2006-05-14

Primo Giorno di Lavoro (prima parte)



Il mattino seguente, mi sveglio che sono le otto meno un quarto. Il mio corpo le dovrebbe sentire come fosse l'una meno un quarto di notte, ma l'eccitazione è ancora tanta che quasi non me ne accorgo. C'è silenzio nella mia camera all'hotel Dabei. Dopo una doccia veloce, mi preparo per recarmi al mio primo giorno di lavoro: con una tazza fumante di tè in mano, scosto le pesanti tende della finestra e mi accorgo che nel parcheggio ci sono dei pensionati che sembrano danzare coordinati ed eleganti con delle lunghe spade diritte in mano. Quella mattina, scrivevo:

23 gennaio 2003, h 7.54 am; Pechino.
"Sveglia in camera mia. Ci si prepara per il lavoro.
Mentre canticchio sommessamente "
Drive" degli Incubus, e sorseggio tè al gelsomino - la mia colazione - guardo il vicolo dalla finestra. In mezzo a gente che corre al lavoro, ai piedi di grandi grattacieli appena innalzati, un gruppo di persone intabarrate in giacche a vento fa taijiquan.
Strano mondo. Nuovo e antico si fondono, generando a tratti bellezza e squallore."

 
Ho sognato Laksmi, stanotte. La ragazza che ho amato più a lungo nella mia vita. La mia chimera, quella che non ho mai nemmeno baciato, quella alla cui vista il mio cuore batte, e al cui pensiero esso trema ancora. Nonostante non la veda da cinque anni, di tanto in tanto la sogno ancora. Ma stamattina sono meno inquieto delle altre volte. Sarà la lontananza, sarà l'orgoglio d'aver fatto qualcosa di inaspettato e interessante, di coraggioso, che non mi causa l'usuale depressione mista a malinconia. Quando tornerò, questo l'ho deciso ancora prima di partire ma ne divento sicuro solo ora, la andrò a cercare, ultimo dei miei demoni da sconfiggere. Il mio desiderio e la mia paura, l'immagine dell'Amore che vive nella mia mente, perché Laksmi non l'ho mai davvero conosciuta, e ciò che amo in lei esiste in gran parte nella mia fantasia. Mi sento più forte e più libero, qui. Acquisisco una lucidità che non ho mai avuto prima… il silenzio, la solitudine, forse è merito loro.




In strada la neve cade tagliente come ferro: percorro gli stradoni cercando di non scivolare sul ghiaccio, ma non è facile. La gente dei negozi beve tè conservato in termos, e quando l'acqua è ormai fredda, i negozianti la gettano in strada, dove ghiaccia immediatamente lasciando pozzanghere scivolose. La neve è spazzata via da folti gruppi di persone, coperte di pesanti cappotti marroni con cappuccio ed equipaggiati con scope di saggina troppo corte, che li obbligano a piegarsi in due per usarle. Vanno avanti e indietro per i marciapiedi, talvolta scivolando e scontrandosi, con grande ilarità, e con le scope levando la neve e lasciano il ghiaccio, aumentando notevolmente la pericolosità della via. E' difficile a credersi… e mi chiedo quale sia la soglia della stupidità di un popolo.




Arrivo al Jingguang in venti minuti e mi immergo nel calore dorato del lusso. In ufficio sono il primo ad arrivare, insieme a una collega, Linda, che come me comincia quel giorno. Parla un italiano molto primitivo, ma è gentilissima; è il suo primo giorno di lavoro, come me. Aspettando un po', arriva Vaira, la junior manager, che ha la chiave. Il capo non c'è ancora - ieri ha fatto tardi - quindi lascio la giacca e, contento d'essere arrivato puntuale al primo giorno di lavoro, scendo a farmi un caffè come si deve perché il tè è sì buono, ma il caffè è un'altra cosa.

Nella hall del Jingguang hotel il caffè è elegantissimo: è un bar in stile vagamente coloniale in cui si serve solo caffetteria, con tre inservienti con lunghi capelli neri raccolti, vestite in lunghi abiti tradizionali - di quelli con l'alamaro sul cuore e lo spacco laterale - rimodernati da un nero monocromo che fa quasi Armani. Ordino la cosa più semplice: un caffè. Dopo circa dieci minuti in cui la mia impazienza cresce, temendo l'arrivo del capo che non mi troverà, la ragazza porta un pesante carrello al mio tavolo. Il carrello è fatto di vetro e metallo. La cameriera, con una paletta di legno, prende dei chicchi tostati di caffè da una bella scatola, pure di legno scuro, li posa in un macinino, e con una manovella pazientemente comincia a macinarli. In seguito, li metterà all'interno di un alambicco, ne riempirà un altro d'acqua e accenderà una fiammella a gas che, sotto i miei occhi, causerà la reazione chimica che porta alla nascita dell'espresso, un rito. Sarebbe magnifico, questo rituale, se non fosse che è il mio primo giorno di lavoro, dovrei essere in ufficio e non ci sono, pensavo di bere una caffè al volo e qui manca solo che me lo coltivino, e la ragazza non capisce "Quick, please, a little more quick!".

Venti minuti dopo risalgo in ufficio - tanto il tempo per la preparazione del caffè e il suo inghiottimento immediato. La cameriera dev'esserci rimasta male, a vedermelo trangugiare in un sorso. Ma pazienza, io ho provato a spiegarmi, non è colpa mia - mi dico - se il personale di questo hotel non capisce un cazzo di inglese né sa usare la logica quando vede una persona impaziente. Non sono nemmeno ventiquattr'ore che sono in questo paese, e già sto cristando dietro ai cinesi. Ma questa, ai tempi lo ignoravo, è una caratteristica di ogni espatriato che vive qui, l'esasperazione davanti al rispetto filisteo delle procedure degli autoctoni e la loro paura irrazionale di tutto ciò che è imprevisto.

Quando arrivo in ufficio, il mio capo è già lì, impaziente, che si chiede dov'ero. Ma non s'arrabbia per il lieve ritardo. In compenso, la mia prima giornata di lavoro durerà dieci ore di delirio puro.

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