La mia scrivania è una tavola di legno appoggiata su supporti instabili contro un muro, con un vetro da cui vedo Vaira, la junior manager. Ha cominciato a lavorare praticamente da oggi, ha un anno più di me eppure mi fa da mamma. E ' dolce, Vaira, mezza-trentina e mezza-friulana, originaria di un piccolo paradiso di montagna, costruito sulle rive di un lago alpino ed isolato dal mondo. Non ho mai capito cosa l'abbia spinta a lasciare quel suo piccolo mondo per vivere l'avventura della Cina, ma dopo anni che è qui, a studiare cinese, è cambiata. La Cina è un paese che cambia tutti quelli che ci vivono, ma se mi sento spaesato io, che vengo da Milano, mi immagino come si sia sentita lei, quando è venuta qui per la prima volta. Vaira è un nome strano, sì – mi dice che viene dal sanscrito, anche se non sa cosa significhi. Io lo so: Vajra, il fulmine, il diamante. Ironia della sorte lei, bionda, pallida e con gli occhi azzurro chiaro, sta con un ragazzo mauriziano, di etnia tamil, scuro di pelle, d'occhi e di capelli. Vikash, un gioiello di ragazzo, buono e dolce quanto lei. E' con Vaira che faccio il mio primo pranzo in una bettola cinese - lei ordina e mi spiega come mangiare. Una mamma.
Marco invece è lì per spaventarmi: non offre aiuto, ma piuttosto, un po' per confortarmi con il fatto che anche lui sta sbroccando, un po' per sfogare la sua rabbia, mi racconta di come tutto sia duro, tutto difficile, tutto una prova destinata a non essere mai superata definitivamente. E' nevrotico, Marco, e mi sommerge con la sua logorrea e con le sue lamentele su tutto ciò che esiste in questo paese che odia con tutto il cuore, sebbene nelle sue parole si possa intuire un qualcosa, un fascino cui non sfugge nemmeno lui, qualcosa che non spiega ma sente profondamente.
Il computer dove lavoro è il laptop del mio capo, dato in prestito, e connesso alla rete con un modem telefonico che blocca le linee e salta ogni due per tre. L'ufficio non dispone di grandi fondi, e quindi bisogna supplire lavorando di più. Il mio capo è inflessibile, e per mettermi in riga mi sovraccarica subito di lavoro. Non dimenticherò mai le ore passate al telefono a chiamare manager di alberghi internazionali che parlano cinglese oppure solo mandarino, per chiedere il rinnovo degli accordi di preferenza dati ai soci. Le segretarie deficienti che, non capendo, rispondono "sì" e mettono giù. Cento chiamate allo stesso albergo, dieci centraliniste che si passano la telefonata dall'una all'altra come una bomba che sta per scoppiare. Nessuno che dica "non ho capito", "il mio capo non c'è e tornerà domani". In Cina non si può dire. Probabilmente il più grande shock culturale che affronta un occidentale in Cina è il muro di gomma della formalità. E' impossibile dire "no", "non lo so", "non ho capito". Si nega l'evidenza, si fanno promesse spudorate che non verranno mai mantenute, si raccontano enormità improponibili pur di salvare la faccia, e non dover ammettere di non essere in grado di affrontare una situazione imprevista, come una persona che chiama e vuole parlare inglese. La loro flessibilità è pari allo zero assoluto. E io divento nevrotico, dopo aver appoggiato la cornetta commento basito, poi sdegnato, poi infuriato, insultandoli come posso senza offendere i colleghi che mi sentono. Li odio, e il mio capo lo sa, e lo ha fatto apposta. Come un marinaio che insegna ai figli a nuotare, li porta al largo e li getta dalla barca, ritornando a riva: mi ha buttato in mare, per insegnarmi a restare a galla da solo. Per farmi raggiungere da subito il punto di rottura che, in seguito, dalla nevrosi e l'odio porterà all'accettazione della realtà immutabile: l'incompetenza, la mancanza di professionalità, la paura della responsabilità radicata nella cultura cinese moderna, figlia del comunismo maoista.
E' nel tardo pomeriggio che, vedendomi ormai color bile, il mio capo mi affida il compito di fare una tabella excel dei contatti. Me la farà rifare cinque, sei volte, finché non avrò imparato a farla come vuole lei.
Esco dall'ufficio morto, sfiancato dal jet lag e dalla frustrazione. Sono le otto passate, e camminando solo arrivo in hotel, affamato come un lupo. Dove mangiare? Nel buio gibsoniano di questa città sconfinata, tutte le insegne sono uguali: caratteri al neon rossi, verdi e gialli, grandi come persone; palme di plastica che si illuminano a intermittenza, spuntando ridicole dall'asfalto coperto di ghiaccio; persone senza volto che camminano avvolte in grossi cappotti, senza nozione di alcuna lingua conosciuta. Tutti i luoghi sono uguali, per me. L'unico ristorante aperto che trovo è quello dell'hotel Dabei. Mi ci siedo, solo, e una cameriera sui quindici anni mi porta un menù interamente scritto in cinese. Poco dopo, quattro cameriere della stessa età mi circondano, parlandomi a macchinetta nella loro strana lingua, e mostrandomi i vari piatti scritti in tondeggianti disegni rossi sul foglio giallo. Poi una ha un'idea brillante, e mi porta un menù illustrato: non mi illumina affatto, perché il cibo è irriconoscibile. Scelgo a caso, e presto otto cameriere che ridono come pazze mi portano un secchio di legno che contiene quelle che sembrano strisce di carne brasate e verdure non identificabili. Le bacchette tonde di plastica mi scivolano, mentre tento di afferrare i piccoli pezzi di cibo. E' allora che sedici cameriere mi assaliscono porgendomi una forchetta. Tutto il ristorante mi guarda: gente che ride, gente girata sulla sedia, che mastica tenendo alte le bacchette, gente che mi guarda con un misto di pietà e derisione. Il mio orgoglio vince e, accettata la forchetta, la pongo di fianco al secchio e impugno le bacchette, con mano tremante e sotto lo sguardo di tutto il ristorante: cameriere, clienti, cuochi. Tra fame e vergogna, la prima vince: con fatica, le mie dita guidano le bacchette ad afferrare i pezzi di cibo e a portarli, con immane fatica e concentrazione, alla mia bocca. E' buono dopotutto. La carne dev'essere maiale, le verdure non l'ho mai scoperto cosa fossero. Esito un attimo prima di inghiottire qualcosa di nero che sembra un incrocio tra un'oliva e una castagna. Per fortuna, mi accorgo prima di metterla in bocca che è una pietra rovente, posta sul fondo del secchio per tener calda la pietanza.
Quando torno in camera sono stanco, frustrato, umiliato. Ma sento una dolcezza nella mia solitudine, una dolcezza che viene dall'orgoglio d'esser solo in una terra ostile e sconosciuta, ed esser tutto sommato vivo dopo le dure prove affrontate. Quando mi stendo sul letto, mi addormento immediatamente, come un sasso sul fondo di un secchio di legno usato per servire del maiale e delle verdure sconosciute.
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