Quando l'aereo comincia ad atterrare e scende al di sotto delle nubi, il paesaggio è alieno; sotto di me, vedo edifici quadrati, tutti uguali, iscritti in cortili quadrati tutti uguali, iscritti in isolati quadrati, tutti uguali. Il colore predominante è un misto tra marrone e giallo, omogeneo su case, strade e quel che non è né uno né l'altro, ma tuttavia è impossibile dire se sia erba o terra battuta. I quadrati si replicano all'infinito, mentre l'aereo scorre e scende, come in una visione d'incubo totalitario.
Finalmente l'aereo tocca terra. E' una giornata uggiosa, che rende ancora più cupo e squallido il paesaggio. La temperatura è dieci gradi sotto lo zero, e il vento secco sferza la pelle come una frusta. Intabarrato nel montone di mio padre, trascino le valigie fino al banco dell'immigrazione. Una guardia severissima, di pochi anni più grande di me, mi apostrofa in cinese marziale chiedendo le mie generalità, che ho difficoltà a spiegargli. Non parla inglese. Davanti a me, un muro con disegnato sopra un altro muro, la Grande Muraglia, simbolo della Cina e delle barriere che s'erige attorno da secoli. Oltre il muro, mi dirigo verso l'uscita dell'aeroporto, attraversando una folla omogenea e indistiguibile, dai tratti orientali e la favella strana. Tutti vestiti in abiti pesanti, dall'aspetto scomodo, poco gradevole, e i colori spenti. La pelle è scura, tendente al marrone, i capelli spessi e spettinati, i denti storti ma sorridenti. C'è chi mi guarda curioso, perché non ci sono altri stranieri attorno a me.
Finalmente varco le porte che danno su un'area esterna ma coperta, che in questa giornata rende ancora più scuro il luogo. Vengo accolto da una folla di uomini, con la sigaretta in mano e l'aria circospetta di chi sta facendo qualcosa di illegale.
"Taxi?" chiedono "Come on, come on!" gesticolano nel loro cinglese, una lingua nasale e atona, una parodia dell'American English che risulta, nella migliore delle ipotesi, fastidiosa all'orecchio. Mi accorgo in fretta che il taxi, una Audi nera con i vetri oscurati, non ha scritte ufficiali né licenze. Non mi sembra il caso di farmi fregare appena arrivato, e rifiuto con fermezza nonostante le insistenze dei signori loschi e sorridenti. Finalmente trovo una guardia che mi infila praticamente a forza, berciando parole incomprensibili, in un taxi rosso, questo con regolare licenza. L'autista è un uomo sui quarant'anni, leggermente sovrappeso e d'aspetto piuttosto gradevole rispetto alla media dei suoi compatrioti.
"你好" dice "去哪儿?"
Ni hao, qu nar? Dove si va, chiede allungando la "a" e arrotando una curiosa "erre" che, scoprirò, è caratteristica della parlata di Pechino e del Nord della Cina, l’erhua (儿话), anzi, l’erhuar. Gli mostro un foglio, l'indirizzo dell'albergo scritto in caratteri cinesi faxatomi da Marco, lo stagista di cui prenderò il posto.
"好啊!" esclama. Bene.
Lungo la strada, un'autostrada a numerose corsie con un casello che somiglia a un tempio, con i suoi tetti ricurvi e le travi di legno smaltato, l'autista fa di tutto per attaccare bottone, abitudine questa di tutti i tassisti di Pechino. All'inizio non capisco nulla di quel che mi chiede, ma lui è paziente, e forse ha esperienza con gli stranieri. Probabilmente ha apprezzato la mia scelta, per la verità spontanea, di sedermi accanto a lui e non sul sedile posteriore. E per la prima volta ho una conversazione con un cinese nella sua lingua, questa strana accozzaglia di suoni tonali, vocali allungate ed erre arrotate, rozzissima eppure nobile e maestosa. Mi chiede da dove vengo, quale città, e poi, come fanno tutti, si mette a parlare di calcio. Lui tiene il Milan, e ne conosce la formazione. Ma anche l'Inter gli piace. Guarda le partite sulla TV cinese - qui moltissima gente ne va pazza. Conosce Roberto Baggio e sa che è buddista.
Ridendo e scherzando, il tassista riesce a portarmi fino al mio hotel - il Dabei Binguan, l'Albergo del Grande Nord. E' un edificio coperto da piastrelle bianco sporco, di chiara impostazione stalinista, un cubo forato da piccole finestre grigie, senza tapparella. L'entrata è su una strada laterale, perché al piano terra ci sono un ristorante e un'altra attività di cui non comprendo la natura, dato che qualunque negozio, qui a Pechino - dal parrucchiere al carrozziere - ha pomposi caratteri rossi e gialli, e per chi non li sa leggere, non c'è verso di capire cosa indichino. Ma di fianco al Dabei Binguan, c'è il Palazzo della Motorola, Motolola Dasha. E quello lo conoscono tutti. E' ridicolo chiamarlo "MotoLola", ma la erre italiana qui proprio non la capiscono, quasi si spaventano a sentire un suono del genere.
Mentre scarica le valigie e si fa pagare, l'autista mi chiede una mancia. "Si usa sempre dare mance ai tassisti" sostiene, con l'aria di chi sta insegnando qualcosa. Gli lascio il 25% in più, l'equivalente di due euro, anche se lui vorrebbe di più. Poi ci salutiamo cordialmente come fossimo vecchi amici.
Più in là, un'amica cinese mi spiegherà la mancia non si usa dare mai in Cina, né ai tassisti né ai camerieri. Non sono nemmeno entrato nell'hotel, e mi hanno già fregato. Ma questo è nulla, in confronto a quello che vedrò accadere in seguito.
Finalmente l'aereo tocca terra. E' una giornata uggiosa, che rende ancora più cupo e squallido il paesaggio. La temperatura è dieci gradi sotto lo zero, e il vento secco sferza la pelle come una frusta. Intabarrato nel montone di mio padre, trascino le valigie fino al banco dell'immigrazione. Una guardia severissima, di pochi anni più grande di me, mi apostrofa in cinese marziale chiedendo le mie generalità, che ho difficoltà a spiegargli. Non parla inglese. Davanti a me, un muro con disegnato sopra un altro muro, la Grande Muraglia, simbolo della Cina e delle barriere che s'erige attorno da secoli. Oltre il muro, mi dirigo verso l'uscita dell'aeroporto, attraversando una folla omogenea e indistiguibile, dai tratti orientali e la favella strana. Tutti vestiti in abiti pesanti, dall'aspetto scomodo, poco gradevole, e i colori spenti. La pelle è scura, tendente al marrone, i capelli spessi e spettinati, i denti storti ma sorridenti. C'è chi mi guarda curioso, perché non ci sono altri stranieri attorno a me.
Finalmente varco le porte che danno su un'area esterna ma coperta, che in questa giornata rende ancora più scuro il luogo. Vengo accolto da una folla di uomini, con la sigaretta in mano e l'aria circospetta di chi sta facendo qualcosa di illegale.
"Taxi?" chiedono "Come on, come on!" gesticolano nel loro cinglese, una lingua nasale e atona, una parodia dell'American English che risulta, nella migliore delle ipotesi, fastidiosa all'orecchio. Mi accorgo in fretta che il taxi, una Audi nera con i vetri oscurati, non ha scritte ufficiali né licenze. Non mi sembra il caso di farmi fregare appena arrivato, e rifiuto con fermezza nonostante le insistenze dei signori loschi e sorridenti. Finalmente trovo una guardia che mi infila praticamente a forza, berciando parole incomprensibili, in un taxi rosso, questo con regolare licenza. L'autista è un uomo sui quarant'anni, leggermente sovrappeso e d'aspetto piuttosto gradevole rispetto alla media dei suoi compatrioti.
"你好" dice "去哪儿?"
Ni hao, qu nar? Dove si va, chiede allungando la "a" e arrotando una curiosa "erre" che, scoprirò, è caratteristica della parlata di Pechino e del Nord della Cina, l’erhua (儿话), anzi, l’erhuar. Gli mostro un foglio, l'indirizzo dell'albergo scritto in caratteri cinesi faxatomi da Marco, lo stagista di cui prenderò il posto.
"好啊!" esclama. Bene.
Lungo la strada, un'autostrada a numerose corsie con un casello che somiglia a un tempio, con i suoi tetti ricurvi e le travi di legno smaltato, l'autista fa di tutto per attaccare bottone, abitudine questa di tutti i tassisti di Pechino. All'inizio non capisco nulla di quel che mi chiede, ma lui è paziente, e forse ha esperienza con gli stranieri. Probabilmente ha apprezzato la mia scelta, per la verità spontanea, di sedermi accanto a lui e non sul sedile posteriore. E per la prima volta ho una conversazione con un cinese nella sua lingua, questa strana accozzaglia di suoni tonali, vocali allungate ed erre arrotate, rozzissima eppure nobile e maestosa. Mi chiede da dove vengo, quale città, e poi, come fanno tutti, si mette a parlare di calcio. Lui tiene il Milan, e ne conosce la formazione. Ma anche l'Inter gli piace. Guarda le partite sulla TV cinese - qui moltissima gente ne va pazza. Conosce Roberto Baggio e sa che è buddista.
Ridendo e scherzando, il tassista riesce a portarmi fino al mio hotel - il Dabei Binguan, l'Albergo del Grande Nord. E' un edificio coperto da piastrelle bianco sporco, di chiara impostazione stalinista, un cubo forato da piccole finestre grigie, senza tapparella. L'entrata è su una strada laterale, perché al piano terra ci sono un ristorante e un'altra attività di cui non comprendo la natura, dato che qualunque negozio, qui a Pechino - dal parrucchiere al carrozziere - ha pomposi caratteri rossi e gialli, e per chi non li sa leggere, non c'è verso di capire cosa indichino. Ma di fianco al Dabei Binguan, c'è il Palazzo della Motorola, Motolola Dasha. E quello lo conoscono tutti. E' ridicolo chiamarlo "MotoLola", ma la erre italiana qui proprio non la capiscono, quasi si spaventano a sentire un suono del genere.
Mentre scarica le valigie e si fa pagare, l'autista mi chiede una mancia. "Si usa sempre dare mance ai tassisti" sostiene, con l'aria di chi sta insegnando qualcosa. Gli lascio il 25% in più, l'equivalente di due euro, anche se lui vorrebbe di più. Poi ci salutiamo cordialmente come fossimo vecchi amici.
Più in là, un'amica cinese mi spiegherà la mancia non si usa dare mai in Cina, né ai tassisti né ai camerieri. Non sono nemmeno entrato nell'hotel, e mi hanno già fregato. Ma questo è nulla, in confronto a quello che vedrò accadere in seguito.
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