2006-05-09

Dabei Binguan


Nonostante l'imponenza, l'Hotel Dabei ha la porta su una strada laterale in cui passa a malapena una macchina, fiancheggiata da muri di cantieri e fabbriche di mattoni rossi. All'entrata, un ragazzo sui sedici anni, vestito con giacca e cappello bianco, apre la porta agli ospiti, anche se di giorno spesso è distratto e non si accorge dell'arrivo delle persone, e di notte lo si trova steso sul divano rosso, crollato sotto il peso della stanchezza. Quando si accorge di un ospite, che sia accanto alla porta o sul divano, accorre spaventato e colpevole, facendo inchini a profusione e tenendo la porta anche se uno se l'è già aperta da solo. Alla reception, un banco di tre metri di lunghezza, ci sono tre impiegati in ogni momento, ma solo uno, il più anziano, conosce una decina di parole di inglese. Mi mostra la mia camera.


La hall è elegante, con moquette, tappezzeria e divani rossi e bordature in ottone dorato. In un angolo un banchetto di vetro che vende carte telefoniche e cineserie varie. Una scala porta ai due ascensori, entrambi in manutenzione. Degli operai in elmetto e canottiera, nonostante la temperatura della stagione, si infilano con una corda nella tromba vuota dell'ascensore, e in mezzo a uno scoppiettare di scintille saldano qualcosa, vociando tra di loro forse per decidere che fare. Le scale sono alte e strette, male illuminate, e portano in un corridoio largo un metro su cui si affacciano le camere. Varie signore delle pulizie in uniforme azzurra e fazzoletto bianco in testa si muovono avanti e indietro scherzando tra loro, incuranti della mia presenza. La mia camera è minuscola, ma confortevole. Azzurro cupo come il corridoio, con moquette; un letto singolo con coperte pesanti, due sedie dallo schienale tondo, un mobile per la TV con mini-bar (vuoto) incassato e una cassaforte, un'abat-jour, un tavolo tondo tra le due sedie con sopra un vassoio d'alluminio, un thermos d'acqua bollente, delle tazze di porcellana tipiche cinesi, delle buste di tè al gelsomino, un posacenere tondo, due comodini quadrati accanto al letto. In seguito scoprirò che tutte le stanze d'albergo della categoria tre-quattro stelle di Pechino sono ammobiliate esattamente allo stesso modo.
Due strati di tende, una scura, l'altra trasparente, coprono l'unica finestra che guarda sul retro, ovvero un parcheggio all'ombra dell'hotel Dabei, del palazzo Motorola, dell’Ascott e di un altro grattaciel senza nome, che nascondono il sole a qualunque ora. Il bagno è piccolo ma confortevole, La porta è sottile, e attraverso essa si sentono i rumori che vengono dal corridoio e dalle altre camere: più di una volta mi ritrovo ad aprire a una persona che aveva bussato alla porta di fronte. Nelle altre stanze ci sono piccoli uomini d'affari, che stanno in due o tre per stanza, e girano talvolta nelle loro giacche scure, tutte uguali, a volte in canottiera, e mi guardano incuriositi quasi fossi un alieno sbucato da chissà dove. E' un posto squallido e malinconico, l'hotel Dabei, un posto di solitudine dove essa è così assoluta da essere quasi dolce. Un luogo che rappresenta perfettamente l'anima di Pechino, come viene scoperta dal viaggiatore che la incontra la prima volta.

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