Lido, un quartiere che ospita qualche milione di persone.

E poi capita che venga per lavoro a Pechino anche lei, in un momento in cui ci sono anche io. Guarda con stupore e malinconia a tutto quello che è cambiato, eppure riconosce alcuni luoghi come quelli della sua adolescenza, e mi racconta di quando non c’erano bar dove andare, e lei e i suoi amici rubavano la macchina di un ambasciatore, il padre di uno dei ragazzi, e a 16 anni se ne andavano per la Chang’an Jie senza che nessun poliziotto osasse fermare una targa diplomatica. O quando facevano battaglie con fucili ad acqua in Tian’anmen inzuppando tra le altre cose anche le guardie militari.

Per cena la porto a Houhai, di cui ha un ricordo vago. Ci sediamo al Buddha Bar, e ci portano un menu da una ventina di pagine scritte fitte fitte in caratteri cinesi.
“Non avete un menù in inglese?”
Il proprietario annuisce con tipico stupore cinese, come uno che ha imparato una cosa interessante, e ce ne porta uno, di due pagine. Lei sceglie prosciutto di Parma e melone, solo per curiosità di sapere se è vero o falso. Il prosciutto è vero, solo che tutto il piatto è abbondantemente condito con olio d’oliva. Un musicista cinese suona la chitarra in un angolo, una canzone rock in cinese. Tutte le rive del lago, un tempo vuote, sono ricoperte di locali, la cui età è indirettamente proporzionale alle dimensioni e alla rumorosità. Pechino è cambiata tanto, tanto sì.

2006-11-22

Droghe

Una spiacevole scoperta che faccio nel marzo del 2006 è che a Pechino gira una quantità incredibile di droghe. Che ci fossero lo sapevo, ma fino a questo momento il mio contatto era stato solo con l’hashish. Ora comincio a conoscere gente che si fa d’altro. Finché si tratta di espatriati che si fanno una canna, non mi turbo particolarmente, ma quando incontro manager cocainomani, giovani sinologi che si fanno di crack, contadini piegati dall’eroina, impiegati cinesi rampanti che prendono stimolanti forniti dal loro capiufficio, nonché ravers che s’impasticcano, la cosa mi infastidisce non poco. Il mercato cambia, i soldi girano, la popolazione cade nella dipendenza da sostanze stupefacenti. E’ un segno dello sviluppo.

Tra la popolazione straniera non esiste praticamente alcun freno alla circolazione di sostanze stupefacenti: “volete drogarvi, cari laowai? Bravi, fate pure che tanto non si corregge mica la vostra attitudine razziale al vizio”.

Tra la popolazione cinese i controlli sono più duri. Ma anche se la legge prescrive pena di morte in abbondanza per qualsiasi crimine legato alle droghe, l’applicazione delle norme come sempre è una storia diversa. E mentre i laowai viziosi quantomeno hanno idea degli effetti di quello che prendono, i cinesi non ne hanno. La droga è tabù, non se ne parla, e per il cinese medio hashish ed eroina sono la stessa cosa. Provata la prima e scoperto che dopotutto non trasforma immediatamente in zombie malati come si dice, le altre seguono a ruota. E’ così che tanta gente si rovina, per mancanza d’informazione.

Sarò moralista, forse ingenuo nello sperare che in Cina queste cose non accadano. Invece, anche in uno stato autoritario dove la polizia non ha le mani legate, la droga gira, e anzi la corruzione nelle forze dell’ordine è uguale come da noi in democrazia, se non maggiore. La cosa peggiore è la generale accettazione che la gente che ho attorno ha per il fenomeno: normale, sono cose che succedono dappertutto, non è che la Cina sia il Paese dei Balocchi. Forse il modello di sviluppo capitalista non funziona senza droghe: per portare avanti questo sistema, abbiamo bisogno di sostanze che facciano lavorare di più chi comanda e tengano buono chi esegue. Stimolanti e narcotici, la soluzione della chimica ai limiti della genetica.

Lode al Paese di Mezzo che prende il posto che gli spetta tra i grandi signori dell’economia mondiale. Poi mi vengono a parlare di “Via Cinese al Capitalismo”.

Sarò superficiale, ma a me fa schifo uguale.

2006-11-21

Red House Hotel

Ritornando a Pechino nel 2006, dopo sei mesi di assenza, sono contento di trovare le stesse persone conosciute l’anno prima. Marco lavora sempre per la solita azienda, Luca, un altro compagno di corso, è entrato anche lui in Birindelli insieme al buon Stefano, Linda è in Camera di Commercio. Le due ragazze italiane conosciute per strada a maggio dell’anno prima, stagiste in Camera, ora si sono spostate: Luisa sta in un’azienda meccanica, e Irene è diventata manager di un’enoteca nel distretto di Shunyi.

Ogni volta che torno a Pechino sto al solito hotel, la Red House, aperta dagli stessi proprietari del Poachers. C’è la stessa atmosfera, oltre che lo stesso arredamento, sebbene le camere qui siano dotate di servizi privati. Anche la pulizia è sempre la stessa, ma la cosa più sorprendente è che anche la colazione, servita nel vicino Club Football, locale gestito sempre dalle stesse persone, è la stessa: vassoio con fette di pane tostato, porzione monodose di burro, porzione monodose di marmellata alla fragola, uovo, fetta quadrata di spalla cotta, bicchiere di succo di mela. Non è cambiato nulla. Discutendo con quelli delle cucine riesco a farmi servire un caffè: è un caffè all’americana, fatto con la polverina mescolata all’acqua calda del thermos, ma è una bevanda alternativa, e dunque ben accetta.

Ogni volta che torno a Pechino è una serie di uscite con amici, una cena di qui, una bevuta di là, Sanlitun, Houhai, la vita è sempre quella, e la mia città non manca mai di darmi il benvenuto con qualche festa. Tutto ciò mi prepara al mio prossimo trasferimento, davvero non vedo l’ora di diventare cittadino di Pechino.

2006-11-19

Nuova possibilità

Arriva ottobre, e il mio contratto scade. Cerco lavoro, ma non lo trovo – soliti complimenti per il curriculum, promesse su promesse e mai nulla di fatto. Un paio di sere prima della mia partenza saluto Laura, una ragazza tedesca conosciuta la settimana prima, e che non vedrò probabilmente mai più. E’ questo il triste destino di chi è sempre in viaggio, come me e lei. Nel suo minuscolo appartamento da studente nella zona periferica di Hongkou, condiviso con un ragazzo coreano, mi consegna una cartolina, ricevuta da suo zio anni prima: è una foto del Palazzo d’Estate di Pechino, scattata negli anni ’70, con il grande parco quasi vuoto e i colori brillanti e artificiali delle pellicole vecchie.
“Ti auguro di arrivarci un giorno, presto” mi dice.

Con questo augurio torno in Italia, l’affitto della casa esaurito, nessun lavoro, nessun soldo i tasca, esiliato di nuovo e sempre lontano dalla mia meta. Ma a gennaio del 2006, finalmente, qualcosa si muove grazie alle mie guanxi e un po’ di fortuna, e un’altra azienda alimentare mi spedisce in Cina. Insieme a me è stato assunto un mio ex compagno di corso, Gianluca, e ci occuperemo di vendite in quel di Shanghai.

Ma i miei piani sono diversi: che bisogno c’è di due persone nella stessa città? Nella spartizione delle competenze ho cura di lasciare a lui le aree migliori e più ricche, ovvero Shanghai e il Sud, e io mi prendo il Nord e l’Ovest, decisione coraggiosa e importante per il mio futuro. E poi, dopo aver creato una buona base di clienti in loco, chiederò il trasferimento nella mia Pechino, ben più comoda e razionale per le vendite nell’area di mia competenza. Mentre lavoro al mio piano, visito ancora Pechino con frequenza mensile. E guardo sempre la cartolina datami da Laura, che ora si è trasferita all’università di Xiamen, sperando che mi porti davvero fortuna.

2006-11-16

Cafè de Niro

Il Café de Niro è uno dei nuovi locali sorti nella nuova Pechino che trovo. Un tempo nella strada del Poachers c’erano, oltre al detto locale, solo un ristorante tailandese, che ancora sopravvive, e un club all’angolo, chiamato appunto “The Club”. Ora la strada sembra un mercato, con gente che va e che viene, bar, ristoranti, baracchini, negozi di DVD, parrucchieri. Due anni dopo.

Ciò che sembra rompere il caos della strada, la Sanlitun Bei (三里屯北), è un bar dai colori chiari e morbidi opposti al caleidoscopio della via di fuori. Bianco e grigio, qualche nero vellutato, sedie imbottite e squadrate, riviste d’architettura, camerieri dal fisico atletico e la pettinatura essenziale chiusi in uniformi classiche e attillate. Musica lounge suona in sottofondo, quella musica che si ascolta senza accorgersene. Nonostante il nome italiano, è ovvio che il proprietario è un architetto e designer giapponese.

Il Café de Niro offre, oltre che un eccellente espresso servito in tazzine di vetro e metallo, una selezione impressionante di dolci – dalla torta di mele calda al tiramisù alla torta al sesamo - e una pace che è unica in Sanlitun. E’ sempre vuoto. Tanto vuoto che al terzo giorno che passo i camerieri si ricordano di me e mi offrono un succo d’arancia. Quando è pieno ci saranno tre tavoli occupati, su un totale di una decina. Ci si passerebbero le ore, al Caffè de Niro, a chattare col portatile connesso alla presa elettrica e alla rete wireless gratuita, a sorseggiare un caffè come si deve, ad ascoltare la musica rara che passa l’impianto. E le ore ce le passo davvero, ogni volta che posso.

E’ il 24 settembre 2005 quando scrivo:
“Musica soffusa, fuori il primo giorno d’autunno, aria fresca e umida di foschia. Odore di caffè, sapore di tiramisù, cacao e mascarpone, dolcezza di succo d’arancia e neutralità d’acqua. La completezza della sigaretta.

Seduto a un tavolino sul fondo, unico cliente, mi collego con il mondo tramite la rete. Comunico con persone, ed evito la folla.

Mai trovato un luogo così dolce e pacifico. Non mi meraviglia sia a Pechino.”

2006-11-10

End of the Night

“Take the highway to the end of the night
end of the night, end of the night”


E’ un sabato sera d’agosto a Pechino, e mi godo il weekend lontano dall’odiata Shanghai. La vita notturna a Pechino è una movida, tutto costa poco, ed è troppo facile spostarsi da un luogo all’altro, sorseggiando un cocktail e fumando una sigaretta, mangiando yangrouchuan’r a un angolo e comprando una bottiglia di limonata a un baracchino all’altro lato della strada. Facce conosciute e face sconosciute si mescolano nel caldo della strada… un saluto a un amico che si lascia, uno a un amico che si trova… l’ultimo incontro di questa sera è la persona che conosco da più tempo in questa città, il colei che testimonia, vivendo, il collegamento tra i miei ricordi e la realtà. Ed è così che ci si trova, come sempre, con niente da dire e mille cose da esprimere…

“I’ve been roaming all night long – from one bar to the other, looking for old memories and new hopes. Through clouds of smoke and alcoholic dreams, the smell of sweat and that of dust, I’ve walked and run, dazed by glowing lights and dark sleeping streets.

It’s at the end of the night that, finally, I choose to meet you, climbing the stairs to the rooftop where you sit on a sofa, the music still playing dim as the last few customers leave the place. I sit in front of you, a drink and a cigarette in my hands, and as the breeze cools my skin, I enjoy your sight. Your eyes and your smile make me feel so quiet, happy – like there was no tomorrow to think about, like the past had never been severed from tonight.

This is the end of the night, and I am happy to share it with you.”

Un giorno di pace

E’ luglio, e sono di nuovo a Pechino per un viaggio di lavoro. Sennonché, come spesso capita in Cina, i programmi non sono rispettati e qualcosa di inaspettato cambia tutto. Nello specifico, chi doveva farmi avere i miei appuntamenti con i clienti non l’ha fatto – la nuova direttrice vendite dell’ufficio di Pechino, tanto precisa e brava quanto timida; solo in Cina potevano mettere a capo di un ufficio vendite una persona che si vergogna ad alzare il telefono. E così, quella che doveva essere un’intensa serie di visite commerciali diventa qualcos’altro, come sempre lasciato più o meno al caso…

“La sveglia del mio cellulare personale mi fa prendere coscienza alle otto…

Ieri sera Mary doveva chiamarmi per farmi avere l’agenda dei miei appuntamenti di oggi. Non l’ha fatto, ma forse chiamerà stamattina. Accendo il cellulare di lavoro, e le do tempo… e intanto riprendo il mio sonno…

Quando mi sveglio ancora sono le dieci e mezza. Attraverso la zanzariera e la finestra aperta vedo i rami di un albero illuminati da un bel sole. Guardo il cellulare: Mary non ha chiamato. Non chiamerà, perché non ha fissato gli appuntamenti. Ed è troppo tardi per fissarli da me, il giorno stesso.

Mi alzo a sedere sul letto, e vedo il cielo blu intenso. Il sole è forte, ma una leggera brezza fresca mitiga il calore di questa giornata. E’ una giornata perfetta. E allora… vacanza!

Mi prendo il mio tempo per alzarmi e farmi una doccia, poi indosso pantaloni di cotone e una maglia di lino bianco, e con gli occhiali scuri inforcati, scendo in strada, godendomi il sole e il vento sulla pelle. E’ silenzioso… non ho mai sentito un silenzio così a Shanghai o a Milano. La gente è in strada, ma si muove lentamente, placidamente. Non c’è fretta di fare nulla, in una giornata così.

Cammino verso Sanlitun, e mi infilo nel Caffè de Niro, fresco e semi-vuoto. Mentre sorbisco un espresso, connetto il mio portatile e becco rete
wireless. Lo sapevo… è troppo bello per non essere vero. Sbadigliando alla luce di mezzogiorno, chatto con la ragazza che mi piace e altri amici. Hanno tutti belle notizie, e io ordino un succo d’arancia… tutto spesato dall’azienda come spese di trasferta. Amo il mio lavoro…

Un’ora è passata quando lascio il caffè e, dopo cinquanta metri di camminata e una strada attraversata, mi siedo a un tavolo del Kiosk, salutando facce conosciute e sorridenti. Il mio pranzo sono un’insalata di pomodori freschissimi e un bicchiere di
spritzer, fatto con vino di Macedonia. Una zhongnanhai da 8mg brucia tra le mie labbra…

In una giornata così, si può solo contemplare il mondo e amarlo. Ogni altra attività è superflua.

Ma questa pace, questa quiete, non l’assaporavo da tanto tempo.”

2006-11-08

Il Kiosk

Quando ho conosciuto Sasha aveva i capelli lunghi e folti, come me, e gestiva una trading che lavorava con casa sua, la Serbia. Quando lo trovo di nuovo ha i capelli corti, come me, e ha aperto un chiosco di panini.

Il Kiosk è uno dei posti più rilassanti e piacevoli della nuova Pechino che trovo: un chioschetto blu con finto campanile, che contiene un frigo e una piccola cucina, e cinque o sei tavolini messi in fila sulla strada del Nali Mall, un piccolo complesso sorto recentemente attorno a una traversa della Sanlitun, e che comprende ristoranti, un locale di musica jazz, negozi di abbigliamento femminile e una manicure. Tranquillo, silenzioso, pur essendo a una ventina di metri dalla jiuba jie, per qualche miracolo riesce a creare un’atmosfera lontana anni luce. Nonostante non possa farmi rimborsare il pasto causa mancanza di fapiao, ci vado sempre e comunque per pranzo, per godermi uno dei panini stupendi che fanno.

Sasha sta davanti al chiosco, tipicamente camminando avanti e indietro con una birra e una sigaretta in mano. Saluta i clienti, li conosce tutti, spesso si siede a chiacchierare con loro, prende le ordinazioni. Si vede che il suo lavoro lo fa con passione, e nonostante gli orari impossibili che fa i primi tempi – dalle dieci di mattina alle dieci di sera, gran parte del tempo in piedi – è molto più felice di prima. Manco a dirlo, i tavolini del Kiosk sono sempre pieni, tutti sanno dov’è e ci sono stati prima o poi, molti ci vanno diverse volte a settimana per gustare un panino sano fatto con verdure fresche e un bel pezzo di carne speziata.

Seduto a uno dei tavolini, il 21 giugno 2005 scrivo:
“In una traversa di Sanlitun, un vicolo appena, ci sono dei tavolini, all’ombra di grandi ombrelloni verdi che coprono dal sole di giugno. Ad uno di questi tavolini tre uomini parlano in spagnolo: uno è di Salamanca, uno di Milano, l’altro di Belgrado. Quando lo spagnolo se ne va, il serbo torna al suo lavoro e l’italiano si siede in un angolo con la sua birra e accende una sigaretta. Chiacchiera in italiano con la cameriera indiana. Poco dopo, arriva in bicicletta una ragazza messicana, bacia il serbo, suo marito, e saluta tutti in italiano. I camerieri cinesi sorridono, borbottando timidi nella loro tipica calata del nord. E poi arrivano altri amici: italiani di Napoli, Padova, Perugia, Roma; cinesi da Pechino e da Tianjin; svedesi da Malmo; altri spagnoli, francesi, americani, australiani.

Questa è la Pechino che ricordavo. Non c’è distinzione d’origine. Il diverso si mescola discretamente, senza attriti, nell’ombra di un vicolo e al fresco di una birra
qingdao.”

2006-11-04

Di nuovo Jingyi

Quando torno in Cina le scrivo una mail per avvertirla. Mi risponde in modo strano, sembra che sia felice ma non abbia il tempo di scrivermi troppo a lungo. Poi, quando torno a Pechino, la chiamo ancora “Vediamoci una sera di queste”: Lei è come sempre impegnatissima, e mi dà un sabato sera appuntamento allo Yan Club, che non è né vicino né comodo per vedersi e raccontarsi due anni di storia.
Ci arrivo con Marco, un mio compagno di corso a Milano. Alla porta chiamo Jingyi, “Arrivo” dice.. Un minuto, e la vedo sbucare dal club, e saltarmi addosso abbracciandomi stretto stretto. “Ciao!” mi dice in italiano. Ricambio l’abbraccio un po’ imbarazzato.
Poi mi porta dentro, dove ci sono altri suoi amici. Musica trance a palla, coltre di fumo, alcolici da quattro soldi offerti gratis. E’ dimagrita, Jingyi, e mi sembra anche cambiata. Sono passati due anni, diamine. Ma c’è qualcosa in lei che mi insospettisce e disturba, sebbene non capisca cos’è. Mi dedica poco tempo, perché deve tornare a ballare, insieme ai suoi amici, tutti sotto le casse dove il volume è più forte. Non mi va di unirmi a loro, e rimango praticamente abbandonato.

Ci esco di nuovo qualche tempo dopo, una cena a un ristorante xinjiangese, io, lei e una sua amica francese. Ora Jingyi sta con un altro ragazzo italiano: lui sta a Roma. Si vedono un paio di volte l’anno, e lei è molto contenta di questa situazione di libertà. In questo non è cambiata. Durante la cena evita accuratamente di portare il discorso sui nostri trascorsi, di cui ovviamente l’amica non è al corrente. La stuzzico con qualche frecciata e mi risponde tagliente come al solito.
“Un altro ragazzo italiano… ” le chiedo, sorridendo “Quanti ne hai avuti?”
“Uno solo che abbia amato” mi risponde. E so che non si riferisce a me.
Poco dopo ci ritroviamo allo Yugong Yishan, un nuovo locale costruito dentro un parcheggio degli autobus. Il locale è vuoto, l’estate è calda, e così ci sediamo fuori, sotto gli alberi. Jingyi rolla una canna, e finalmente mi parla della sua svolta da raver:
“Odio la gente che beve, va nei locali solo per ubriacarsi. Sono molesti e fuori luogo, e danno fastidio per buona parte della notte. Ma c’è un momento, che è quello dell’alba, che è il più bello. E’ quando gli ubriachi se ne sono andati ed è rimasto solo lo zoccolo duro della festa, quelli che sono lì per ballare. Sei allo Yan Club, la musica è fortissima, e dalle vetrate vedi il sole sorgere, e la sua luce illumina le facce delle persone che ti stanno attorno e ballano. E allora non c’è nulla da dire, basta guardarsi negli occhi. E tutti noi sappiamo perché siamo lì”
La mia mente vaglia una decina di risposte taglienti che possano distruggere il suo entusiasmo, da “In ogni caso anche a voler parlare non avreste nulla da dirvi” a “Non vi sarete mai parlati allora” fino a “Non sapevo che ti drogassi”. Ma alla fine sono sempre troppo buono e le scarto tutte. Accetto la canna che mi passa.
“Mi fa piacere che tu sia tornato” mi dice.
“Grazie. Peccato stia a Shanghai” rispondo.
Lei storta la bocca con quel suo modo particolare: “Ci sono stata una volta, a Shanghai. Non è la città per me”
Almeno su questo, siamo ancora d’accordo.

2006-11-01

La Teoria della Prospettiva

Una delle cose in assoluto più irritanti della Cina è la generale incapacità della popolazione locale di deambulare in maniera coerente, che siano a piedi o su un mezzo di locomozione. Andate in un centro commerciale, in un aeroporto, in una strada gremita: troverete gente che vi urta costantemente, gente che si ferma di colpo per guardare il cellulare nonostante abbia una fila interminabile dietro di sé, gente che spinge nonostante abbia una fila interminabile davanti a sé, gente con le borse che non bada minimamente all’urto di queste contro gli astanti. La situazione è replicata pressoché uguale nel traffico: in particolare, i cinesi sembrano avere serie difficoltà nell’evitare gli oggetti in movimento. Esempio: state attraversando la strada sulle strisce e una bicicletta vi viene incontro da destra. Un ciclista normale ha a disposizione due possibilità: 1) aggirare il pedone a sinistra; 2) frenare. I cinesi ne considerano una terza: aggirare il pedone a destra, accelerando e tagliandogli la strada, infilandosi tra lui e il marciapiede più vicino. Di fatto la possibilità viene considerata ma la decisione non viene presa. E quindi, mentre il ciclista cerca di trovare l’opzione migliore tra le tre, potete leggere il panico nei suoi occhi e lo vedete agitare convulsamente il manubrio, che immancabilmente vi punta o vi centra; che voi stiate fermi o scappiate in qualunque direzione quella bicicletta è come un missile a guida di calore, non c’è scampo, a meno di gettarsi a lato l’ultimo secondo, come nei film quando il cattivo spara al buono. Nel caso il cinese vi centri, tipicamente casca rovinosamente, quindi si alza e vi guarda come a dire “E’ colpa tua” e se ne va senza scusarsi.

Da qui nasce la Teoria della Prospettiva che tenta di mettere ordine logico in questa faccenda. La Teoria sostiene che gran parte dei cinesi devono in qualche modo avere un problema ottico o cerebrale che impedisce loro di assorbire ed elaborare velocemente le informazioni spaziali. Questa situazione non è generalizzata, tuttavia molto molto comune.
Le basi di questa teoria sono qui di seguito riassunte:
a) come prima esposto, in media i cinesi non sanno muoversi in uno spazio con altri oggetti in movimento senza andare a sbattere;
b) nonostante siano una delle più grandi civiltà della storia, dal punto di vista architettonico e scultoreo non hanno lasciato granché a parte un muro di mattoni lungo lungo e delle torri di legno con la base larga e il tetto stretto, e anche oggi i grattacieli belli li hanno tutti progettati gli stranieri;
c) nessun cinese apparentemente è in grado di capire una mappa bidimensionale e relazionarla con la realtà (provate a mostrare una mappa urbana a un tassista e ve ne accorgerete);
d) il codice stradale cinese, con la svolta libera a destra, la corsia di inversione a destra di quella per la svolta a sinistra, e il sorpasso libero su entrambi i lati è in ovvio conflitto con la geometria euclidea.

La Teoria, pur coraggiosa, è effettivamente efficace nello spiegare una serie di fenomeni altrimenti misteriosi. Attendiamo la reazione della comunità scientifica a riguardo.