2008-03-07

Chunjie

Chunjie (春节) significa letteralmente “Festa della Primavera”, e per i cinesi, che fondano la loro civiltà sul calendario, sulle celebrazioni e sull’aderenza ai riti, rappresenta quello che per noi sono Natale, Capodanno e Ferragosto assieme. Il Chunjie segna l’inizio del nuovo anno lunare, ed è un periodo in cui la famiglia si riunisce e si dedica ad una serie di attività tradizionali che per lo più consistono nel mangiare piatti particolari ritenuti di buon augurio, rendere omaggio ai parenti superiori, regalare soldi ai giovani della famiglia, sparare fuochi d’artificio, e in generale divertirsi in una calda atmosfera familiare.

La preparazione al Chunjie è come da noi prima di una lunga vacanza. Già un mese prima se telefoni in un’azienda cinese ti dicono che il Chunjie è vicino ed è meglio parlarne dopo le feste, e non c’è verso di far concentrare gli impiegati. Del resto, se considerate che in una settimana di vacanza tutti i cinesi che vivono lontano da casa tornano al luogo d’origine, e una fetta sempre crescente di persone decidono di viaggiare e fare turismo, otterrette un volume tale di traffico automobilistico, ferroviario e aereo che a confronto il Giorno del Giudizio sembrerebbe una gita ordinata e serena. La gente pianifica il viaggio tre mesi prima, perché farlo dopo significherebbe non trovare posto per qualunque prenotazione.

Ne va da sé che per il Chunjie del 2007 io sia a Chengdu, almeno per qualche giorno. Siccome ho le ferie flessibili parto qualche giorno prima e torno a metà settimana, trovando i voli pressoché vuoti. E’ la prima volta che passo una festa con una famiglia cinese, ed è anche la prima volta che incontro la famiglia allargata di Dandan. Ora, i legami di parentela cinese sono probabilmente i più complicati al mondo: per ogni relazione c’è una parola, e guai a chiamare le persone col nome proprio. Se c’è confidenza magari sì, ma solo insieme al grado. Non entrerò nei dettagli in questo post, ma sappiate che il nome con cui dovete rivolgervi a una persona cambia non solo secondo la generazione, ma anche a seconda del sesso, dell’ordine di nascita e della parentela materna o paterna, e non voglio nemmeno cominciare a parlare dei parenti acquisiti. A confondere ancora più le carte c’è il fatto che il bisnonno materno di Dandan ha avuto tipo 12 figli, e quelli minori sono più giovani dei figli maggiori dei suoi figli maggiori, per cui per esempio lo zio della madre di Dandan ha 10 anni meno di lei.

Dandan poverina ci prova anche a spiegarmi chi sono le persone sedute a tavola, e io più o meno mi ricordo anche come chiamarle, ma confesso di avere ancora le idee confuse sul loro grado di parentela. A quanto pare la famiglia materna, quella del bisnonno con 12 figli, che per la cronaca era tipo uno dei commercianti d’oppio più mafiosi della città, si è sparsa per mezzo mondo. La madre di Dandan è nata a Shenyang in Manciuria, è cresciuta ad Urumqi nel Xinjiang e poi si è sposata a Chengdu, ma sua sorella minore ora vive in Australia. Suo zio, quello giovane, vive a Chengdu ma ha un passaporto di Hongkong e la moglie e il figlio vivono a Londra. Delle due zie (zie di chi poi non so) sedute a tavola una sta effettivamente a Chengdu, l’altra fa il medico a Nanchino. Da parte di padre invece abbiamo due fratelli, uno a Chengdu e uno a Pechino, e due sorelle, una a Kunming e una a Shanghai. Da malditesta, e per fortuna che meno di metà della famiglia è intervenuta a Chengdu quest’anno.

Alla vigilia del Chunjie è tradizione fare un cenone: ci si siede a tavola verso le 6.30 e si attacca un numero impressionante di portate, e devo dire che a parte l’ora d’inizio non è molto diverso dai nostri pranzi festivi in famiglia. La cosa strana è che l’ora è unicamente dettata dalla necessità di terminare la cena entro le 8.30, inizio del Gran Varietà di Capodanno, un polpettone impossibile trasmesso in diretta da Pechino su tutte le reti, che apparentemente tutti i cinesi guardano. Tra le 8.30 e 12.30 appunto quattro presentatori agghindati in abiti che sembrano un misto tra il Gran Galà del Re di Francia immaginato dai cinesi, la parata militare del generale Puntzerstofen (quello di Mai dire Banzai, proprio lui) e il Ballo di Cenerentola immaginato dalla Disney, in un tripudio di strascichi, acconciature scolpite in forme improbabili, pizzi e merletti, bottoni d’oro, paillettes, giacche sbrilluccicose che neanche Little Tony ai suoi tempi peggiori, e chi più ne ha più ne metta, presentano una successione di cantanti, balletti tradizionali e moderni e performance di comici e cabarettisti, di cui un 30% forniti dall’esercito e in divisa della festa, tutto in cinese sottotitolato in cinese, e senza pubblicità.




Alle 8.30 siamo tutti seduti davanti alla televisione. Alle 8,47 la gente comincia a scusarsi, a dire che è tardi, e che ci si telefonerà i giorno dopo per gli auguri. Entro le 9.00 sono fuori dalla porta. Genitori e nonna rimangono a guardare il Gran Varietà e io e Dandan ci piazziamo in camera a guardare un DVD. Poi finalmente arriva la mezzanotte, e partono i fuochi artificiali, in tutte le direzioni fiori di fuoco multicolori, vanno avanti incessatemente per due ore. Gran tripudio anche in TV, che rimane accesa, ma a cui nessuno presta più attenzione. Per tutto il Chunjie comunque il programma sarà riprosposto a reti unificate, come “il meglio del Gran Varietà”, non tanto perché alla gente piaccia, ma probabilmente perché durante la settimana agli studi della TV rimangono tre persone, due bao’an e un tecnico che monta nastri in loop e poi torna a casa.

Alla fine il Chunjie non è molto diverso dalle nostre feste – famiglia, cibo, varietà televisivo trashissimo, fuochi artificiali, ozio, auguri. La Cina è vicina? Quando si tratta di feste, probabilmente è più vicina al’Italia di quanto si pensi.

2008-03-04

Questione di Targhe

Uno che viene dall’Italia normalmente non fa caso alle targhe delle auto, se non in qulche caso per capire da che provincia viene il deficiente che ha davanti e va a 30 all’ora, all’unico scopo di trovare un’argomento di insulto. In Cina no, la targa ha un potentissimo valore identificativo, e non solo vi dice a chi non dovete mai suonare il clacson, ma in molti casi può rendervi oggetto di derisione o invidia.

La prima e più importante distinzione tra targhe è quella di colore. Cominciamo a parlare delle targhe blu, quelle più comuni. Chi guida un’auto a targa blu, con caratteri bianchi, sta alla base della piramide sociale della strada – ovvero, è un comunissimo cittadino cinese, civile, alla guida di un’auto privata. Le targhe blu hanno un carattere cinese, due lettere e quattro numeri. Ovviamente, date le dimensioni del Paese e della sua popolazione, è necessario avere un certo numero di combinazioni. Il carattere cinese identifica la provincia: 京 per Pechino, 沪 per Shanghai, 苏 per il Jiangsu, 川 per il Sichuan, è così via. La prima lettera identifica il distretto, tutto ciò che viene dopo è un semplice codice identificativo. Le targhe blu le vedete appiccicate a ogni tipo di veicolo civile, dal miandi più scassato, all’Audi nera con finestrini neri del dirigente del Partito con autista in divisa, alla Ferrari dell’imprenditore di successo. A parte la competizione di status sul mezzo, si compete anche sull’origine, tipo che se guidi a Pechino con una targa dello Hebei ti danno del contadino, e comunque se dopo il 京 hai una lettera tipo I o L vuol dire che vieni dalle periferie della città, e ti becchi del contadino comunque. Se invece hai A o B ti puoi bullare perché sei uno del centro. Si compete talvolta anche sui numeri, perché le targhe con numeri bassi sono state le prime ad essere emesse, e chiaramente sono finite in mano ai potenti del distretto. Per cui se vedete una targa con un numero sotto 0100 sapete che avete a che fare con un personaggio potente, quasi sicuramente immanicato con politica ed economia, ed è meglio non cercare guai. D’altra parte, quando questi personaggi vanno in posti equivoci, tipo nei KTV, è costumanza che coprano la targa, così non si sparge la voce che la gente del Partito va in questi luoghi di perdizione, e anche perché qualcuno, in cerca di denaro o vendetta e vedendo il numero basso, sarebbe tentato di fare una foto e pubblicarla, e per qualcun altro, magari un giornalista o un rivale politico, sarebbe relativamente facile risalire al titolare e svergognarlo.

Poi ci sono le targhe nere con le lettere bianche e il carattere cinese bianco. Sono identiche alle targhe blu come codici, senonché identificano una macchina appertenente a un cittadino straniero. Il che significa che uno con la targa blu di solito si fa problemi a suonarvi e di sicuro non vi taglia la strada. Visto il prestigio assolutamente ingiustificato e superstizioso di cui godono queste targhe, il governo ha deciso che da quest’anno anche gli stranieri hanno le targhe blu, uguali agli altri, che mi sembra anche giusto. Solo che adesso le targhe nere sono ancora più preziose, e ci sono dei cinesi che pagano un’auto anche il 20-30% in più solo perché ha la targa nera e così possono fare brutto sulla strada ai loro concittadini.

Le targhe nere con carattere rosso appartengono al personale diplomatico straniero. Il carattere è lo 使 di ambasciata (大使馆) o consolato (领事馆), poi ci sono tre numeri, che identificano il Paese (001 per la Russia, 002 per gli USA... 158 o giù di lì per l’Italia, e non commentiamo). Quindi altri tre numeri che vanno per ordine di grado: 001 è l’ambasciatore, 002 il console, e così via. Le targhe diplomatiche, in quanto protette dalla legge internazionale, possono fare un po’ quello che vogliono, tipo passare col rosso o andare in corsia d’emergenza con la sirena, anche se poi l’auto appartiene allo sportellista dell’ufficio visti, comunque anche la polizia si tiene lontana se può. Queste targhe purtroppo non sono alla portata del cittadino cinese, che può solo invidiarle.

Le targhe bianche sono quelle militari. Tanto per cominciare ce ne sono di tre tipi: quelle con il carattere rosso 军 appartengono all’esercito, quelle con il carattere rosso 警 alla polizia, e quelle con le lettere rosse WJ sono i wujing (武警), ovvero la polizia armata. Secondo quanto mi dicono amici cinesi, la polizia normale in Cina di norma è disarmata: sarebbe dispendioso, pericoloso e inutile armare milioni di funzionari che come compiti hanno semplicemente la direzione del traffico piuttosto che la risoluzione di risse (alla faccia di chi dice che la Cina è un Paese con la polizia violenta, e soprattutto alla faccia dei democratici Stati Uniti dove anche gli impiegati negli uffici tengono la rivoltella alla cintura); invece i wujing, che per la metà girano in borghese con auto borghesi, sono armati di pistola, e se sono i divisa girano anche con le jeep pimpate e i fucili, e si occupano dei casi giudicati “estremi”, ovvero quelli in cui una chiacchiearata a base di buon senso con le persone non basta. A questi caratteri o lettere rossi seguono una lettera nera, per indicare la divisione, e cinque numeri neri per il veicolo. Le targhe militari fanno paura a tutti, quelle della polizia meno, quelle dei wujing di più; fanno paura anche più di quelle diplomatiche e straniere, perché se lo straniero sa difendersi bene, il militare cinese è più nervoso e può anche cercare deliberatamente o scontro e mettere nei guai chi gli ha fatto un qualsiasi sgarbo stradale. Chiaro anche che i militari, volendo, possono farsi beffe del codice stradale.

Infine ci sono le targhe personalizzate. Non so a chi è venuta l’idea, forsa a un impiegato dell’Agenzia delle Entrate che voleva inventarsi una nuova voce positiva di bilancio, fatto sta che un giorno la motorizzazione ha messo in vendita, e a caro prezzo, le targhe “a piacere”: solito carattere provinciale, lettera distrettuale, poi tre lettere e tre numeri. Valore legale pari alla targa civile blu, ma valore di status altissimo: tutti i tamarri dalla strada l’hanno voluta, e da lì in poi è stato il delirio: cose come “HAN 518” ci potevano anche stare, ma quando sono comparsi “USA 999” e “RMB 888” è stato troppo. Articolo di critica sul Quotidiano del Popolo e chiusura dell’ufficio vendite targhe private. Il che appunto rende le rimanenti ancora più preziose.

Strane storie si fanno in questo Paese per una targa. Ma se chiedete a un cinese della strada qual’è la targa dei suoi sogni, la risposta sarà una sola: “Nessuna targa”. Sì, perché ci sono anche le auto senza targa: cioé, voi comprate una macchina, e con il libretto di proprietà andate alla motorizzazione a chiedere l’emissione di una targa, che vi verrà concessa in un perido che va, diciamo, dalle due alle quattro settimane. E per quel periodo, voi andate in giro senza targa. Ora, il codice stradale cinese è difficile da capire non solo per noi stranieri ma anche per gli autoctoni, e infatti a Pechino si stima che l’automobilista medio spenda 600 RMB l’anno in multe, che è tanto, considerato lo stipendio medio dell’automobilista medio. In centro, tutti guidano con i nervi a fior di pelle per paura delle telecamere agli incroci. Ma senza targa no, l’autovelox può anche fare un book fotografico di una macchina, tanto non arriveranno mai al proprietario. E allora è la festa – quelli senza targa sono a tutti gli effetti dei pirati della strada legalizzati, fanno quel che vogliono, passano col rosso, vanno dritti quando c’è la svolta obbligatoria, e temono solo la polizia del traffico. E’ un periodo di vacanza dalle leggi della strada, e gli automobilisti se lo godono alla grande, regredendo al livello di minorenni davanti a una playstation. Poi, qualche settimana dopo, vengono convocati alla motorizzazione per attaccare la targa, e tornano ad essere gli umili automobilisti da targa blu, e i loro giorni da leone lasciano il posto a quelli da pecora. Ma non dimenticheranno mai quella manciata di giorni in cui chiunque, dal presidente di Partito locale al'omino della consegna a domicilio più lurido, possono assaggiare il sapore della libertà e della gloria, al volante di una macchina senza nome e senza identità.

2008-02-18

Hong Kong

Chi vive in Cina ed è straniero prima o poi da Hongkong ci passa, se non per lavoro o per turismo, almeno per un visto, perché ad Hongkong, fino al 2007, si può fare un visto business di 6 mesi in meno di 4 ore, senza necessità di alcun documento se non il passaporto. Comodo, no?

A Hongkong c’ero già passato tempo fa, appunto per fare il visto, ma ci ritorno per incontrare uno che smercia carne importata da Australia e Stati Uniti ai ristoranti e supermercati dell’ex colonia, ma sottobanco contrabbanda prosciutti italiani verso la Repubblica Popolare. Il tizio in questione, general manager di un’azienda ben avviata, meno di trent’anni, etnia filippina, ex modello, elegantissimo e gentile, mi spiega che a notte fonda si carica il prosciutto nel porto su un container che, prima dell’alba, arriva su una spiaggia da qualche parte in Cina continentale, dove l’aspetta un camion per trasportare il Parma e il San Daniele in tutto il resto del Paese. Se va bene, la guardia costiera non ti ferma. Se va male, l’equipaggio si dà alla fuga e il carico è perso, però esiste anche l’assicurazione, per cui se paghi un tot di più ti rimborsano la perdita. E’ un business avviato da anni e anni e che fa volumi impressionanti. Perché se sono illegali i prosciutti ma nessuno controlla, io nel contaner ci posso mettere anche a cocaina, gli AK47 e i rifiuti nucleari. Di norma però quello che ogni notte viene contrabbandato da Hongkong alla Repubblica Popolare sono altre merci, praticamente tutto quello che la Cina importa già da sé ma che tassa, da Hongkong arriva esentasse, spiaggiata all’alba da qualche parte nel Guangdong. Se vi capita di mangiare prosciutto in un ristorante in Cina, con il 99% delle probabilità ha fatto questa strada. Nel’1% delle probabilità è arrivato tramite canali diplomatici, per manifestazioni regolari o perché un impiegato ha prestato il tesserino diplomatico a un amico in cambio di soldi o favori. Ma ci sono centinaia di altri casi di merci non importabili o eccessivamente tassate, che vengono traghettate. Poi, è ovvio che la polizia da entrambe le sponde sa tutto, ma a Hongkong è sul libro paga della mafia, e nella Repubblica Popolare anche, o in alternativa gestisce direttamente da sé il contrabbando.

Ma sto divagando: Hongkong. La prima cosa che si nota è che la gente parla inglese. Va bene gli occidentali, va bene gli indiani, capisco anche i filippini, ma che i mendicanti e i venditori ambulanti di sigarette cinesi mi chiamino con “excuse me, Sir” invece che “Aloooò?” mi fa veramente strano. La seconda cosa che si nota è che manca spazio: le stranze sono strette, i soffitti sono bassi, i grattacieli sono tutti altri almeno 30 piani, e costruiti uno accanto all’altro, addirittura molti collegati. Dalla finestra del mio hotel in Canton Road vedo un cortile stretto stretto all’ombra di palazzi altissimi su quattro lati, e al centro cosa stanno costruendo? Un altro palazzo, ovviamente! La terra è scavata per decine di metri, ed è possibile spostarsi per tutta Hongkong senza vedere la luce del sole. La maggior parte della gente, che vedi nelle bottegucce a vendere qualunque cosa a qualunque prezzo, probabilmente la luce non la vede se non nei week-end. Mi fanno pena, sembra che abbiano tutti la febbre, questi strani cinesi scuri, bassi, brutticchi, questi figli della Cina adottati dal capitalismo da paradiso fiscale, e scampati al Partito Comunista. I cinesi del continente li chiamano “banane”, perché dicono che sono gialli fuori e bianchi dentro.


La terza cosa che si nota è che non puzza. Uno col tempo si abitua alla Cina, o all’Asia se volete: da nessun’altra parte nel mondo c’è questo odore. Ogni posto ha il suo, in Asia: a Madras è quello del curry, a Shanghai quello dell’olio fritto o del tofu puzzolente, a Pechino è l’aglio e l’aceto, e così via. A Hongkong no, è come stare in Europa, l’aria odora di aria, al massimo di porto se uno è vicino all’acqua, ma nemmeno tanto. L’unica cosa che puzza siete voi, perché arrivate dall’Asia, e vi vergognate, perché ieri stavate facendo i colonialisti, magari tirando fuori tre banconote da 100 kuai per comprare la ricarica del telefono, o addirittura vi facevate trasportare in risciò, con questo senso di superiorità rispetto alla gente locale, e qui i campagnoli puzzoni siete voi, non tanto per colpa vostra, ma è che se vivete in Asia non c’è doccia che tenga, l’odore vi si riappiccica addosso in dieci minuti, a voi, ai vostri vestiti, e a tutte le vostre proprietà, dal computer all’accendino. Annusate tutto a Hongkong, dopo una doccia, e vi rendete conto di quanto la vostra vita puzzi. Non è una bella sensazione.

Hongkong mi mette ansia, è una città ansiogena. La gente vive a Hongkong per fare soldi, tutti hanno in mente solo quello, tutti sono stressatissimi. Allo stesso tempo, siccome hanno vissuto sotto i britannici, hanno delle regole ferree, di cui la peggiore è il divieto di fumare. Non si può fumare nei locali pubblici; si può fumare per strada ma solo in alcune zone, e vi sfido tra l’altro a fumare in una strada gremita di gente che vi spintona perché ha fretta. Non si possono buttare però le cicche per terra, bisogna trovare un posacenere pubblico. Solo che ce ne sono pochi, quindi mi capita di stare fumando, e improvvisamente la strada finisce, ovvero si immette in un tunnel sotterraneo perché sul marciapiede hanno costruito un grattacielo. Non posso entrare con la sigaretta nel tunnel, ma non la posso buttare perché non c’è un posacenere. Nel frattempo la gente mi spiantona. Che fare? La spengo sulla suola della scarpa, entro nel tunnel e la tengo in mano per venti minuti, fino a quando mi stufo e, mentre nessuno guarda, la butto in un angolo. Eccheccazzo. Il traffico è delirante. Le strade diritte non esistono, sono curve continue e trecentossessanta gradi: destra, sinistra, in su, in giù, scale a chiocciola a profusione, ponti, sottopassi, entrate del metrò. Ovunque c’è gente, ovunque c’è qualcosa in vendita. Immaginate che so, la Rinascente sotto Natale, però con trenta piani, diversi milioni di abitanti e mezzi pubblici e taxi per spostarsi. Però è sempre la Rinascente sotto Natale. Devo fare il visto, bene: serve una foto, chiedo di farla, ma non me la possono fare, devo andare dal fotografo. Dove? Mi danno indicazioni, giro mezz’ora per un aeroporto costruito sulla laguna (che non c’era spazio) e pieno, tanto per cambiare, di gente e negozi, ma del fotografo nessuna traccia. Ci sono venti agenzie di visti che parlano quindici lingue diverse, ma per la foto serve il fotografo che è uno solo e nascostissimo. Ma perché non vi portate la polaroid come fanno in continente? O una normalissima macchina digitale con stampante? No, qui la burocrazia l’hanno fatta gli inglesi. Totale, non riesco nemmeno a fare il visto.


Quando ritorno a Pechino, e mi trovo davanti la faccia grigia della guardia che mi squadra e confronta il mio viso con la foto sul passaporto, sorrido. Nella grande sale grigia, in cui l’unico colore è l’affresco della Grande Muraglia, non mi sento spintonato. Son contento d’essere tornano nella Repubblica Popolare, la prossima volta, anche se serviranno due settimane, il visto me lo faccio qui. Ah, che pace Pechino.


2008-02-16

Mp3

Oramai il mercato dell’elettronica offre i suoi prodotti a prezzi talmente bassi che tutti ne usufruiscono, è la rivoluzione dei prodotti elettronici che raggiungono le masse ed entrano a far parte della vita quotidiana. I cinesi, poi, vanno matti per tutte le cose che luccicano e fanno casino, e quindi anche se guadagnano 1000 kuai al mese si sentono in dovere di esibire un cellulare con suonerie tamarrissime e un lettore Mp3 dal display che manda facilmente in crisi epilettica i soggetti a rischio, e ogni tanto anche quelli non a rischio. Se poi hanno qualche soldino in più da spendere, ecco che arrivano il lettore DVD e il computer con tutti gli accessori più impossibili (tipo coprischermo puccettoso con orecchie da topo in acrilico iperinfiammabile, o massaggiatore USB di Winnie Pooh). Lo stereo no, e grazie al cielo perché costruire degli impianti in dimensione cinese per passare la musica che si ascolta qui sarebbe veramente un crimine.

L’accessorio elettronico più di massa è il lettore Mp3: tutti sembrano averlo, manco si trovasse ormai nelle patatine. Un lettore può andare dai 3999 kuai dell’iPod più figo del mondo ai 150 kuai della chiavetta USB con auricolari che contiene una trentina di canzoni. Gli utilizzatori principali sono gli adolescenti e gli impiegati che passano del gran tempo sui mezzi pubblici. Anche qui la psicologia di gruppo, dopo un anno e mezzo che vivo in Cina, ha la meglio e, siccome avevo portato i miei a fare spese, ho deciso tragicamente di comprare qualcosa anche per me.

Il mostro assassino è nero e coperto completamente di plastica trasparente, che non rimuovo prevedendo già che potrei aver bisogno di portarlo indietro. Sembra figo, lo pago anche una cifra ragguardevole, 300 kuai. Sulla scatola c’è scritto “Mp4 Player”: evvai, che così mi scarico la mia musica da iTunes che è quasi tutta in formato .mp4. Il brand del mostro assassino è la prestigiosissima Qzert, o nome affine, curiosamente stampato solo sulla scatola e non sul lettore, che invece dichiara essere “Mp3 Mp4 Player” sul retro. Per fortuna riporta anche i marchi di garanzia FC e CE, per dire che è conforme a tutte le leggi sulla qualità e la sicurezza americane ed europee.

I problemi iniziato subito. Appena a casa, mi accorgo che non legge gli Mp4: ci perdo ore, ma niente, solo Mp3 e filmini veramente utili in formato .wmv, che è veramente una merda. Torno al negozio, la venditrice ovviamente mente spudoratamente.

“Questo lettore Mp4 non legge gli Mp4” mi lamento.

“Sì che li legge” dice impassibile la 17enne che sta al banco.

“No, provalo… vedrai che non li legge”

“Non abbiamo un computer, comunque li legge”

“Provalo, Cristo, non c’è verso!” insisto “Legge solo .mp3, ho provato .mp4, .m4a e .m4v, non li riconosce proprio”

La ragazzina prende il mio lettore e avvia il filmino contenuto in esso, ovvero una tipa sconosciuta vestita da Madonna che canta “Like a Virgin” per circa 7 secondi, prima di essere interrotta bruscamente per mancanza di spazio nel disco.

“I film si vedono, quindi legge gli Mp4, se tu che non lo sai usare”

La guardo triste, non riesco a credere al passaggio logico che ha appena effettuato.

“Guarda” mi dice “sei il primo che torna a lamentarsi: te lo cambio, vai a casa e lo provi ancora”

“Va bene” mi dichiaro sconfitto in questa battaglia “ma se non funziona, torno”. Non hai ancora vinto la guerra.

Torno a casa e provo ancora: questo lettore Mp4 contiene foto, calcolatrice, convertitori vari, agenda, il tetris, e altre mille funzioni inutili ma vigliacco se è in grado di leggere un file .mp4. Mi rassegno: scarico un programma che converte .mp4 in .mp3, e dopo altre ore di smanettamento carico i miei file sul lettore. L’audio è anche buono, se non fosse che la carica impiega due ore ad essere completa, e si esaurisce totalmente in meno di un’ora, la metà del tempo di carica. Resto basito nello scoprire che nel 2007 esistono ancora apparecchi così inefficienti dal punto di vista energetico.

Ma tant’è, ormai me lo tengo.

Passa una settimana di uso molto raro, più che altro perché appena lo accendo quello si scarica e rimane inutile, e poi devo stare due ore in casa a caricarlo. Poi gli auricolari si rompono: ma non è che gracchiano, è che il filo si stacca dall’auricolare, così all’improvviso, casca e mi lascia il pezzettino di plastica muto nelle orecchie. Decido quindi di utilizzare le cuffie del cellulare, le uniche compatibili con lo standard ridicolmente sottile della presa. La cuffia del Nokia ovviamente non è stereo, quindi addio qualità del suono. Ma il bello deve ancora venire: il mostro assassino non si chiama così per nulla.

Notte, calduccio. Mi accoccolo tra le coperte, mentre il mostro è in carica per le sue due ore di alimentazione. Rumore di corto circuito. Odore di fumo. Mi stavo quasi addormentando, e per fortuna mi sveglio. Accendo la luce: il caricabatteria sta andando a fuoco. Altro che FC e CE, ma andate a fare in culo! Stacco il trasformatore dalla presa e lo metto nel lavandino con un filo d’acqua, giusto per evitare combustioni future.

Il giorno dopo sono ancora dalla venditrice.

“Effettivamente ho provato questo lettore. Non legge gli .mp4, che per la cronaca non sono film, ma file audio e video di un formato riconosciuto internazionalmente. Perché vendete lettori Mp4 che non leggono i fottuti mp4?!? Tra le altre cose, le cuffie sono sputtanate e il trasformatore è andato a fuoco, che a momenti ci rimango anche io”

La tipa 17enne mi guarda:

“Caro signore, oramai è passata una settimana dall’acquisto. Se si sono verificati dei problemi, non ci riteniamo responsabili. Infatti, abbiamo già sostituito una volta il suo lettore”

Non prendo bene la risposta.

“Cambiami il caricatore, va’ ”

“Le ho già spiegato che… “

“Ho detto cambiamelo”

“Ma… “

La guardo. Capisce. Lentamente, senza perdere il contatto visivo con me, si china a prendere un nuovo caricatore e lo mette sul tavolo. Ha paura, lo so.

“Prendi il caricatore e vattene” dice.

Getto il cadavere del precedente trasformatore sul bancone, a scorno del negozio intero, e prendo quello nuovo, fortunatamente di una marca differente. Che fino ad oggi non è ancora esploso, però ora col cazzo che lo metto sotto carica se non posso controllarlo a vista.

La mia sfortuna con i lettori Mp3 è controbilanciata dalle vicende di Dandan. Che come tutti i cinesi si è comprata un lettore, e siccome è cinese non è stata fottuta allegramente dal venditore, ma ha pagato un giusto prezzo per un dignitosissimo apparecchio. Sennonché, qualche mese dopo, degli amici le hanno fatto un regalo: un altro lettore Mp3.

“Era proprio quello che desideravo… “ dice lei col sorriso tirato.

Non immagina che qualche mese dopo la sua banca deciderà di premiare gli impiegati migliori con un dono. Un meraviglioso iPod. E siamo a tre.

L’anno seguente la vicenda si ripete. Tempo di bonus, regalo aziendale. Un lettore Mp3. E cosa si può volere di più dalla vita? Una cena con i clienti? Che contenti della loro relazione con la banca decidono di fare un dono a tutti gli impiegati coinvolti nel loro progetto?

E cosa gli vogliamo regalare a questi bravi ragazzi? Sì, lo sapete ormai, rispondetevi da soli.

Cinque lettori Mp3, di cui due iPod Nano originali sono di gran lunga troppi. Ed è così che per la legge del karma Dandan regala il suo iPod doppio a me. Che, felice come una Pasqua, posso scagliare dalla finestra il mio Mp4 Player marca cinese generata digitando a caso sulla tastiera, con tanto di auricolari sminchiati e caricabatteria conforme alle norme di sicurezza afghane, e in più cancellare dall’HD un in utilissimo programma che converte .mp4 in .mp3.

Ieri sera ho provato l’iPod. Si è caricato la batteria da solo, in pochi minuti, connettendosi al computer. Ha scaricato da solo tutta la musica in un attimo. Usa le stesse playlist del computer. Ed è una gran figata, e non è nemmeno coperto di plastica ovunque. Viva la Apple. E’ proprio un altro mondo.

2008-02-15

Cristiani in Cina

L’incontro con la donnina dell’ascensore, con la foto del papa Ratzinger, mi ha in qualche modo colpito, e così mi sono messo a indagare sulla presenza cristiana in Cina. Ne son venute fuori, di cose, e non avete idea in Italia di quanto siete disinformati sull’argomento (non solo male informati, badate bene, intendo proprio attivamente disinformati dalla vostra propaganda vaticana).

Ma andiamo con ordine: quand’è che il Cristianesimo è arrivato in Cina? Qualcuno dice tramite San Tommaso Apostolo, che avendo già convertito l’India, avrebbe fatto un viaggetto nella Cina degli Han, per poi tornare indietro e farsi seppellire vicino Madras. Poco probabile. Altri dicono che sia stato San Bartolomeo Apostolo, che tra l’Armenia e Lipari fece una deviazione, la prese larga, probabilmente sbagliò strada (credibile, vista la segnaletica del tempo) e finì per passare da Celeste Impero. Vabbé.

Fonti storiche più serie dicono che i primi cristiani in Cina ci arrivarono tramite la Via della Seta verso il IV sec., e poi aderirono alla tradizione nestoriana, ma di strada non ne fecero mai molta, rimasero per lo più confinati alle regioni del Nordovest e consiedrati anche un po’ barbari a causa della loro origine non-Han. Più tardi arrivarono i Cattolici, tramite varie missioni papali che cercavano il Prete Gianni e trovarono invece il Gran Khan mongolo, che per loro aveva una certa simpatia in quanto non-Han. Quasi per certo, sotto i mongoli, a Yangzhou e in altre aree c’erano nicchie di mercanti veneziani, genovesi e d’altre repubbliche marinare, con famiglie al seguito, e senz’altro preti, chiese e cimiteri.

Quando i Ming salirono al potere però furon dolori, e cominciò la “pulizia culturale” contro l’influenza straniera, che spazzò via, oltre ai mongoli, anche tutte le sette, le religioni e le minoranze considerate “non abbastanza cinesi”. E qui i cristiani diventarono fuorilegge: ma si sa, le persecuzioni d’ogni tempo han fatto solo la fortuna dei cristiani; mentre i Nestoriani praticamente scomparvero, con l’aiuto di tanti missionari i cattolici prosperarono e riuscirono anche, dopo qualche generazione, a farsi dichiarare legali. In questo periodo arrivarono anche i protestanti, che volevano la loro fetta di anime cinesi, con un bel po’ di aiuto finanziario da parte dei Paesi del Nordeuropa e degli Stati Uniti.

All’inizio fu dura, ma batti che ti ribatti arrivò il momento dei cristiani, quando la dinastia Ming fu soppiantata dai Manciù, ben più tolleranti e, con la decadenza dell’Impero, l’indebolimento dell’autorità imperiale e la piaga dell’oppio, si sentì il bisogno di spiritualità e ci fu un’esplosione di conversioni. Qualcuno andò anche troppo in là, come un signore chiamato Hong Xiuquan nel 1837, in seguito a una forte febbre che gli diede delle visioni, si proclamò figlio di Dio e fratello minore di Cesù Cristo e dichiarò di aver ricevuto la missione di purificare la Cina dall’idolatria. Nel 1851 dichiarò il Regno del Padre in Terra (Taiping Tianguo, 太平天国), con alcune decine di migliaia dei fedeli schiacciò un battaglione imperiale e comnciò a conquistare la Cina, imponendo leggi draconiane contro tutti i comportamenti viziosi, quali prostituzione, gioco d’azzardo, alcool, tabacco, oppio, schiavismo, poligamia, ecc. Nulla lo fermò fino al 1864 quando, ormai padrone di mezza Cina, fu avvelenato dai suoi seguaci durante l’assedio di Nanchino. Giorni dopo l’esercito imperiale, alleato a un plotone internazionale, entrò in città e cominciò la mattanza di tutti quelli che erano suoi seguaci.

Da allora in poi in Cina il Cristianesimo e i missionari non furono ben visti, nonostante tutti i sopravvissuti avessero avuto cura di dichiarare Hong Xiuquan eretico. I preti cristiani vennero assimilati a qualli buddhisti, ovvero, nell’immaginario comune cinese, dei “predica bene e razzola male”, dei bacchettoni repressi che di notte si ubriacano, violentano vergini e toccano i bambini. Qualche volta ci scappò il morto, ma mai tanti quanti nel 1899, quando la rivolta dei “Pugni della Giustizia e della Concordia” (Yihequan, 义和拳), anche detti Boxer, che inspirati dal grande Buddha del futuro decisero di spazzare via tutti i preti e i loro fedeli, sia stranieri che cinesi, dalla Cina. I Boxer vennero sconfitti, ma non prima di aver sterminato tanti ma tanti cristiani.

Le acque si calmarono quando qualche anno dopo venne fondata la Repubblica di Cina, e il Presidente eletto e principale promotore della democrazia, il Dott. Sun Zhongshan (anche detto Sun Yat-sen perché era cantonese) guarda un po’ aveva studiato in Europa ed era un convertito protestante. Ma quelle stesse acque si misero molto male qualche anno dopo, quando al potere ci andò invece il Sig. Mao Zedong, la cui posizione religiosa era molto vicina a quella di Karl Marx. Tanto vicina che nel 1949 espluse i missionari e nel 1966 fece chiudere tutte le chiese e mandò i preti a imparare dai contadini, e solo dal 1979 i luoghi di culto vennero di nuovo, lentamente, aperti. Solo che, per evitare che sorgesse un ennesimo capo religioso che voleva ribaltare il Paese in nome di qualche ideale, tutti i vescovi (come del resto gli abati buddhisti, i maestri taoisti e gli imam islamici) dovevano essere nominati dal Partito Comunista.

I protestanti non protestarono, gli ortodossi avevano poco da lamentarsi, che in Russia si stava peggio, ma i cattolici alzarono la voce. Questa cosa dei vescovi nominati dal potere politico laico non si vedeva dai tempi di Ottone di Baviera e i suoi parenti del Sacro Romano Impero. Quindi i cattolici si divisero in due – quelli che accettavano i vescovi di Pechino, ovvero l’Associazione Cattolica Patriottica Cinese, e quelli che invece volevano gli anti-vescovi di Roma, promossi da preti-spia infiltrati a evangelizzare le masse cinesi, i ribelli Cattolici Romani che si riuniscono in chiese segrete sottoterra o in case private.

Ad oggi è difficile stimare quanti cristiani ci siano in Cina: il governo dice 4 milioni di Cattolici (Tianzhu Jiao, 天主教) e 10 milioni di Protestanti (Jidu Jiao, 基督教). Qualcuno più obiettivo dice semplicemente 54 milioni in totale, 39 milioni i Protestanti e 14 milioni i Cattolici, più un generico milione di ortodossi e altri gruppi più o meno eretici. Mica pochi, anche se su una popolazione di 1,3 miliardi. Si può certo affermare che il Cristianesimo ormai appartiene alla cultura cinese: furono i cristiani a fondare in Cina i primi ospedali, a formare i primi infermieri, ad aprire le prime scuole moderne, ad abolire la fasciatura dei piedi, la schiavitù dei servi, nonché a lanciare l’idea del lavoro volontario a scopi di carità e la distribuzione di cibo ai poveri. Furono strenui oppositori del traffico dell’oppio e molto fecero per curare coloro che ne erano dipendenti. Esiste ormai una meravigliosa arte religiosa – un’amica ha un negozio che vende intagli in legno, con scene di natività cinesi, e persino un’arca di Noè fatta a giunca e trasportata da un drago.

Una storia locale antica, un bel contributo a una civiltà così importante, non ammettono in alcun modo certi giudizi per cui il Cristianesimo sarebbe una “religione straniera”. Discutibile invece la diatriba tra Roma e Pechino sull’elezione dei vescovi – entrambe le parti hanno le loro buone ragioni, quindi confido che un giorno si metteranno d’accordo. Grazie al Cielo sia il Vaticano che la Cina sono abbastanza antichi da comprendere perfettamente che i cambiamenti, per essere efficaci, richiedono tempo e cura, e nessuno dei due ha fretta di portare a casa un risultato di facciata.

L’altro giorno ero in ascensore e c’era la donnina ribelle Cattolica Romana che mi guardava. Le ho sorriso, e lei dal libretto delle preghiere ha tirato fuori un’immaginetta di Gesù Cristo, con una preghiera scritta in cinese. Mi ha fatto tenerezza, l’ho ringraziata e l’ho vista felice. Chi l’avrebbe mai detto che, per riconciliarmi con quella fede che tanto ho odiato da adolescente, avrei dovuto venire in un Paese ufficialmente ateo e comunista? Forse il mio odio non è mai stato contro la religione, ma contro il potere e la sua sfacciata propaganda beghina. O forse è solo il mio amore per gli anacronismi che mi fa provare simpatia verso questi rivoluzionari seguaci del Papa. Certo è, che la Cina è un Paese ben strano e diverso dall’Italia!

2008-02-11

Distanza

E’ il pomeriggio del 3 gennaio 2007, e mi sveglio con una bella luce luminosa che filtra dalla tenda. Tra le mie braccia dorme la mia Dandan. C’è silenzio. Nella camera di fianco non c’è nessuno, perché i miei genitori sono partiti stamattina per l’Italia, dopo tre settimane di permanenza in Cina dove ho dovuto seguirli ad ogni passo per superare la barriera linguistica e culturale di questo Paese. Questa sera, anche il mio Amore partirà per tornare a casa, e non la vedrò per più di un mese.

E’ allora che la tensione mi cala e improvvisamente mi rendo conto del vuoto che mi aspetta da lì a poche ore. Non ho avuto molto tempo di pensare a me stesso in queste settimane, di fermarmi e ragionare su tante cose, ma ora mi rendo conto che, con la partenza di tutti quanti, mi casca addosso una fottutissima emotività a lungo repressa. Il silenzio della casa mi disorienta, il pensiero dell’abbraccio ai miei, all’aeroporto, e delle regolari lacrime di mia madre mi ferisce. Mi rendo conto improvvisamente che, per quanto sia felice a Pechino, i miei genitori stanno a Milano, Dandan a Chengdu, e tanti buoni amici sparsi per il mondo, un po’ ovunque tranne che qui.

Un momento di panico, causato dalla domanda – che ci faccio io, poi, qui? – lascia per fortuna traccia alla serenità. La risposta la so: qua sono quello che voglio essere. Anche se adesso sono solo, non ho paura, né voglio scappare verso il conforto di qualcuno. In questo luogo sono felice, un bel po’ più di quanto lo ero a Milano o a Shanghai, sono felice di quello che ho fatto e quello che sto facendo. Soddisfatto di dove sono arrivato e di dove sto andando. Lavoro dignitosamente, mi mantengo da solo, ho una casa mia e una vita mia. Sono padrone di me stesso, libero nel corpo e nella mente, senza vergognosi compromessi dettati da una supposta necessità, da bisogni emotivi o da improbabili doveri morali.

E anche se fa male veder partire tutti, sapere che le persone a cui vuoi bene son lontane, è proprio perché vuoi loro bene, perché hai rispetto per loro e per te stesso, che decidi di non seguire i loro consigli, e stare dove stai. Perché qui sei libero, come il vento che spira l’inverno dal Nord.

2008-02-03

Viscidume laowai

Per ogni stereotipo c’è una base di verità. Non è un caso che in Cina i laowai siano considerati viziosi e viscidi: molti stranieri si danno ben da fare per perpetuare i preconcetti dei cinesi, e non parlo solo dei cinquantenni che vanno al Maggie’s, ma dei giovincelli, che poi sono quelli più schifosi.

E’ appunto con uno di questi personaggi che mi scontro la notte di Capodanno al China Doll. Dandan non vuole ballare, è stanca, ma la musica è bella ed è Capodanno – diamine, Amore, datti una mossa. E’ così che, mentre siamo sulla pista da ballo, ci si avvicina la creatura.

La creatura è un francese – e quindi cominciamo subito malissimo. Avrà più o meno la mia età, ma tutto l’alcol che ha in corpo gli ha buttato addosso una decina d’anni: pupille offuscate, sudato fradicio, camicia aperta a rivelare un petto magro e glabro, capelli piuttosto lunghi e ricci, anche quelli fradici di sudore. Fa fatica a stare diritto, eppure ci si avvicina. Guarda Dandan, io guardo lui e sorrido di divertimento, ma nemmeno mi nota. Le prende la mano. Dandan mi guarda stupita, gli sorride e gli dice qualcosa. Il francese sembra confuso, poi le prende l’altra mano, e gliela bacia sornione, ciondolando per cercare di stare in piedi. Forse sta cercando di ballare. Io continuo a sorridere, ma il mio sorriso sta cambiando dal divertito allo scocciato, solo che non voglio fare l’uomo geloso e aspetto che sia Dandan a scaraventarlo lontano. Lei mi guarda interrogativa, ma non reagisce. Il francese cerca di ballare con lei, ciondola, si inchina, le bacia ancora la mano. Comincio ad allarmarmi quando lui le alza le mani e avvicina pericolosamente il suo viso a quello di lei. Fulmino Dandan con lo sguardo, lei continua a guardarmi indecisa, enigmatica. Ma che le passa per la mente, perché non gli tira un ceffone? Continuo a guardare il francese, sorridendo sempre più tirato come a dire “Ma mi vedi, sono il suo ragazzo!”. Non credo che si renda conto che sono lì, o semplicemente è francese e quindi esperto nel trattare le persone come merda.

Allunga le mani verso la vita di Dandan attraendola a sé. Il mio braccio si frappone, e la prendo tra le mie braccia. Gentilmente ma con fermezza, sposto il francese di un passo indietro. Sorride con faccia stronza, si inchina, e retrocede.

“Perché ci hai messo tanto a interromperlo?” mi chiede lei.

“Aspettavo che lo facessi tu da sola. Ma che ti salta in mente di sorridergli e lasciarti tenere la mano?” chiedo io.

“Non è un tuo amico?”

“NO!”

“Ma gli sorridevi! Io ti guardavo, tu non facevi nulla, ho pensato che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi” protesta.

“Ma non lo vedi che è francese?!?” protesto io.

“Francese? Io gli ho detto ‘Ciao, come stai?’. Ecco perché ha fatto quella faccia strana. Ero convinta che fosse italiano. Ero veramente in imbarazzo”

“La prossima volta che qualcuno ti mette in imbarazzo in questo modo, anche se è mio amico, sei autorizzata a tirargli un pugno” dico.

L’incomprensione è stata quasi fatale, ma tutto è bene quel che finisce bene. Dandan è salva tra le mie braccia e si stringe a me. Ci baciamo, ridendo.

Più in là, il francese si è completamente slacciato la camicia e cerca di abbracciare un’altra ragazza cinese. Questa lo spinge via, facendolo cascare contro la parete, e se ne va infastidita insieme alla sua amica. Il francese sembra offeso, si rialza a fatica, ma un minuto dopo balla come un tarantolato e ne ha già puntata un’altra.

Brutta gente, si trova in giro. Bisognerebbe smetterla di venire in Sanlitun. E pensare che una volta mi piaceva questa zona.

Neve

Nell’inverno asciutto della steppa le nevicate sono rare, speie quelle abbondanti, ma solitamente accade che, un paio di volte l’anno, Pechino sia imbiancata. E’ una Pechino speciale quella bianca – sembra ancora più lenta, più pigra, in alcuni luoghi antichi ancora più addormentata sotto il peso del suo passato, avviluppata in un silenzio solenne testimone di Storia.

Porto con i miei al Parco di Jingshan, sempre e comunque frequentato da innumerevoli pensionati, e insieme scaliamo la china, i vecchi scalini resi pericolosi dal ghiaccio, e i pini e i bambù imbiancati. Sulla sommità del monte, ci godiamo la vista di una città grigia e bianca, di parchi fatti di alberi spogli e laghi completamente ghacciati, in cui molte barche giacciono intrappolate, e su cui alcune persone, grosse come formiche, pattinano. I tetti ricurvi della Città Proibita sono bianchi e gialli e formano una simmetria piacevole, mentre in lontananza le forme di piazza Tian’anmen appena si intravendono nella nebbia che sta salendo.

Scendiamo per il sentiero tortuoso, passando un vecchio cancello d’epoca Yuan, quindi i palazzi di Di’anmen progettati da Liang Sicheng, e torniamo indietro al fossato della Città Proibita, oggi circondata di bianco. Il sole scende, la bruma si infittisce, e noi chiamiamo un taxi. Fuori dal finestrino scorrono scene di una fredda giornata di neve, così tranquilla, così affascinante, a Pechino.

2008-01-29

Il Visto per l’Italia

A Dandan piacerebbe vedere l’Italia. D’altra parte, a chi non piacerebbe? Decidiamo di informarci sulle condizioni di visto turistico all’Ambasciata, così, giusto per sapere come prepararci a un futuro viaggio insieme.

Così, una bella mattina di gennaio, faccio il mio ritorno in ambasciata come il gennaio di quattro anni prima, quand’ero arrivato. Alla porta c’è una guardia cinese che parla anche italiano. “Cosa vuole?” mi chiede da dietro una grata di ferro. “Cerco l’ufficio visti” dico. “ L’ufficio visti è chiuso il pomeriggio. Torni domani mattina”. Sarà che ha imparato l’italiano qui, suona indisponente quanto la signora dello sportello tanti anni fa.

Il giorno dopo torno, la mattina. Solito omino alla grata. “Salve, oggi mi fa entrare?” chiedo col sorriso. “L’ufficio visti è chiuso: apre tra le 9 e le 11. Torni domani”. Guardo l’orologio, sono le 11.09. Non ci vedo più. Il poverino ci rimane male a vedere quante gliene dico, tanto che mi fa entrare lo stesso. Dentro ci sono una marea di cinesi con delle facce da patibolo, quelle facce di chi ha perso tutto, anche a speranza. Sei sportelli, due impiegati, più altri cinque alle scrivanie che fanno altro. Vado a uno degli sportelli vuoti e chiamo uno che sta alla scrivania. Quello è anche gentile, sarà che sono italiano. Mi da’ un plico di moduli complcatissimi, mi chiede una lettera d’introduzione, un deposito bancario di alcune migliaia di euro (se un cinese vuole espatriare ebbene sì, deve lasciare una caparra, non sia mai che decida di non ritornare) e mi saluta. Per il visto ci vuole una settimana. Per compilare i moduli, probabilmente, un’altra settimana buona.

Parlando della mia esperienza con amici, vengo a sapere di un recente sondaggio condotto da qualche TV locale, secondo cui l’ambasciata italiana è stata votata la peggiore come servizi. Pare che se 10 chiamate che hanno fatto i giornalisti, solamente alla nostra ambasciata nessuno ha risposto mai. Le mail tornavano indietro, gli orari di apertura sono stati giudicati “ridicoli”. Un amico che insegna italiano mi racconta che molti studenti cinesi cominciano le sue classi, ma quando vengono a scoprire quanto è difficile ottenere un visto per l’Italia, passano tutti a studiare francese o spagnolo. In effetti, il numero di studenti cinesi in qualunque altro Paese europeo è superiore al nostro di almeno 5 volte, più spesso 10.

Ma che bella figura che ci fanno fare le nostre istituzioni all’estero. Poi Bossi dice che è troppo facile per gli stranieri entrare in Italia. In Italia va detto, niente è facile a meno che la mafia ti aiuti. In molti casi è più semplice entrare in Italia illegalmente che legalmente. Che Paese. Io resto qui, per ora non ho proprio intenzione di muovermi. Quando sarà ora di portare in Italia la mia lei, cercherò di arrangiarmi secondo la logica italiana, ovvero non chiedendo alla persona responsabile ma a quella più potente e rispettata.

2008-01-20

Natale Parte Terza – Gli Italiani all’Estero

Per molti italiani, grazie al Cielo il Natale, ha ancora il suo senso originale, ovvero una festa cristiana, una festa della famiglia, e l’essenza del Natale è ancora andare a messa. La messa di Natale, da che mondo e mondo, si tiene a mezzanotte, solo che in Cina, per prevenire riunioni di gruppi religiosi con il favore dell’oscurità, la messa di mezzanotte è proibita. La chiesa di San Giuseppe in Wangfujing la celebra alle 6.15 del mattino, se no in alternativa c’è la messa per stranieri tenuta nella ambasciate, e ce n’è appunto una celebrata all’ambasciata italiana alle 6 di sera della vigilia, con un sacerdote che parla quattro lingue. Accorrono le comunità italiana, francese, spagnola e portoghese, che poi sono i cattolici europei a Pechino.

I miei ci vanno ben felici, con le mie indicazioni, io mi rifiuto non tanto per la mia antipatia al Cristianesimo, che sfuma sempre più col passare degli anni, quanto per l’ipocrisia dei cattolici, così persi nei loro riti vuoti, e sempre meno concentrati sul senso dell’essere cristiani. Mia madre, tuttavia, ne è entusiasta, si emoziona a vedere cattolici di tanti paesi diversi riunirsi per il Natale, attorno a un’ambasciata e un sacerdote.

Il giorno di Natale stiamo a casa, sarà un pranzo in famiglia, con le poche cose che abbiamo, riuniti attorno a un tavolo da soggiorno troppo basso, seduti su un divano. Vicky purtroppo parte in mattinata, dovendo tornare al lavoro a Chengdu. Rimaniamo io e i miei, nella luce grigia ma intensa del dicembre pechinese. Mia madre prepara della pasta al ragù come la tradizione italiana impone, io e mio padre usciamo per andare prima al Jenny Lou, quasi unici cienti la mattina de 25 dicembre, e ci procuriamo mascarpone e un panettone “La Torinese”, con tanto di immagine di Torino ottocentesca sulla scatola. La cassiera ci regala una bottiglia di vino, a marchio Jenny Lou, una di quelle porcherie fatte in California dalla Summergate – ma è Natale, e il regalo è apprezzato. Al 7 Eleven giapponese ci procuriamo le uova per la crema al mascarpone, come impone la legge di auto-preservazione della vita – le disinfetteremo comunque con brandy Changyu da 18 kuai. E poi una puntata al White Nights, il ristorante russo di fronte all’ambasciata sotto casa, per portar via un piatto di salmone con patate e funghi. Mentre saliamo in ascensore, la ragazza che schiaccia i bottoni sorride, e ci augura “Buon Natale”. “Come fai a sapere che è Natale? Sei cristiana?” lei chiedo. Risponde, con una punta d’orgoglio, “我是罗马天主, sono Cattolica Romana” e, con fare losco, produce dal suo libretto un’immaginetta del Papa Benedetto XVI, vietatissima in questo Paese. Non so perché, forse perché per la prima volta il Cattolicesimo mi sembra un atto di ribellione più che di conformismo, ma la cosa mi fa piacere. Sorrido e contraccambio gli auguri.

Il pranzo è incredibilmente internazionale, ci sono piatti e ingredienti da almeno tre continenti. Ciò che più conta, è un pranzo in famiglia. Sono felice che i miei siano venuti fin qui dall’Italia per passare le Feste con me, e che si stiano rendendo conto di quello che vivo qui, e che in fondo qui non si sta per niente male.

Nel pomeriggio usciamo di nuovo, nel freddo incredibile e nella luce pallida che si affievolisce. Prendiamo un taxi verso lo Yuanmingyuan. E’ strano visitarlo il giorno di Natale, siamo praticamente gli unici ospiti a parte una piccola comitiva di cinesi che si tiene ben lontana. In inverno il parco ha un che di desolato, come se le truppe Anglo-francesi lo avessero depredato poco tempo fa. Al tramonto il freddo ci convice ad andarcene: usciamo da una porta laterale e ci troviamo su uno stradone trafficato, all’ora di punta di un giorno lavorativo. Ci rifugiamo per un attimo in un cortile dove troviamo una scuola di pittura e scultura occidentali, con copie di capolavori accatastate un po’ ovunque, e un signore che gentilmente ci fa fare un giro, prima di tentare timidamente di venderci qualcosa. Ci mettiamo un po’ a reperire un taxi, ma per fortuna ce la si fa, e s’arriva a casa che è ormai buio.


Un altro Natale è passato, il mio primo Natale a Pechino, con i miei genitori. E’ strano, ma sarò uno dei Natali di cui conserverò una memoria più nitida e piacevole in futuro, un Natale dall’altra parte del Mondo, in un Paese non cristiano, ma comunque profondamente sentito.

2008-01-14

Natale Parte Seconda - Natale Pechinese

Dandan arriva a Pechino la sera del 23 di dicembre, dopo un’altra giornata di lavoro. Come al solito, la ricevo all’aeroporto, e la accompagno a casa. Ma a casa mia ci sono i miei, ed ecco l’incontro ufficiale. I miei sono nervosi, sospettosi, la riempiono di domande. Anche lei è nervosa, ma risponde a tutto col sorriso sulle labbra. Io faccio da traduttore smorzando tutti i toni per migliorare la comunicazione. Un’ora e mezza dopo è fatta, l’esame superato. Si va a letto.

Con i genitori nella camera affianco e le pareti di carta velina non è facile fare l’amore, ma d’altra parte più di un mese di separazione ci rende pronti a qualsiasi cosa. E’ una notte speciale, in cui ancora una volta raggiungo quello stato di coscienza che è un gradino sulla scalata della samadhi.

E poi, il giorno dopo è la vigilia di Natale. A sera, abbandoniamo i miei genitori e usciamo. Ho chiamato inutilmente Marino per prenotare due posti al suo ristorante, ma dato che non risponde, tanto vale cambiare programma. Una telefonata a Piero risolve tutto. E allora via, all’Aperitivo, per brindare con un bicchiere di prosecco al nostro Natale. Il locale è quasi vuoto, a parte qualche tavolo di giovani donne single e un italiano che fa a gara di chupiti con Stefano. Io e Dandan sediamo vicini al vetro che separa dal giardino, fronte contro fronte, i bicchieri che tintinnano scontrandosi in un brindisi.

“Sai” le dico “sono un po’ spaventato. Il Natale non è una festa per gli innamorati, ma una festa per le famiglie. Ma non è un caso che io la stia passando con te. Perché mi rendo conto solo ora che un giorno io e te potremmo essere una famiglia”

Lei mi sorride, trova divertenti le mie paure da uomo. Mi bacia. Un ultimo sorso di prosecco e poi via, verso la Dolce Vita, dove ci attende la nostra cena. E’ la prima volta che vedo il ristorante di sera, e non mi aspettavo che fosse così romantico: ci sono candele ovunque, e rimane un solo tavolo libero, in un angolo discreto. Piero è nervosissimo, in completo grigio gira tra i tavoli controllando che nulla sia fuori posto. Ci fa accomodare tenendo la sedia a Dandan.

“Ora capisco perché aspettavi tanto la tua ragazza” mi dice, nel suo accento pistoiese “complimenti, davvero una gran bella figliola”

Faccio fatica a tradurre la cosa a Dandan, ma il complimento mi fa davvero piacere. In effetti è la ragazza di gran lunga più bella nel ristorante, da far girar la testa agli uomini. Ordino una bottiglia di vino. Siamo entrambi alticci, ma è Natale, non voglio badare a spese.

Il cibo è divino, il servizio ottimo, l’atmosfera eccezionale. La musica in sottofondo, per una volta a Pechino, è perfetta, con canzoni natalizie lente e cullanti.

“Questo è di gran lunga il miglior Natale della mia vita” mi dice Dandan. Secondo la tradizione cinese, la situazione perfetta richiede tre condizioni: il momento perfetto (天时), il luogo perfetto (地利), la persona perfetta (人和). La vigilia di Natale, un ristorante italiano romantico a Pechino, la persona che si ama.

“Questo è la serata perfetta” mi dice.

Le nostri mani si stringono, i nostri occhi si immergono gli uni dentro gli altri. Ci baciamo di nuovo, dolcemente, completamente dimentichi del mondo attorno a noi.

Torniamo a casa tenendoci per mano, entrambi alticci e incredibilmente felici. I miei dormono, la casa è buia e silenziosa. La porta di camera nostra si chiude, e i nostri vestiti scivolano di nuovo a terra.

Facciamo l’amore dolcemente, poi disperatamente, poi gioiosamente, come se il tempo non avesse più significato. Sì, questa è la serata perfetta. L’oblio ci copre abbracciati, tirando il sipario su una notte perfetta, la nostra prima Vigilia di Natale assieme.

2008-01-08

Natale Parte Prima – La Festa delle Mazzate

Il Natale è una festa cristiana, e in Cina la data del 25 dicembre o quella del solstizio invernale non sono mai state associata ad una celebrazione specifica. Ma il capitalismo globalizzante è una forza che cambia il mondo, e così anche nel Paese di Mezzo il Natale è diventato un’ottima occasione per acquistare cose inutili, fare festa e ricoprire un po’ qualunque cosa (persone incluse) con lucette colorate intermittenti che tanto piacciono agli abitanti di questa nazione.

Il Natale in Cina assume le sembianze di quello americano stereotipato, naturalmente. Nessuna immagine di angeli o Gesù bambini, niente presepi, assolutamente nessun simbolo cristiano. Si vedono invece un sacco di panzoni barbuti vestiti con i colori della Coca Cola, molti di essi automi a grandezza naturale che ballano meccanicamente e che, di tanto in tanto, ridono col vocione o illuminano gli occhi di luci brillanti. Insieme ai suddetti panzoni, gran copia di slitte e renne. “Merry Christmas” è scritto un po’ ovunque, e praticamente tutti i ristoranti – occidentali, cinesi, ma anche tailandesi o tibetani – mettono su un CD di jingle natalizi irritantissimi, ovviamente a palla e in loop perenne.

Il Natale in Cina è più un’occasione commerciale che una festa sentita, e il massimo impatto sulla vita di un cinese è quello di una serata fuori con gli amici a festeggiare, ballando in discoteca e ubriacandosi la sera della vigilia, per poi forse pentirsene il giorno successivo, che il più delle volte è lavorativo.

In nessun posto al mondo, tuttavia, il Natale assume connotati più peculiari che a Chengdu. I chengdunesi adorano il Natale, per loro non è una semplice operazione commerciale, ma un’occasione di puro divertimento a lungo attesa per tutto l’anno. La sera della vigilia, i chengdunesi escono dall’ufficio e vanno a mangiare con gli amici in un ristorante di piccantissimo hot pot, quindi si riversano in Piazza Tianfu e nelle vie principali del centro, dove migliaia di venditori ambulanti sono già attrezzati con decine di migliaia di mazze in plastica piene d’aria (tipo palloncino, ma con la scorza più dura per resistere agli urti). Tali mazze possono assumere la forma di grossi martelli fluorescenti, magari con qualche pupazzetto della Disney sopra, piuttosto che mazze da baseball a stelle e strisce e fuori misura.

Quando il centro comincia a essere pieno come la metropolitana nelle ore di punta, e respirare diventa complicato, cominciano le mazzate. Prima se le danno gli amici tra di loro, poi si tirano in mezzo sconosciuti, finché il tutto si trasforma in una battaglia violentissima e, per i chengdunesi, divertentissima. C’è che si difende, c’è chi fugge, c’è chi picchia più e più forte, c’è che semplicemente porta le bombolette di schiuma e via in faccia ai passanti, c’è chi si fa sfuggire la situazione sfugge di mano, martella la persona sbagliata e la rissa diventa reale.

Quest’anno 2.000 poliziotti sono stati mobilitati per controllare la situazione, con effetto pressoché nullo, considerata la pigrizia media della polizia cinese. Il sindaco ha fatto un appello televisivo per chiedere ai cittadini di astenersi dal rito, peraltro pare iniziato da un gruppo di studenti cinesi nel 1998; anche questo non è servito a nulla. La notte della viglia, come sempre, i cittadini di Chengdu si sono riversati sotto la grande statua marmorea del Grande Timoniere per prendersi vicendevolmente a botte, con gran risate generali. Come al solito, quelli che non sono finiti in ospedale o alla stazione di polizia più vicina, sono andati al karaoke a bere e cantare.

E così è passato un altro Natale chengdunese. Non è che Dandan non trovi la tradizione della sua città completamente idiota, ma di fatto nella sua esperienza la nozione di Natale era quantomeno incompleta, e non l’aveva minimamente preparata al Natale che avremmo invece celebrato insieme a Pechino.

2007-12-29

La Liberazione dei Pesci

E’ un pomeriggio di dicembre, e il Grande Freddo è arrivato da un paio di giorni. I laghi di Shichahai sono ghiacciati, e io cammino sulle sponde di Houhai con i miei, quando mi trovo davanti una scena curiosa: nella strada si raccoglie una piccola folla, fatta di adulti ma anche numerosi bambini che rovistano chinati in una pozzanghera non ghiacciata, bloccando il traffico di auto che inutilmente suonano il clacson.

Avvicinandomi noto nella pozzanghera una miriade di piccole creature: all’inizio mi sembrano grossi vermi neri, oppure girini, ma mio padre li riconosce al volo. Sono piccole anguille che sguazzano nel gelo invernale. Poco lontano, un triciclo carico di sacche d’acqua contenenti pesci d’ogni genere, grandi e piccoli. Una delle sacche è caduta, e il suo contenuto si è sparso sulla strada. La gente si congela le mani cercando a fatica di raccogliere una a una le anguille, e le getta nel lago che, ghiacciato com’è, non offre l’ambiente ideale per dei pesci. Un ragazzo cinese sui vent’anni ha un’idea brillante: prese due scope, di quelle cinesi corte, le lega con uno straccio ottenendone uno strano oggetto contundente che ricorda un nunchaku di dimensioni sbagliate. Lo solleva e, dal bordo del lago, ne colpisce la superficie bucando lo strato di ghiaccio e permettendo alle sfortunate creature di tornare all’elemento che più si confarebbe a loro, non fosse per la temperatura. I piccoli serpenti nuotano verso il basso fino a scomparire nell’acqua nera. Nel frattempo, la folla è cresciuta alimentandosi di curiosi: turisti stranieri, abitanti del vicinato, semplici passanti.

Quando l’ultima anguilla è stata salvata, le macchine possono riprendere a circolare, e la folla si accalca sulla balaustra del lungolago. E’ allora che noto altri due tricicli carichi di pesci insaccati, che altri ragazzotti scaricano con ben poca grazia sulle rive formando una lunga fila. In quel momento alla folla si aggiunge la figura più di nota – non intabarrata in una giaccavento, ma in una semplice veste arancione, stivaletti gialli e cranio rasato. E’ un monaco buddhista.

La gente gli fa spazio, e questo si avvicina alla balaustra. In molti gli fanno gesti di reverenza. Il monaco estrae un libro scritto in tibetano e comincia a recitare mantra. La folla abbassa il capo, e una vecchia signora con un pezzo di carta in mano, una pagina plastificata con un’immagine di un buddha d’oro e svariate scritte cinesi, prende a girare qua e là benedicendo prima le sacche dei pesci, poi la gente.

Allora tutto assume più chiarezza. Il Buddhismo si basa sulla legge del karma, che insegna che ogni causa ha un effetto, e ogni effetto ha la sua radice in una causa. Poiché le buone azioni portano buone conseguenze, da millenni in Cina si pratica il rito della liberazione dei pesci: la gente compra un pesce al mercato e, invece di cucinarlo, lo fa ritornare alle sue acque facendogli dono della vita. La stessa legge di causa effetto, tuttavia, fa anche sì che a seguito del rito frequente nasca un giro d’affari notevole di gente che cattura i pesci per poterli vendere a chi li vuole liberare, vanificando le buone intenzioni. Ma questo la chiesa buddhista solitamente se lo dimentica. Ma torniamo a noi.

Il monaco recita i mantra tibetani a ruota, nel silenzio della folla immersa in riverenza dell’occasione solenne. Molti stanno a capo chino a seguire la voce monotona del religioso, altri semplicemente osservano aspettando di vedere i pesci liberati. Il tutto si protrae a lungo, finché molti dei curiosi se ne vanno. Tra di essi ci siamo anche noi. Giungo le mani in segno di rispetto per il monaco, la sua comunità e il suo rito, e me ne vado per la strada insieme ai miei.

Abbiamo percorso una cinquantina di metri quando un clamore attira la nostra attenzione. Dalla folla immersa in meditazione un attimo prima si alzano grida, qualcuno è visibilmente alterato, altri ridono imbarazzati alla maniera asiatica. Un uomo se ne va di fretta, sul suo viso si legge un misto di rabbia e vergogna. Mentre cammina veloce verso di noi, le grida continuano. Lo osservo bene, mentre ogni tanto si volta a dare un’occhiata alla folla che lo insulta. E poi attraverso il riverbero del sole al tramonto colgo il dettaglio fondamentale: l’uomo regge sulla spalla una canna da pesca. Si ferma a un centinaio di metri, con l’aria di chi si sente offeso senza ragione, e getta la sua lenza, sempre lanciando occhiate furtive verso la folla, che riprende il rito.

Per ogni causa c’è una conseguenza. Per ogni conseguenza, una causa. Questa è la legge universale rivelata dal buddha. Curiosamente, in Cina, questa legge sembra funzionare in maniera meno ovvia e prevedibile che altrove, o forse è la gente che la interpreta in modo diverso. Cosa commenterebbe il buddha? Forse farebbe finta di niente, proprio come i suoi fedeli che recitano imperterriti i mantra sacri; come il pescatore, che guarda ora la lenza ora i fedeli; o come me, che scuoto la testa, ormai quasi abituato ad essere stupito ogni giorno, e riprendo il mio cammino con uno strano sorriso.

2007-12-23

Uomini e Bestie

I pechinesi hanno una particolare predilezione per gli animali, ma non come quella dei cantonesi, che gli animali li cucinano: ai pechinesi piace tenerli in casa, come compagni. E’ una tradizione antichissima, su cui sono stati scritti anche dei libri – su come meglio allevare e selezionare le varie bestiole da compagnia.

I pesci sono scontati – praticamente tutti hanno i pesci rossi, ma qui non sono semplici come da noi: ci sono diverse razze di pesci rossi che variano per dimensioni e forma, e i più ricercati sono grossi quanto un pugno, tondi tondi, con gli occhi sporgenti e delle lughe pinne. Un po’ simili ai leoni o ai draghi cinesi se volete, corrispondono perfettamente ai canoni estetici locali, che noi definiremmo “sproporzionati”. Poi ci sono vari altri pesci bianchi, neri, colorati, sempre selezionati per gli occhi enormi e bulbosi e le lunghe pinne simili a strascichi. Wang Li per esempio ha un acquario professionale lungo un metro con dentro almeno una trentina di pesciolini, che ciba scientificamente per averli più sani e colorati.

Poi ci sono i cani, i pechinesi appunto, quelle strane bestiole grassocce, sgraziate, con il muso piatto e le orecchie pendule. Per l’appunto, agli occhi dei cinesi meravigliosi. Il cane pechinese più famoso era Peonia, il cucciolo dell’Imperatrice Vedova Ci Xi che la seguiva ovunque, e cui veniva tributato lo stesso onore che alla padrona dagli eunuchi di palazzo. Ci sono varie classificazioni dei pechinesi che variano per lo più a seconda del colore – bianco puro, chiazzato, bianco con le zampe e le orecchie brune, ecc. Recentemente la moda ha fatto anche apparire gran quantità di volpini, abbondantemente cotonati in modo da divenire tremanti palle di pelo con un musetto che spunta, e chihuahua, grossi come ratti, ma sempre con queste orecchie puntute e gli occhi sporgenti. Adorati dai loro padroni, in inverno tutti hanno il loro cappottino in tela cerata contro il vento, appena cacano subito il padrone è pronto a raccogliere il tutto con il sacchetto di plastica, e mai che li si veda sporchi o arruffati: non avete idea del tempo che viene speso per lavarli e pettinarli.

I gatti riscuotono indubbiamente meno successo, sarà per l’eleganza, anche se in media i gatti di Pechino sono grossi una volta e mezza quelli italiani, col pelo lungo e arruffato e stra-aggressivi. Non si possono considerare al livello degli altri animali, ovvero non c’è una vera tradizione dell’allevamento dei gatti, sono più animali che si tengono per cacciare i topi che per compagnia e piacere. C’è chi li tiene negli hutong, in modo che vaghino liberi, e chi li tiene in appartamenti, nascosti agli occhi del mondo.

Decisamente più tradizionali e tipicamente cinesi sono invece i grilli. Si comprano d’estate, e li si tiene tutto l’inverno in casa, per godere del loro canto. Sono grossi grossi, costano poco e si trovano in piccole gabbie tonde di paglia intrecciata, ma chi ci tiene prende loro apposite e costosissime gabbie ricavate da zucche cave o legno pregiato, e in taluni casi anche osso; ce n’è di intarsiate e bellissime, veri pezzi d’arte. Il bello dei grilli è che uno li può portare con sé, tenendoli in tasca o dentro la giacca, e poi li può far combattere. Il combattimento dei grilli è un divertimento antico e ancora oggi onorato, c’è gente che ci esce di testa, e spende tutto il suo tempo ad allevare e addestrare grilli per la lotta.

Infine gli uccelli, di ogni varietà. I più comuni sono simili ai canarini, solo di colori diversi: anche qui sulle gabbie ci si sbizzarrisce, e ce n’è di veramente belle e preziose. Soprattutto i vecchi amano gli uccelli, e la mattina o al tramonto li si vede camminare con le loro gabbie (c’è chi ne ha fino a quattro) in mano, coperte con una tela blu in modo da non innervosire la bestia. Si dice che il movimento della gabbia stimoli le gambe dell’uccello, rafforzandole, e al tempo stesso tenga in esercizio i polsi del vecchio. I pensionati si trovano al parco, o nell’hutong, o in qualunque angolo della città, attaccano la gabbia a un ramo, un tubo, una partica, rimuovono la tela blu e si godono il concerto. Quelli più bravi tengono i piccioni: il bello dei piccioni è che, anche se non cantano, volano in stormo e si possono addestrare. Si attacca una specie di fischietto alle zampe dei più svegli, così gli altri li seguono, e tante volte li si sente da lontano, come un rombo, e i si vede volare in cerchio attorno alla piccionaia. C’è gente che fa le gare con i piccioni viaggiatori, per vedere chi ha i più veloci e intelligenti, quelli che per primi raggiungono un certo luogo a decine di chilometri di distanza e tornano indietro. E poi ci sono i fenomeni con le rondini ammaestrate – la rondine è l’uccello simbolo di Pechino: li si vede con dei bastoni a cui è legato il volatile. Il vecchio lancia in aria briciole o semi, ed ecco che la rondine spicca il volo, afferra il cibo, tora sul trespolo e ingoia; fenomenali.

I pechinesi hanno davvero un amore particolare per gli animali domestici, e ovunque a Pechino si può ammirare la convivenza non utilitaria dell’uomo con la bestia. Eppure, eppure... non può essere così semplice e lineare in Cina, ci deve essere un eppure...

Eppure col tempo ci si accorge che l’amore dei pechinesi per le loro bestie è un amore da dominatori. L’animale è un gioco e al tempo stesso un modo per farsi vedere, motivo di vanto. I pechinesi non sono schiavi dei loro animali, ma tengono bene a mente la gerarchia, così importante per tutti i cinesi. Il padrone ordina, l’animale esegue come gli è stato insegnato: se fa bene è premiato, se no viene punito. Animali grassi e viziati non se ne vede, gli uccelli che non cantano hanno vita breve, e nessuno vuole un cane vecchio e spelacchiato.

Basta pensare al destino di Peonia, per capire la natura dell’amore dei cinesi per i loro animali. Morta la sua padrona, l’Imperatrice Vedova, pare che anche Peonia si sia intristito e sia morto di lì a pochi giorni, fedele fino alla fine alla vecchia che rovinò la dinastia Qing. Ma i pechinesi raccontano che fu il capo eunuco a fare uno scambio di cani, che quello morto non era l’originale, e che il buon Peonia fu invece venduto sottobanco, per una somma ingente, a un facoltoso mandarino che voleva pavoneggiarsi nell’avere il cane appartenuto all’Imperatrice.

Non so cosa sia meglio, il cane-schiavo che c’è qui, o il cane-imperatore al cui servizio è tutta la famiglia, in Occidente. Francamente devo ammettere di odiare l’idea di avere un animale in casa, che dipende da me per sopravvivere, che non è libero di uscire né del resto autosufficiente per sopravvivere alla libertà. I gatti son felice di sentirli miagolar la notte sui tetti, i grilli cantare tra le fronde, le rondini volare libere nel cielo a primavera, e i cani... be’ quelli che li tenga chi abita in campagna, o al massimo chi ha il cortile per lasciarli correre e saltare. A ognuno il suo, immagino, e in casa mia... solo umani!