2006-05-21

Personaggi di Pechino


Il giorno seguente nevica. La neve cade a piccoli fiocchi, ma è gelida. Il termometro segna quindici gradi sotto lo zero, e il vento è una lama che penetra attraverso i guanti, il cappello, la sciarpa. I marciapiedi sono lastre di ghiaccio su cui a malapena mi reggo in piedi, con delle scarpe pesanti forse ereditate da un parente, che in Italia non ho mai messo, e il vecchio montone di mio padre a cui manca uno dei bottoni. I cinesi cadono come pere, poi si rialzano facendo finta di nulla e riprendono la marcia attraverso la città, ignorando le facce addormentate del mattino. Gli unici che cercano il contatto umano sono uomini dalla pelle scura e arsa dal sole e dal freddo, con i capelli lunghi e irsuti come lupi; sono vestiti di pelli d'animali conciate in rozze giacche con i bordi colorati, portano i mano coltellacci da una spanna e teschi di cervi. Sono tibetani, visioni da medioevo, cacciatori che d'inverno lasciano le montagne per vendere qualcosa nella grande città.

La giornata di lavoro scorre lunga e dura, e alla fine, mosso a pietà, l'altro stagista si offre di cenare con me e farmi vedere un posto che conosce. Si tratta di Joe's, un locale che serve bistecche all'americana a un prezzo folle, cinque volte il costo di un normale ristorante cinese. Ma Marco non mangia cinese. Si direbbe che della Cina odi tutto, tanto passa la giornata a lamentarsi.
Ha vissuto negli Stati Uniti, un paese che è il suo mito. Marco paragona tutto ciò che vede agli Stati Uniti. Il risultato è che, nella sua visione, i cinesi sono stupidi, falsi, inetti. Il loro cibo è sporco e fa schifo. La città è povera e caotica. La lingua è ridicola e inutile. Il suo atteggiamento tipico è quello del colonialista ottocentesco caricaturato. Il suo gesto tipico è quello della frusta, con tanto di effetto sonoro.
Eppure li ama, e si vede. Nonostante li insulti continuamente in italiano e in inglese, il suo odio è tanto esagerato da essere ridicolo, e lui stesso non smette di ironizzarci sopra; fa di tutto per comunicare con i cinesi, e sorride. Gli fanno tenerezza. E come fanno a non farti tenerezza, con il loro imbarazzo verso lo straniero, con il loro sorriso da merenda quando non sanno cosa rispondere o non capiscono cosa gli dici? Li prenderesti a schiaffi quando ne fanno una delle loro, ma poi li guardi e ti viene voglia di regalargli una caramella. Sono bambini, non riesci ad incazzarti veramente con loro. Almeno, non finché non li conosci bene. Ma a quel tempo, né io né Marco li conoscevamo bene.
Marco non parla cinese, quindi non può comunicare con il 99% della gente di questo paese. Si esprime a gesti oppure con suoni gutturali, oppure in italiano e in inglese, con risultati pressoché nulli. Cura la sua nevrosi con lo shopping. Nel suo appartamento in un residence gestito da russi, in cui paga 1000$ al mese, ha accumulato montagne di cineserie, tutte inutili. Lanterne rosse di carta, borsette colorate di finta seta, animali di paglia ed erba, sigarette ed accendini (non fuma), artigianato locale, cappelli, manifesti storici del periodo maoista, divise da guardie rosse, spille e medaglie, libri (scritti in cinese), CD, VCD, DVD, e gadget di ogni tipo. I suoi week-end li passa ai mercati, dove compra tutto ciò che può facendosi regolarmente fregare sul prezzo. Se uno gli offre 100, contratta per ore fino a spuntare un 70. Quindi acquista, e il venditore gli offre un secondo articolo, identico, a 60. Stizzito se ne va, e incontra un venditore che gli propone lo stesso articolo a 50. Poi un altro a 40, e uno a 30. Marco sbrocca e copre i cinesi di insulti. Quelli ridono come matti. La scena di ripete ogni volta, nonostante Marco si spacci per compratore ormai esperto.
Mi racconta della sua esperienza, cominciata due mesi e mezzo prima. Mesi passati a passeggiare da solo, a dieci sotto zero, bianco e alto un metro e ottanta nelle vie più sperdute della città, senza sapere mezza parola della lingua locale. Anche se odia questo paese così diverso dagli Stati Uniti, nella sua solitudine ci si ritrova bene, anche se non riesce a capire di cosa si tratti. E' un tipo strano Marco, tanto espansivo e simpatico, eppure spesso schivo e riservatissimo. E' lui che mi presenta Elena.

Marco, nella sua strana misantropia, frequenta due persone oltre a me: una è il mio capo, con il quale regolarmente litiga. I due hanno più o meno la stessa età, solo che una è Segretario Generale, l'altro è stagista. Lei fa un lavoro tanto stressante da mandarla fuori di testa, lui è semplicemente uno che risponde a tono. In ufficio, si sentono dialoghi tipo:
"Marcooo! Hai mandato il fax che ti avevo detto!?!"
"No"
"Perché noo?!? Mandalo immediatamente!!!"
"No, perché non lo so fare, e se tu non mi insegni a usarlo non lo posso mandare il fax"
"Non ho tempo da perdere in queste cosee!!! ARRANGIATI!!!"
"Va bene, allora non lo mando"
Col tempo, i due sono diventati grandi amici.

L'altra persona che Marco frequenta è Elena. Il rapporto che c'è tra i due non mi è chiaro, e siccome nessuno dei due me lo spiega, mi faccio i fatti miei. Elena è di Imola: parla cinese benissimo, e vive e lavora a Pechino da anni. Per Pechino si muove talmente bene che è il contrario esatto di Marco. Quando sono insieme, sono uno spasso da vedere, lui impacciato come una macchietta, lei che si spancia nel sentire cosa dicono di lui i cinesi imbarazzati.
Elena è una persona estremamente in gamba, e di fortissimi principi. La nostra amicizia comincia in modo abbastanza freddo, e ancora adesso non ci sentiamo spessissimo. Eppure siamo amici da anni e anni, e molto stretti. E' una di quelle amicizie in cui non ci si sente per sei mesi, e dopo, quando si capita per caso nella stessa città (sia essa Milano, Pechino o Shanghai) si recupera uscendo insieme una sera a raccontandosi tutto quello che è successo nel frattempo. Credo si basi su una stima reciproca molto forte. In effetti, lei è una delle persone che ammiro di più, nonostante non sia d'accordo con molte delle sue opinioni. D'altra parte, il bello di stare dall'altra parte del mondo, è che la gente che incontri di sicuro non è conformista, ma di certo per vivere in Cina deve avere una certa dose di virtù, qualunque essa sia. Dall'altra parte del mondo, gli sciocchi, gli stupidi, i parassiti durano poco. Quel che mi piace di Pechino, è che c'è una certa selezione di personaggi, e di quelli che conoscerò, quasi tutti rimangono a tutt'oggi carissimi amici, con le loro differenze e stranezze, e con le loro virtù e i loro difetti che poco hanno di mediocre.

2006-05-17

Primo Giorno di Lavoro (seconda parte)


 
La mia scrivania è una tavola di legno appoggiata su supporti instabili contro un muro, con un vetro da cui vedo Vaira, la junior manager. Ha cominciato a lavorare praticamente da oggi, ha un anno più di me eppure mi fa da mamma. E ' dolce, Vaira, mezza-trentina e mezza-friulana, originaria di un piccolo paradiso di montagna, costruito sulle rive di un lago alpino ed isolato dal mondo. Non ho mai capito cosa l'abbia spinta a lasciare quel suo piccolo mondo per vivere l'avventura della Cina, ma dopo anni che è qui, a studiare cinese, è cambiata. La Cina è un paese che cambia tutti quelli che ci vivono, ma se mi sento spaesato io, che vengo da Milano, mi immagino come si sia sentita lei, quando è venuta qui per la prima volta. Vaira è un nome strano, sì – mi dice che viene dal sanscrito, anche se non sa cosa significhi. Io lo so: Vajra, il fulmine, il diamante. Ironia della sorte lei, bionda, pallida e con gli occhi azzurro chiaro, sta con un ragazzo mauriziano, di etnia tamil, scuro di pelle, d'occhi e di capelli. Vikash, un gioiello di ragazzo, buono e dolce quanto lei. E' con Vaira che faccio il mio primo pranzo in una bettola cinese - lei ordina e mi spiega come mangiare. Una mamma.
Marco invece è lì per spaventarmi: non offre aiuto, ma piuttosto, un po' per confortarmi con il fatto che anche lui sta sbroccando, un po' per sfogare la sua rabbia, mi racconta di come tutto sia duro, tutto difficile, tutto una prova destinata a non essere mai superata definitivamente. E' nevrotico, Marco, e mi sommerge con la sua logorrea e con le sue lamentele su tutto ciò che esiste in questo paese che odia con tutto il cuore, sebbene nelle sue parole si possa intuire un qualcosa, un fascino cui non sfugge nemmeno lui, qualcosa che non spiega ma sente profondamente.
Il computer dove lavoro è il laptop del mio capo, dato in prestito, e connesso alla rete con un modem telefonico che blocca le linee e salta ogni due per tre. L'ufficio non dispone di grandi fondi, e quindi bisogna supplire lavorando di più. Il mio capo è inflessibile, e per mettermi in riga mi sovraccarica subito di lavoro. Non dimenticherò mai le ore passate al telefono a chiamare manager di alberghi internazionali che parlano cinglese oppure solo mandarino, per chiedere il rinnovo degli accordi di preferenza dati ai soci. Le segretarie deficienti che, non capendo, rispondono "sì" e mettono giù. Cento chiamate allo stesso albergo, dieci centraliniste che si passano la telefonata dall'una all'altra come una bomba che sta per scoppiare. Nessuno che dica "non ho capito", "il mio capo non c'è e tornerà domani". In Cina non si può dire. Probabilmente il più grande shock culturale che affronta un occidentale in Cina è il muro di gomma della formalità. E' impossibile dire "no", "non lo so", "non ho capito". Si nega l'evidenza, si fanno promesse spudorate che non verranno mai mantenute, si raccontano enormità improponibili pur di salvare la faccia, e non dover ammettere di non essere in grado di affrontare una situazione imprevista, come una persona che chiama e vuole parlare inglese. La loro flessibilità è pari allo zero assoluto. E io divento nevrotico, dopo aver appoggiato la cornetta commento basito, poi sdegnato, poi infuriato, insultandoli come posso senza offendere i colleghi che mi sentono. Li odio, e il mio capo lo sa, e lo ha fatto apposta. Come un marinaio che insegna ai figli a nuotare, li porta al largo e li getta dalla barca, ritornando a riva: mi ha buttato in mare, per insegnarmi a restare a galla da solo. Per farmi raggiungere da subito il punto di rottura che, in seguito, dalla nevrosi e l'odio porterà all'accettazione della realtà immutabile: l'incompetenza, la mancanza di professionalità, la paura della responsabilità radicata nella cultura cinese moderna, figlia del comunismo maoista.
E' nel tardo pomeriggio che, vedendomi ormai color bile, il mio capo mi affida il compito di fare una tabella excel dei contatti. Me la farà rifare cinque, sei volte, finché non avrò imparato a farla come vuole lei.




Esco dall'ufficio morto, sfiancato dal jet lag e dalla frustrazione. Sono le otto passate, e camminando solo arrivo in hotel, affamato come un lupo. Dove mangiare? Nel buio gibsoniano di questa città sconfinata, tutte le insegne sono uguali: caratteri al neon rossi, verdi e gialli, grandi come persone; palme di plastica che si illuminano a intermittenza, spuntando ridicole dall'asfalto coperto di ghiaccio; persone senza volto che camminano avvolte in grossi cappotti, senza nozione di alcuna lingua conosciuta. Tutti i luoghi sono uguali, per me. L'unico ristorante aperto che trovo è quello dell'hotel Dabei. Mi ci siedo, solo, e una cameriera sui quindici anni mi porta un menù interamente scritto in cinese. Poco dopo, quattro cameriere della stessa età mi circondano, parlandomi a macchinetta nella loro strana lingua, e mostrandomi i vari piatti scritti in tondeggianti disegni rossi sul foglio giallo. Poi una ha un'idea brillante, e mi porta un menù illustrato: non mi illumina affatto, perché il cibo è irriconoscibile. Scelgo a caso, e presto otto cameriere che ridono come pazze mi portano un secchio di legno che contiene quelle che sembrano strisce di carne brasate e verdure non identificabili. Le bacchette tonde di plastica mi scivolano, mentre tento di afferrare i piccoli pezzi di cibo. E' allora che sedici cameriere mi assaliscono porgendomi una forchetta. Tutto il ristorante mi guarda: gente che ride, gente girata sulla sedia, che mastica tenendo alte le bacchette, gente che mi guarda con un misto di pietà e derisione. Il mio orgoglio vince e, accettata la forchetta, la pongo di fianco al secchio e impugno le bacchette, con mano tremante e sotto lo sguardo di tutto il ristorante: cameriere, clienti, cuochi. Tra fame e vergogna, la prima vince: con fatica, le mie dita guidano le bacchette ad afferrare i pezzi di cibo e a portarli, con immane fatica e concentrazione, alla mia bocca. E' buono dopotutto. La carne dev'essere maiale, le verdure non l'ho mai scoperto cosa fossero. Esito un attimo prima di inghiottire qualcosa di nero che sembra un incrocio tra un'oliva e una castagna. Per fortuna, mi accorgo prima di metterla in bocca che è una pietra rovente, posta sul fondo del secchio per tener calda la pietanza.
Quando torno in camera sono stanco, frustrato, umiliato. Ma sento una dolcezza nella mia solitudine, una dolcezza che viene dall'orgoglio d'esser solo in una terra ostile e sconosciuta, ed esser tutto sommato vivo dopo le dure prove affrontate. Quando mi stendo sul letto, mi addormento immediatamente, come un sasso sul fondo di un secchio di legno usato per servire del maiale e delle verdure sconosciute.

2006-05-14

Primo Giorno di Lavoro (prima parte)



Il mattino seguente, mi sveglio che sono le otto meno un quarto. Il mio corpo le dovrebbe sentire come fosse l'una meno un quarto di notte, ma l'eccitazione è ancora tanta che quasi non me ne accorgo. C'è silenzio nella mia camera all'hotel Dabei. Dopo una doccia veloce, mi preparo per recarmi al mio primo giorno di lavoro: con una tazza fumante di tè in mano, scosto le pesanti tende della finestra e mi accorgo che nel parcheggio ci sono dei pensionati che sembrano danzare coordinati ed eleganti con delle lunghe spade diritte in mano. Quella mattina, scrivevo:

23 gennaio 2003, h 7.54 am; Pechino.
"Sveglia in camera mia. Ci si prepara per il lavoro.
Mentre canticchio sommessamente "
Drive" degli Incubus, e sorseggio tè al gelsomino - la mia colazione - guardo il vicolo dalla finestra. In mezzo a gente che corre al lavoro, ai piedi di grandi grattacieli appena innalzati, un gruppo di persone intabarrate in giacche a vento fa taijiquan.
Strano mondo. Nuovo e antico si fondono, generando a tratti bellezza e squallore."

 
Ho sognato Laksmi, stanotte. La ragazza che ho amato più a lungo nella mia vita. La mia chimera, quella che non ho mai nemmeno baciato, quella alla cui vista il mio cuore batte, e al cui pensiero esso trema ancora. Nonostante non la veda da cinque anni, di tanto in tanto la sogno ancora. Ma stamattina sono meno inquieto delle altre volte. Sarà la lontananza, sarà l'orgoglio d'aver fatto qualcosa di inaspettato e interessante, di coraggioso, che non mi causa l'usuale depressione mista a malinconia. Quando tornerò, questo l'ho deciso ancora prima di partire ma ne divento sicuro solo ora, la andrò a cercare, ultimo dei miei demoni da sconfiggere. Il mio desiderio e la mia paura, l'immagine dell'Amore che vive nella mia mente, perché Laksmi non l'ho mai davvero conosciuta, e ciò che amo in lei esiste in gran parte nella mia fantasia. Mi sento più forte e più libero, qui. Acquisisco una lucidità che non ho mai avuto prima… il silenzio, la solitudine, forse è merito loro.




In strada la neve cade tagliente come ferro: percorro gli stradoni cercando di non scivolare sul ghiaccio, ma non è facile. La gente dei negozi beve tè conservato in termos, e quando l'acqua è ormai fredda, i negozianti la gettano in strada, dove ghiaccia immediatamente lasciando pozzanghere scivolose. La neve è spazzata via da folti gruppi di persone, coperte di pesanti cappotti marroni con cappuccio ed equipaggiati con scope di saggina troppo corte, che li obbligano a piegarsi in due per usarle. Vanno avanti e indietro per i marciapiedi, talvolta scivolando e scontrandosi, con grande ilarità, e con le scope levando la neve e lasciano il ghiaccio, aumentando notevolmente la pericolosità della via. E' difficile a credersi… e mi chiedo quale sia la soglia della stupidità di un popolo.




Arrivo al Jingguang in venti minuti e mi immergo nel calore dorato del lusso. In ufficio sono il primo ad arrivare, insieme a una collega, Linda, che come me comincia quel giorno. Parla un italiano molto primitivo, ma è gentilissima; è il suo primo giorno di lavoro, come me. Aspettando un po', arriva Vaira, la junior manager, che ha la chiave. Il capo non c'è ancora - ieri ha fatto tardi - quindi lascio la giacca e, contento d'essere arrivato puntuale al primo giorno di lavoro, scendo a farmi un caffè come si deve perché il tè è sì buono, ma il caffè è un'altra cosa.

Nella hall del Jingguang hotel il caffè è elegantissimo: è un bar in stile vagamente coloniale in cui si serve solo caffetteria, con tre inservienti con lunghi capelli neri raccolti, vestite in lunghi abiti tradizionali - di quelli con l'alamaro sul cuore e lo spacco laterale - rimodernati da un nero monocromo che fa quasi Armani. Ordino la cosa più semplice: un caffè. Dopo circa dieci minuti in cui la mia impazienza cresce, temendo l'arrivo del capo che non mi troverà, la ragazza porta un pesante carrello al mio tavolo. Il carrello è fatto di vetro e metallo. La cameriera, con una paletta di legno, prende dei chicchi tostati di caffè da una bella scatola, pure di legno scuro, li posa in un macinino, e con una manovella pazientemente comincia a macinarli. In seguito, li metterà all'interno di un alambicco, ne riempirà un altro d'acqua e accenderà una fiammella a gas che, sotto i miei occhi, causerà la reazione chimica che porta alla nascita dell'espresso, un rito. Sarebbe magnifico, questo rituale, se non fosse che è il mio primo giorno di lavoro, dovrei essere in ufficio e non ci sono, pensavo di bere una caffè al volo e qui manca solo che me lo coltivino, e la ragazza non capisce "Quick, please, a little more quick!".

Venti minuti dopo risalgo in ufficio - tanto il tempo per la preparazione del caffè e il suo inghiottimento immediato. La cameriera dev'esserci rimasta male, a vedermelo trangugiare in un sorso. Ma pazienza, io ho provato a spiegarmi, non è colpa mia - mi dico - se il personale di questo hotel non capisce un cazzo di inglese né sa usare la logica quando vede una persona impaziente. Non sono nemmeno ventiquattr'ore che sono in questo paese, e già sto cristando dietro ai cinesi. Ma questa, ai tempi lo ignoravo, è una caratteristica di ogni espatriato che vive qui, l'esasperazione davanti al rispetto filisteo delle procedure degli autoctoni e la loro paura irrazionale di tutto ciò che è imprevisto.

Quando arrivo in ufficio, il mio capo è già lì, impaziente, che si chiede dov'ero. Ma non s'arrabbia per il lieve ritardo. In compenso, la mia prima giornata di lavoro durerà dieci ore di delirio puro.

2006-05-13

Verso l'Ufficio


Ho finito da poco di sistemare la valigia e darmi una rinfrescata, e già mi metto in marcia per il luogo di lavoro, dove svolgerò il mio stage nei prossimi tre mesi. Ho una mappa di Pechino lasciatami, un anno prima, da una mia ex cinese. Ce l'ho ancora quella mappa: è una di quelle cartine che si piegano e dispiegano, stanno in tasca e aperte coprono un tavolo. Per la verità la mappa di Pechino copre una parte minuscola della mappa, e porta evidenziati alberghi e fast food: il resto del gigantesco foglio è coperto di pubblicità di cellulari, ristoranti, hotel, e qualunque altro bene o servizio che il capitalismo possa offrire nella capitale del più grande partito comunista del mondo.

L'hotel Dabei dà sulla Jiangguomen, una delle strade più grandi della città, che la attraversa da est verso ovest. Attraversando il ponte stradale, ammiro le otto corsie che portano migliaia di auto e biciclette da un lato all'altro della città. Ai lati, grattacieli nuovissimi, decorati con cupole dorate, tetti ricurvi e caratteri luminosi. All'orizzonte, solo grattacieli e ponti che attraversano la via. Cammino sentendomi schiacciato dalle dimensioni colossali di tutto: mi sento una formica, per di più una formica bianca, perché tutta la gente che incontro mi guarda come se non avesse mai visto un europeo.


L'incrocio del Guomao, che unisce la Jiangguomen con il Terzo Anello, è un compenetrarsi incredibile di raccordi e ponti stradali. Automezzi, motorini e biciclette passano in tutte le direzioni, anche sopra di me. Il semaforo è tuttora un mistero per me: tutti lo ignorano, e i pedoni si raccolgono, grazie a un naturale istinto, in branchi che affrontano le strisce pedonali assieme, impedendo con il numero di essere schiacciati dai veicoli. Vige la legge del più forte e del più grosso, e se un camion può essere grosso, un gruppo di trenta biciclette e motorini può essere comunque un deterrente al suo passaggio forzato. Non ho mai capito in virtù di quale miracolo un sistema del genere, una totale anarchia del codice stradale, possa funzionare. Ma funziona, e il traffico scorre, lento ma scorre.


Il Terzo Anello, la circonvallazione che ruota attorno alla città (ce ne sono sei) non è molto diversa dalla Jiangguomen, con le sue otto corsie piene di ogni mezzo di locomozione possibile e i marciapiedi larghissimi, i passaggi pedonali sopraelevati e i cartelli stradali enormi con decine di direzioni. In circa venti minuti sono arrivato ai piedi del Jingguang Centre, il grattacielo più alto di Pechino: cinquantadue piani di specchi, una pianta simile a una sezione di cerchio - tre lati piatti, un lato curvo. Contiene un hotel, degli uffici, ristoranti, banche, palestre e club. All'interno l'atmosfera è sfarzosa: marmi e dorature, vasi di porcellana alti come persone, sculture in giada, pinne di pescecane esposti in enormi teche e personale di servizio elegante e che saluta in cinglese. I sei ascensori mi portano al trentaseiesimo piano in pochi secondi, senza nemmeno farmi sentire l'effetto della pressione.



Arrivo finalmente alla porta dell'ufficio, un bell'ufficio con pareti chiare e moquette di un verde-blu rilassante, splendida vista sul tutta Pechino, pulito e profumato. La receptionist, una ragazza cinese, mi guarda incuriosita. Poi mi trovo davanti Marco, che capisce immediatamente:
"Gabriele, vero?"
Mi offre la mano. Prima ancora che me ne accorga, Marco mi sommerge di un fiume di parole. Ho l'impressione che nei tre mesi precedenti non abbia parlato con nessuno, e all'improvviso abbia deciso di recuperare con me. Mi racconta tutto quello che può raccontarmi su Pechino, sull'ufficio, su di sé, intercalando con domande e battute. Se non altro, è simpatico e sveglio. Pazienza se è logorroico.


Finalmente incontro il mio futuro capo. Mi accoglie nel suo ufficio con gentilezza e apre con alcune formule di cortesia. Mi sento incoraggiato, e ci tengo a fare bella figura mostrando la mia disponibilità, persino esagerando e facendo finta di essere immune al jet lag.
"Allora, quando comincio?" chiedo baldanzoso "anche domani se volete" scherzo.
"Certo che cominci domani" risponde lei, seria "non hai ricevuto la mia mail?"
"No… " esito.
"Ogni tanto qui le e-mail spariscono. Colpa delle connessioni cinesi… pazienza. Be', comunque cominci domattina alle nove, puntuale mi raccomando"


Se non altro, non sono finito in un posto dove farò fotocopie per mesi, penso.

2006-05-09

Dabei Binguan


Nonostante l'imponenza, l'Hotel Dabei ha la porta su una strada laterale in cui passa a malapena una macchina, fiancheggiata da muri di cantieri e fabbriche di mattoni rossi. All'entrata, un ragazzo sui sedici anni, vestito con giacca e cappello bianco, apre la porta agli ospiti, anche se di giorno spesso è distratto e non si accorge dell'arrivo delle persone, e di notte lo si trova steso sul divano rosso, crollato sotto il peso della stanchezza. Quando si accorge di un ospite, che sia accanto alla porta o sul divano, accorre spaventato e colpevole, facendo inchini a profusione e tenendo la porta anche se uno se l'è già aperta da solo. Alla reception, un banco di tre metri di lunghezza, ci sono tre impiegati in ogni momento, ma solo uno, il più anziano, conosce una decina di parole di inglese. Mi mostra la mia camera.


La hall è elegante, con moquette, tappezzeria e divani rossi e bordature in ottone dorato. In un angolo un banchetto di vetro che vende carte telefoniche e cineserie varie. Una scala porta ai due ascensori, entrambi in manutenzione. Degli operai in elmetto e canottiera, nonostante la temperatura della stagione, si infilano con una corda nella tromba vuota dell'ascensore, e in mezzo a uno scoppiettare di scintille saldano qualcosa, vociando tra di loro forse per decidere che fare. Le scale sono alte e strette, male illuminate, e portano in un corridoio largo un metro su cui si affacciano le camere. Varie signore delle pulizie in uniforme azzurra e fazzoletto bianco in testa si muovono avanti e indietro scherzando tra loro, incuranti della mia presenza. La mia camera è minuscola, ma confortevole. Azzurro cupo come il corridoio, con moquette; un letto singolo con coperte pesanti, due sedie dallo schienale tondo, un mobile per la TV con mini-bar (vuoto) incassato e una cassaforte, un'abat-jour, un tavolo tondo tra le due sedie con sopra un vassoio d'alluminio, un thermos d'acqua bollente, delle tazze di porcellana tipiche cinesi, delle buste di tè al gelsomino, un posacenere tondo, due comodini quadrati accanto al letto. In seguito scoprirò che tutte le stanze d'albergo della categoria tre-quattro stelle di Pechino sono ammobiliate esattamente allo stesso modo.
Due strati di tende, una scura, l'altra trasparente, coprono l'unica finestra che guarda sul retro, ovvero un parcheggio all'ombra dell'hotel Dabei, del palazzo Motorola, dell’Ascott e di un altro grattaciel senza nome, che nascondono il sole a qualunque ora. Il bagno è piccolo ma confortevole, La porta è sottile, e attraverso essa si sentono i rumori che vengono dal corridoio e dalle altre camere: più di una volta mi ritrovo ad aprire a una persona che aveva bussato alla porta di fronte. Nelle altre stanze ci sono piccoli uomini d'affari, che stanno in due o tre per stanza, e girano talvolta nelle loro giacche scure, tutte uguali, a volte in canottiera, e mi guardano incuriositi quasi fossi un alieno sbucato da chissà dove. E' un posto squallido e malinconico, l'hotel Dabei, un posto di solitudine dove essa è così assoluta da essere quasi dolce. Un luogo che rappresenta perfettamente l'anima di Pechino, come viene scoperta dal viaggiatore che la incontra la prima volta.

2006-05-07

Atterraggio


Quando l'aereo comincia ad atterrare e scende al di sotto delle nubi, il paesaggio è alieno; sotto di me, vedo edifici quadrati, tutti uguali, iscritti in cortili quadrati tutti uguali, iscritti in isolati quadrati, tutti uguali. Il colore predominante è un misto tra marrone e giallo, omogeneo su case, strade e quel che non è né uno né l'altro, ma tuttavia è impossibile dire se sia erba o terra battuta. I quadrati si replicano all'infinito, mentre l'aereo scorre e scende, come in una visione d'incubo totalitario.
Finalmente l'aereo tocca terra. E' una giornata uggiosa, che rende ancora più cupo e squallido il paesaggio. La temperatura è dieci gradi sotto lo zero, e il vento secco sferza la pelle come una frusta. Intabarrato nel montone di mio padre, trascino le valigie fino al banco dell'immigrazione. Una guardia severissima, di pochi anni più grande di me, mi apostrofa in cinese marziale chiedendo le mie generalità, che ho difficoltà a spiegargli. Non parla inglese. Davanti a me, un muro con disegnato sopra un altro muro, la Grande Muraglia, simbolo della Cina e delle barriere che s'erige attorno da secoli. Oltre il muro, mi dirigo verso l'uscita dell'aeroporto, attraversando una folla omogenea e indistiguibile, dai tratti orientali e la favella strana. Tutti vestiti in abiti pesanti, dall'aspetto scomodo, poco gradevole, e i colori spenti. La pelle è scura, tendente al marrone, i capelli spessi e spettinati, i denti storti ma sorridenti. C'è chi mi guarda curioso, perché non ci sono altri stranieri attorno a me.
Finalmente varco le porte che danno su un'area esterna ma coperta, che in questa giornata rende ancora più scuro il luogo. Vengo accolto da una folla di uomini, con la sigaretta in mano e l'aria circospetta di chi sta facendo qualcosa di illegale.
"Taxi?" chiedono "Come on, come on!" gesticolano nel loro cinglese, una lingua nasale e atona, una parodia dell'American English che risulta, nella migliore delle ipotesi, fastidiosa all'orecchio. Mi accorgo in fretta che il taxi, una Audi nera con i vetri oscurati, non ha scritte ufficiali né licenze. Non mi sembra il caso di farmi fregare appena arrivato, e rifiuto con fermezza nonostante le insistenze dei signori loschi e sorridenti. Finalmente trovo una guardia che mi infila praticamente a forza, berciando parole incomprensibili, in un taxi rosso, questo con regolare licenza. L'autista è un uomo sui quarant'anni, leggermente sovrappeso e d'aspetto piuttosto gradevole rispetto alla media dei suoi compatrioti.
"你好" dice "去哪儿?"
Ni hao, qu nar? Dove si va, chiede allungando la "a" e arrotando una curiosa "erre" che, scoprirò, è caratteristica della parlata di Pechino e del Nord della Cina, l’erhua (儿话), anzi, l’erhuar. Gli mostro un foglio, l'indirizzo dell'albergo scritto in caratteri cinesi faxatomi da Marco, lo stagista di cui prenderò il posto.
"好啊!" esclama. Bene.
Lungo la strada, un'autostrada a numerose corsie con un casello che somiglia a un tempio, con i suoi tetti ricurvi e le travi di legno smaltato, l'autista fa di tutto per attaccare bottone, abitudine questa di tutti i tassisti di Pechino. All'inizio non capisco nulla di quel che mi chiede, ma lui è paziente, e forse ha esperienza con gli stranieri. Probabilmente ha apprezzato la mia scelta, per la verità spontanea, di sedermi accanto a lui e non sul sedile posteriore. E per la prima volta ho una conversazione con un cinese nella sua lingua, questa strana accozzaglia di suoni tonali, vocali allungate ed erre arrotate, rozzissima eppure nobile e maestosa. Mi chiede da dove vengo, quale città, e poi, come fanno tutti, si mette a parlare di calcio. Lui tiene il Milan, e ne conosce la formazione. Ma anche l'Inter gli piace. Guarda le partite sulla TV cinese - qui moltissima gente ne va pazza. Conosce Roberto Baggio e sa che è buddista.
Ridendo e scherzando, il tassista riesce a portarmi fino al mio hotel - il Dabei Binguan, l'Albergo del Grande Nord. E' un edificio coperto da piastrelle bianco sporco, di chiara impostazione stalinista, un cubo forato da piccole finestre grigie, senza tapparella. L'entrata è su una strada laterale, perché al piano terra ci sono un ristorante e un'altra attività di cui non comprendo la natura, dato che qualunque negozio, qui a Pechino - dal parrucchiere al carrozziere - ha pomposi caratteri rossi e gialli, e per chi non li sa leggere, non c'è verso di capire cosa indichino. Ma di fianco al Dabei Binguan, c'è il Palazzo della Motorola, Motolola Dasha. E quello lo conoscono tutti. E' ridicolo chiamarlo "MotoLola", ma la erre italiana qui proprio non la capiscono, quasi si spaventano a sentire un suono del genere.
Mentre scarica le valigie e si fa pagare, l'autista mi chiede una mancia. "Si usa sempre dare mance ai tassisti" sostiene, con l'aria di chi sta insegnando qualcosa. Gli lascio il 25% in più, l'equivalente di due euro, anche se lui vorrebbe di più. Poi ci salutiamo cordialmente come fossimo vecchi amici.
Più in là, un'amica cinese mi spiegherà la mancia non si usa dare mai in Cina, né ai tassisti né ai camerieri. Non sono nemmeno entrato nell'hotel, e mi hanno già fregato. Ma questo è nulla, in confronto a quello che vedrò accadere in seguito.

2006-05-06

Azzurro e Oro



21 gennaio 2003, ore 7.41 am; in volo sulle montagne a nord-ovest di Ulan-Bataar, Mongolia."Mai, in tutta la mia vita, il cielo è stato uno zaffiro dalle sfumature di un azzurro tanto intenso. L'aereo dorme, e solo il mio finestrino ha lo schermo alzato. Sotto di me, una distesa deserta di montagne nere, coperte di candida neve. Non un'impronta, una luce, una strada, una casa.
Nulla.
Solo il Sole che, arancione e giallo a Oriente, sorge portando l'alba sul Continente Eurasiatico.
L'effetto cromatico non ha pari: ora una coltre di nubi ha coperto la terra, mare bianco senza discontinuità alcuna.
Sopra, azzurro chiaro. Sotto, bianco. Alle spalle, blu profondo. E davanti, un orizzonte dorato. Al mio risveglio, il Sole si sveglia con me, e mi saluta.

欢迎,必野,你中国了欢迎".

2006-05-05

Antefatto

Questo è il diario di una storia d'amore. E' la storia di un viaggiatore e di un una città, lui italiano, lei cinese. E' un'elegia alla libertà, alla felicità, alla dolcezza della solitudine e della compagnia.

Come ogni storia che si rispetti, dopo il Prologo viene l'Antefatto.

ANTEFATTO

Non so quando è nata la mia passione per l'Oriente. Immagino sia iniziato tutto con un mappamondo, regalatomi da mio nonno paterno, così tanto tempo fa che non so collocarlo nel tempo scientifico. E' arrivato a Natale, il mappamondo, e di fianco al mio letto l'ho tenuto da quella notte. Il mappamondo mostrava la terra fisica, ma si accendeva come una lampada, e allora mostrava il mondo politico, e le correnti marine con linee rosse e blu. Ce l'ho ancora quel mappamondo, ed è uno degli oggetti più cari che ho.
Lo scrutavo ogni sera, prima di addormentarmi, lo facevo girare tra le mie mani e leggevo a fatica i nomi di paesi sconosciuti, ognuno con il suo colore. E allora la passione era per i luoghi lontani geograficamente. La Nuova Zelanda era il mio sogno, isola sperduta dall'altra parte del globo, in mezzo al mare, con i continenti da una parte e il grande oceano dall'altra.

Ancora prima del mappamondo c'era una mappa, appesa da mio padre sul muro del corridoio, accanto alla porta di camera mia. Una stampa di una mappa antica, che non so più trovare. Non so nemmeno cosa rappresentasse, ma ricordo una terra, in alto a sinistra, i cui confini sfuggivano alla mappa. "Quello è il Paese dei Mongoli" mi aveva detto una volta mio padre.

Col tempo, l'amore per i luoghi lontani geograficamente è diventato amore per i luoghi lontani culturalmente. L'India, il Tibet, la Cina. Le antiche civiltà extraeuropee.

Ma il mio incontro con la Cina data molto più tardi, al 1998. Dovevo studiare due lingue a scelta all'università: una era scontatamente l'inglese, l'unica lingua straniera che conoscessi. La scelta dell'altra fu dettata da due elementi. Il primo, la diversità: una lingua non serve solo a parlare, ma anche a pensare; una lingua diversa insegna un modo diverso di pensare, un approccio diverso all'elaborazione delle percezioni del mondo. Il secondo elemento era la pigrizia: non avevo nessuna intenzione di studiare a memoria declinazioni, coniugazioni e preposizioni. La scelta cadde sul cinese. Un caso fortuito, perché studiavo economia, e la mia università era l'unica nel suo genere a insegnare cinese, un corso attivato un anno prima e soppresso due anni dopo.

Ebbi buoni professori, che mi seppero insegnare e motivare. Due anni dopo, articolavo già frasi più o meno complesse. Fu allora che in Italia si cominciò a parlare sempre più spesso dello sviluppo economico della Cina. Cavalcando l'onda, mi dedicai allo studio delle economie asiatiche, e dei sistemi di pianificazione comunisti. Chiesi una tesi sulla Cina, e la mia relatrice mi mise davanti a una scelta imperativa: "Se vuole lavorare con me deve fare una tesi seria; e se vuole fare una tesi seria, deve raccogliere dati in Cina". La mia università offriva stage in Cina, sebbene la mia media, al tempo piuttosto bassa, mi mettesse in difficile competizione con altre persone. Non so se fu grazie alla telefonata che la mia relatrice fece all'ufficio selezione stage, davanti a me, che ottenni la borsa per partire. Fatto è che, il 20 gennaio 2003, ero seduto su un Boeing 747 della Air China diretto a Pechino, unico italiano in mezzo a una bolgia vociante di wenzhouesi e un solo elegante e gentilissimo uomo d'affari di Shanghai, con un sorriso benevolo verso il mio cinese rudimentale e un naso arricciato alla vista della massa d'ignoranti contadini che lo circondava. Fu lui che mi aiutò a compilare il complicatissimo foglio di via, e a parlare con le hostess, poiché non masticavo ancora il cinglese a cui più tardi sarei diventato abituato al punto da essere in grado di imitarlo. I miei genitori avevano pianto all'aeroporto: figlio unico, non ero mai stato lontano da casa per più di un paio di settimane; e nessuno nella mia famiglia aveva mai viaggiato così lontano, in un paese alieno e sconosciuto, un paese comunista che faceva parte del Terzo Mondo. Ma mentre l'aereo prendeva il volo e vedevo Milano, la pianura padana, e l'Italia allontanarsi, provavo una sensazione strana, di leggerezza mista ad eccitazione e orgoglio. Mi sentivo come Bilbo Baggins che lasciava Casa Baggins, e si metteva in viaggio verso la Montagna Solitaria, davanti a lui una terra sconfinata, sconosciuta, e piena di avventure.

2006-05-04

Della Cittade di Camblau

"Sappiate veramente che 'l Gran Cane dimora nella mastra città, ch'è chiamata Camblau, tre mesi l'anno, cioè dicembre, gennaio, febbraio. E in questa città ha suo grande palagio: e io vi diviserò com'egli è fatto. Lo palagio è di muro quadro, per ogni verso un miglio. E in ciascuno canto di questo palagio è un molto bel palagio, e quivi si tiene tutti gli arnesi del Gran Cane, cioè archi, turcassi e selle e freni, corde e tende, e tutto ciò che bisogna ad oste e a guerra. E ancora tra questi palagi hae quattro palagi in questo cercòvito: sì che in questo muro attorno attorno sono otto palagi, e tutti sono pieni d'arnesi, e in ciascuno ha pur d'una cosa.
E in questo muro, verso la faccia del mezzodì, hae cinque porte, e nel mezzo è una grandissima porta, che non s'apre mai né chiude se non quando il Gran Cane vi passa, cioè entra ed esce. E dal lato a questa porta ne sono due piccole, da ogni lato una, onde entra tutta l'altra gente. Dall'altro lato n'hae un'altra grande, per la quale entra comunemente tutta l'altra gente, cioè ogni uomo. E dentro questo muro hae un altro muro: e attorno attorno hae otto palagi, come nel primaio, e così son fatti; ancora vi stae gli arnesi del Gran Cane. Nella faccia verso mezzodie hae cinque porte, nell'altra parte una. E in mezzo a questo muro èe il palagio del Gran Cane, ch'è fatto com'io vi conterò.
Egli è il maggiore che mai fu veduto; egli non v'ha palco, ma lo ispazio è alto più che l'altra terra bene dieci palmi; la copritura è molto altissima. Le mure delle sale e delle camere sono tutte coperte d'oro e d'ariento; havvi iscolpite belle istorie di donne e di cavalieri, e d'uccelli e di bestie e di molte altre belle cose; e la copritura èe altresì fatta che non vi si può vedere altro che oro e ariento. La sala è sì lunga e sì larga, che bene vi mangiano seimilia persone; e havvi tante camere ch'è una maraviglia a credere. La copritura di sopra, cioè di fuori, è vermiglia e bioda e verde e di tutti gli altri colori, ed è sì bene invernicata che luce come oro o cristallo, sì che molto dalla lunge si vede lucere lo palagio. La copritura è molto ferma.
Tra l'uno muro e l'altro dentro a quello ch'io v'ho contato di sopra havvi degli prati e àlbori, e havvi molte maniere di bestie selvatiche: cioè cirvi bianchi, cavriuoli e dani, le bestie che fanno il moscado, vaj ed ermellini e altre belle bestie. La terra dentro di questo giardino è tutta piena dentro di queste bestie, salvo la via donde gli uomeni entrano; e dalla parte verso il maestro hae un lago molto grande, ove hae molte generazioni di pesci. E sì vi dico che un gran fiume v'entra ed esce, ed èe sì ordinato che niuno pesce ne puote uscire: e havvi fatto mettere molte ingenerazioni di pesci in questo luogo; e questo è con rete di ferro.
Anche vi dico che verso tramontana, da lungi dal palagio una arcata, ha fatto fare un monte, ch'è alto bene cento passi e gira 15 bene un miglio; lo quale monte è pieno d'àlbori tutto quanto, che di niuno tempo perdono le foglie, ma sempre son verdi. E sappiate che, quando è detto al Gran Cane d'uno bello àlbore, egli lo fa pigliare con tutte le barbe e co' molta terra, e fallo piantare in quel monte: e sia grande quanto vuole, ch'egli lo fa portare a' leonfanti. E sì vi dico ch'egli ha fatto coprire tutto il monte nella terra dello azzurro, ch'è tutta verde, sì che nel monte non ha cosa se non tutta verde: perciò si chiama lo "monte verde". E in sul colmo del monte è un palagio e molto grande, sì che a guatarlo è una grande maraviglia; e non è uomo che 'l guardi, che non ne prenda allegrezza; e per avere quella bella vista l'ha fatto fare il gran signore per suo conforto e sollazzo. Ancora vi dico che appresso di questo palagio n'hae un altro né più né meno fatto, ove istà lo nipote del Gran Cane, che dee regnare dopo di lui. E questi è Temur, figliuolo di Cinghis, ch'era lo maggiore figliuolo del Gran Cane; e questo Temur che dee regnare tiene tutta la maniera del suo avolo, e ha già bolla d'oro e sugello d'imperio, ma non fa l'ufficio infino che l'avolo è vivo."

"Dacché v'ho contato de' palagi, sì vi conterò della grande città di Camblau ove sono questi palagi, e perché fu fatta, e com'egli è vero che appresso a questa città n'avea un'altra grande e bella, e avea nome Garibalu, che vale a dire in nostra lingua "la città del signore". E 'l Gran Cane trovando per astrolomia che questa città si dovea rubellare, e dare gran briga allo imperio, e però il Gran Cane fece fare questa città presso a quella, che non v'è il mezzo se none il fiume; e fece cavare la gente di quella città e mettere in quell'altra, la quale è chiamata Camblau. Questa città è grande in giro da ventiquattro miglia, cioè sei miglia per ogni canto: ed è tutta quadra, che non è più dall'uno lato che dall'altro. Questa città è murata di terra, e sono grosse le mura dieci passi e alte venti; ma non sono così grosse di sopra come di sotto, anzi vegnono di sopra assottigliando tanto, che vengono grosse di sopra tre passi. E sono tutte merlate e bianche; e quinvi ha dieci porte, e in su ciascuna porta hae un gran palagio, sì che in ciascuno quadro hae tre porte e cinque palagi. Ancora in ciascuno quadro di questo muro hae un gran palagio, ove istanno gli uomeni che guardano la terra. E sappiate che le rughe della città sono sì ritte, che l'una porta vede l'altra: e di tutte quante incontra così.
Nella terra ha molti palagi; e nel mezzo n'hae uno, ov'è suso una campana molto grande, che suona la sera tre volte, che niuno non puote poi andare per la terra sanza grande bisogno, o di femmina che partorisse o per alcuno infermo.
Sappiate che ciascuna porta guarda mille uomeni; e non crediate che vi si guardi per paura d'altra gente, ma fassi per riverenza del signore che là entro dimora e perché gli ladroni non facciano male per la terra."

Marco Polo, Il Milione, 1298, nella traduzione Toscana, nota come "Navigazione", datata agli inizi del Trecento.